sabato 18 agosto 2012

Costume e cosmesi nell'antico Egitto

Dal 3100 fino al  343 circa a.C. lungo il corso del Nilo si sviluppò la civiltà dell’antico Egitto, che terminò con l’invasione persiana - seguita dalla conquista greca - ed infine dalla colonizzazione romana nel 30 a.C. In circa 3000 anni di storia gli egiziani seppero creare uno dei regni più importanti, longevi e fecondi dell’antichità, pur dovendo affrontare crisi e instabilità. Il termine "Egitto" deriva dalla etimologia della corruzione greca della frase "Het-Ka-Ptah", o "Casa dello Spirito di Ptah", uno dei vari Dei del complesso pantheon  egiziano.  
Come è noto, la civiltà egizia era distribuita secondo uno schema piramidale al cui vertice stava  il Faraone, termine di origine greca che significava la Grande casa.  Il sovrano era considerato figlio di Dio e designato con vari nomi, tra cui Ra (il dio Sole) Amon, Horus il dio falco. Sotto il sovrano stavano tutte le altre classi sociali: i sacerdoti, i funzionari, gli scribi, i militari, gli artigiani, i contadini, riconoscibili – nei bassorilievi e nelle pitture parietali – per il tipo di pettinatura e di abbigliamento. La donna egiziana invece, pur essendo solitamente madre e padrona della casa, era giuridicamente uguale al marito e proprietaria di beni. Poteva anche lavorare nel tempio, ad esempio suonando strumenti durante le cerimonie, oppure esercitando vere e proprie funzioni sacerdotali, o studiare medicina e ostetricia, e intraprendere carriere amministrative. Infine, tutto ciò che riguardava l’abbigliamento, l’ornamento della persona e la cosmesi, rientrava nella sfera delle competenze femminili: si sono trovati titoli come “signora della manifattura delle parrucche”, oppure “intendente della camera delle parrucche”.
Vivendo in un paese caldo, l’abito egiziano era leggero e semplice, ad eccezione di quello del Faraone che - rappresentando la divinità - doveva essere carico di simboli esclusivi: gioielli sfarzosi, ma soprattutto diversi tipi di copricapi.  Il più caratteristico tra questi era il Nemes, una sorta di cappuccio in stoffa a righe gialle e verdi, che avvolgeva il capo aprendosi lateralmente in due ampie ali che ricadevano sul petto, mentre dietro alla nuca era legato da un grosso nodo; la doppia corona  formata da due elementi sovrapposti, ricordava la riunificazione delle due regioni dell’Alto Egitto (rossa) e Basso Egitto (bianca) avvenuta in epoca antichissima.  Infine il cappuccio verde rotondeggiante, forse di cuoio, fu usato sempre più spesso dal Nuovo Regno, probabilmente indossato come corredo guerresco  Con significato emblematico, le corone occupavano il punto più elevato del corpo, implicando quindi il concetto di perfezione e superiorità.  Solo il Faraone poteva indossare una barba posticcia legata con due nastri dietro le orecchie; anche Hatshepsut, una delle poche donne ad accedere alla carica reale, era raffigurata con questo ornamento. Sui copricapi era sempre inserito l’Ureo, il cobra sacro alla dea Uadjet, e a volte l’avvoltoio, collegato alla dea Nekhbet, le due signore del regno incaricate di proteggere il sovrano e il paese.
Caratteristica della moda egiziana fu la quasi totale assenza di cambiamenti, eccezion fatta per il costume del Nuovo Regno quando, forse per influenza dei popoli orientali, le vesti furono realizzate in lino trasparente e plissettato.
Il costume femminile era costituito da una tunica colorata e stretta fermata da due bretelle. Nel Nuovo Regno venne introdotta una doppia tunica bianca, legata sotto al seno a formare delle false maniche. L’abito mostrava la linea del corpo e il seno. La donna comune non indossava copricapi, mentre le regine avevano una corona a forma d’avvoltoio.
L’abito maschile comprendeva un gonnellino detto Shenjut, da cui probabilmente deriva il nome Sindone, che nel Nuovo Regno si allungò sotto i polpacci. Nello stesso periodo si indossò una tunica superiore trasparente.
Ai piedi si indossavano sandali di papiro intrecciato, ritrovati anche nelle sepolture, mentre i guanti erano esclusivo appannaggio del Faraone.
Le parrucche di capelli umani erano diffuse fino dall’antichità per ambo i sessi. Per quanto riguarda la donna, fino alla IV dinastia erano di media lunghezza, divise da una riga nel mezzo. Fu poi introdotta una parrucca più lunga, con due bande ricadenti lateralmente sul petto, e una sulla schiena. Dalla XVIII dinastia, le parrucche delle signore altolocate diventarono sempre più torreggianti, mentre aumentò la varietà delle acconciature. Decorate con ghirlande di loto, nastri, coroncine d’oro e gioielli, o vere e proprie reti in oro, potevano scendere a treccine sul petto ed avere piccole ciocche all’estremità, a volte attorcigliate con lamine in oro.  Il colore preferito era il nero, come dice anche una poesia del Medio Regno: “Nera è la tua pettinatura, più del nero della notte e delle bacche del pruno”. La cura della capigliatura era fondamentale: si ammorbidivano i capelli con balsami preziosi, si cercava di favorirne la crescita o di colorarli con l’aiuto di olio di serpente, henné e polvere di cartamo, mentre per fissare ciocche e riccioli posticci si usavano miele d’api e gomma arabica. Le ricette per le chiome che si sono pervenute comprendono anche l’uso della magia, specie per combattere le rivali in amore:
“per ottenere capelli neri: usare sangue e corno di bue nero; fegato d’asino; girino preso da un canale, un topo. Per prevenire i capelli bianchi: spalmarsi con un unguento fatto col sangue ottenuto da una vertebra di uccello, mescolata a puro laudano; stendere la mano sul dorso di un nibbio vivo e appoggiare una mano sul dorso di una rondine viva. Per far perdere i capelli a una rivale:  cuocere nel grasso un verme e una salamandra assieme a una foglia di loto e spalmarle il composto in testa”.
I criteri estetici egiziani si possono dedurre dalle opere d’arte: si basavano su un canone preciso, come si nota da reticoli e diagonali ritrovati sotto gli affreschi. Tale canone era ispirato da Maat, dea dell’ordine cosmico solitamente rappresentata come una piuma o una donna con una piume in testa. Si apprezzava la donna magra e dalle anche strette, dal collo lungo, dal portamento eretto. Venivano curate meticolosamente l’igiene e la cosmesi, non solo delle classi elevate, ma anche di quelle popolari: lo testimonia il “papiro dello sciopero” ritrovato a Deir el Medina, un villaggio operaio costituito per lavorare alle tombe della Valle di re.  Nel testo si accenna chiaramente alla necessità di unguenti che venivano forniti per proteggersi dalle scottature assieme a pane, birra, verdure e pesce.
Nelle case egiziane non mancava mai una zona per il bagno, chiamata “fresca come altre mai”, dove si eseguivano le abluzioni non trascurando l’igiene orale. La bellezza del corpo femminile era sotto la protezione delle dee Hator, rappresentata da una mucca, e Bastet, raffigurata come una gatta. I cosmetici – come è noto – erano comunemente usati da maschi e femminee conservati in preziosi cofanetti diversi dei quali rinvenuti nelle tombe. C’erano prodotti per il viso e per il corpo, le labbra, le mani e le unghie; grande importanza aveva l’occhio, che ricordava quello del Dio Horus, considerato un potente amuleto. Gli occhi erano sottolineati con una pesante riga di Kohl, minerale pestato e mescolato a grasso animale, e composto da malachite, galena e zolfo che, oltre a valorizzare l’estetica, costituiva un fondamentale rimedio per proteggere la vista dalle infezioni e dai raggi del sole. Come ombretto invece si adoperava la polvere verde di malachite. Nelle ricette ritrovate si fa riferimento all’ocra rossa, ai coleotteri e alle formiche tritate per le labbra, alla polvere di alabastro mista a carbonato di soda, sale e miele per il viso, all’olio di oliva, al latte, all’incenso al cipero (pianta erbacea fiorifera) per le rughe, al grasso di rigogolo per tenere lontane le temutissime mosche.
Profumi e unguenti costituivano infine elementi fondamentali per la vita privata e religiosa; usati nelle cerimonie sacre, preparati spesso nei templi e investiti di un profondo significato simbolico, erano intensi e penetranti: mirra, incenso, nardo, cannella, fiori di iris, terebinto, un arbusto tipico della macchia mediterranea. Altre ricette tra la magia e la ricerca giudiziosa del benessere ricordano: l’olio di semi di trigonella (una pianta erbacea detta anche “fieno greco” con cui si diceva si potesse “trasformare un vecchio in giovane”) l’olio di mandorle, l’olio di cedro, talmente importante da essere affidato, nel palazzo reale, a “soprastanti e distributori di unguenti”. In parecchie raffigurazioni, specie nelle scene di banchetti, uomini e donne hanno sul capo un cono fatto di unguenti profumati che si scioglieva col calore, irrorando vesti e capelli. Appiccicando le vesti al corpo era anche un veicolo di seduzione: nell’antico Egitto l’attività sessuale era considerata una promessa di rinascita.
Molte formule di profumi sono state ritrovate incise sulle pareti dei templi, e affidate alla protezione del dio Thot, inventore delle lettere e della chimica. Famosi nel mondo antico, erano esportati in tutto il bacino del Mediterraneo.

Bibliografia:
Paolo Rovesti, Alla ricerca dei cosmetici perduti, Blow up, Venezia, 1973
Sergio Donadoni (a cura di), L’uomo egiziano, Laterza, Bari, 1996

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