martedì 18 ottobre 2016

Donna in pantaloni: breve storia di un pregiudizio

Correva l'anno 1989 quando uscì in Italia il libro di una scrittrice debuttante, Lara Cardella, che nel giro di poco tempo diventò un best-seller internazionale: “Volevo i pantaloni” narra la tormentata adolescenza di una giovane siciliana che cerca di emanciparsi da un ambiente chiuso e oppressivo in cui le donne - completamente succubi del marito e dei parenti maschi – erano bollate come prostitute quando indossavano i pantaloni. Prima di allora nel 1961 il cardinale Siri, arcivescovo di Genova, si era scagliato contro l'uso femminile “del vestito degli uomini”, che secondo sua Eminenza: “cambiava la psicologia”, affondando verso il basso (ossia verso la lussuria) i rapporti tra uomo e donna. Fino agli anni Settanta la riprovazione verso le ragazze che portavano il capo peccaminoso era diffusa in quasi tutto il territorio italiano, non così nei paesi di lingua anglosassone, molto più disinvolti in fatto di abbigliamento.
I pantaloni sono nati più di duemila anni fa grazie ai nomadi delle steppe euroasiatiche che - vivendo gran parte della loro vita a cavallo - necessitavano di robusti gambali, a quanto pare indossati sia da uomini che da donne. Da queste popolazioni barbare nacque probabilmente il mito delle leggendarie Amazzoni, rappresentate nella ceramica ellenica con una sorta di tuta aderente che copriva gambe e braccia, moda che nella realtà non fu mai imitata dai greci, che preferivano di gran lunga la sottana per ambo i sessi. Bisogna arrivare ai romani perché i calzoni entrassero nel guardaroba maschile nostrano: quando infatti varcarono le Alpi, i fieri conquistatori del mondo rimasero talmente sbalorditi dal primo impatto con i guerrieri del nord vestiti con strani tubi che coprivano le gambe, che li chiamarono “Galli bracati”, e – se pur con molta diffidenza – finirono per adottare il nuovo indumento proibendolo però a fanciulle e matrone.Non è chiaro per quale motivo le antiche società occidentali – al contrario di quelle orientali – vedessero nell'uso dei pantaloni da parte della donna un intollerabile tentativo di appropriarsi non solo di un modo di vestire, ma anche di prerogative e privilegi squisitamente maschili: forse i nostri antenati – in memoria delle Amazzoni – temevano cosa gli sarebbe successo se l'altra metà del cielo avesse potuto mettere le mani su armi e calzoni. A sancire il divieto fu anche un versetto del Deuteronomio, il quinto libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana che al capitolo 22 recita: “La donna non porti indosso abito d'uomo (…) perciocché chiunque fa tali cose è in abominio al Signore Iddio tuo”. Durante il Medioevo, mentre l'abito maschile si accorciò fino a mostrare cosce e perfino glutei, quello femminile rimase giocoforza ancorato alla tradizione del lungo. Uno dei motivi che portarono Giovanna d'Arco al martirio fu che anche in carcere la cocciuta pulzella continuò a vestirsi da uomo con i capelli tagliati all'altezza delle orecchie; i giudici scandalizzati la spedirono al rogo, nonostante che lei proclamasse che quel tipo di abbigliamento le era stato imposto dalle “voci”.
Nei secoli successivi la situazione rimase sostanzialmente invariata, a parte la comparsa, al tempo molto criticata, di pantaloncini corti in tessuto prezioso nascosti sotto le gonne, le cosiddette “braghesse”. Adottate per la prima volta in Francia da Caterina de Medici che le usava per montare a cavallo, sembra eccitassero le fantasie maschili, e fecero ben presto parte dell'arsenale seduttivo delle cortigiane come primo esempio di biancheria sexy della storia. Sia nel Cinquecento che nel Seicento le disposizioni suntuarie vietano a queste “femmine scapestrate” di portare indumenti dell'altro sesso, ma nel frattempo la moda aveva lanciato un'ulteriore novità: attorno agli anni Trenta del XVIII secolo, una compagnia di attori italiani della Commedia dell'arte si esibì alla corte di Francia; tra loro Pantalone dei Bisognosi indossava una casacca e un paio di braghe prive di legatura sotto il ginocchio e lunghe fino al polpaccio. Era un capo di origine popolare, ma l'annoiata aristocrazia se ne innamorò e se ne fece fare una versione nobilitata da una cascata di nastri che ebbe enorme successo, e fu ribattezzata Pantalone in onore della maschera in questione. La rivoluzione francese, che aveva imposto i sacrosanti principi di "Liberté, Egalité, Fraternité, si guardò bene di applicarli alle donne: una legge del 17 novembre 1800, o meglio del 16 brumaio dell'anno IX, vietava tassativamente i calzoni femminili. La cosa curiosa è che in Francia tale divieto è rimasto in uso - nonostante la sua manifesta assurdità - fino al 2013, al punto che negli anni Settanta una deputata arrivò a minacciare i commessi di entrare in parlamento in mutande, dal momento che non poteva farlo in pantaloni.

Durante il 1800 parecchie donne coraggiose tentarono l'avventura di travestirsi da uomo. Le più famose e spregiudicate furono artiste come la pittrice Rose Bonheur e la scrittrice George Sand, che volevano in tal modo manifestare la propria indipendenza beneficiando anche di una certa benevolenza delle autorità. Oltre a queste intellettuali ci furono molte ragazze anonime che – non godendo di protezione maschile e per scampare alla fame e alla prostituzione– si tagliarono i capelli imbarcandosi come marinai o servendo nell'esercito. E' storicamente accertato che alcune centinaia di donne combatterono durante la Guerra civile americana, a volte prendendo segretamente il posto dei loro mariti e fratelli di cui indossavano anche gli abiti. Nel mondo occidentale deroghe alle leggi si potevano ottenere solo per motivi di lavoro, perché polvere e sporcizia non erano certo adatte alle gonne lunghe: dal momento che all'epoca le attività di estrazione erano abbondanti e ben pagate, donne forti e intelligenti non esitarono a scandalizzare il perbenismo vittoriano vestendosi da uomo e affrontando mansioni dure ma redditizie. Così in Inghilterra le ragazze che scavavano in miniera mettevano i pantaloni, affiancate in America dalle cercatrici d'oro e dalle mandriane dei ranch. A cavallo tra Ottocento e Novecento e grazie al successo di massa dello sport e delle attività fisiche, le norme proibizioniste furono ulteriormente addolcite col permesso di usare abiti maschili se si andava a cavallo, si faceva alpinismo o si pedalava sul velocipede (come si chiamava allora la bicicletta).
I primi movimenti per l'emancipazione femminile si manifestarono in America nel primo ventennio dell'Ottocento: l'incontro di alcune scrittrici e attiviste per i diritti delle donne tra cui Amalia Bloomer, sollevò il problema della scomodità degli abiti tradizionali delle signore. Amalia aveva fondato “The Lily”, una rivista in cui tra l'altro sosteneva che corsetto, sottogonne inamidate, gonne lunghe fino ai piedi, costituivano una mortificazione e un impedimento alla libertà di svolgere qualsiasi tipo di attività. Gli indumenti proposti in sostituzione erano tutto sommato pudici: una tunica al ginocchio sotto cui spuntavano ampi pantaloni allacciati alle caviglie, mutuati dal costume delle donne turche. Esportati in Europa, i Bloomer, come vennero chiamati i calzoni, faticarono ad affermarsi perché per strada le coraggiose che osavano metterli erano bersaglio di insulti pesanti, e – a seconda della stagione - di palle di neve o frutta marcia. Scacciate anche dalle chiese e dalle sale per conferenze, le sostenitrici dell'abito riformato dovettero aspettare due generazioni e molti incidenti mortali causati dalle ampie e ingestibili crinoline - come restare impigliate nelle ruote dei carri o rovesciare candele e morire carbonizzate – per riuscire a far sentire la loro voce.
Ci vollero i due terribili conflitti del Novecento perché la gente cominciasse ad abituarsi al nuovo indumento, quando - mentre gli uomini erano al fronte - la popolazione femminile fu chiamata a sostituirli al lavoro, nelle fabbriche, nei campi, negli uffici e negli ospedali. Poter uscire di casa, avere la possibilità di lavorare e manovrare denaro, fu una conquista che influenzò profondamente la mentalità femminile, tant'è che negli Venti spopolò il tipo della “garçonne”, detta in Italia “maschietta”, una ragazza magra e piatta che – se non aveva i pantaloni - si tagliava i capelli corti, fumava, si truccava. Un ulteriore contributo fu dato dal cinema americano con l'invenzione dello “Star System”, che promuoveva e valorizzava attori che sarebbero diventati famosi in tutto il mondo. Tra le dive Marlene Dietrich, fotografata per la prima volta durante un viaggio transoceanico in tenuta da yachtman (giacca maschile e calzoni), impose la sua immagine di donna androgina, sensuale e sfacciata che avrebbe continuato a coltivare e a diffondere. Anche Katharine Hepburn, ironica, sportiva ed educata in una famiglia aperta e moderna, non disdegnava i pantaloni. Sulla loro scia le ragazze d'oltre oceano iniziarono a portarli con più disinvoltura soprattutto nel tempo libero, mentre nello stesso periodo in Italia il fascismo si scagliava contro questo indumento che negava i tradizionali ruoli femminili e avviava alla “decadenza della razza”. 
Durante la Seconda Guerra Mondiale donne pilota statunitensi e inglesi furono impiegate – pur non combattendo - per sostituire i colleghi maschi in azioni di supporto militare, al contrario delle aviatrici russe che parteciparono attivamente ai bombardamenti. Nessuna di queste femmine coraggiose aveva la sottana. E dopo? Dagli anni Sessanta in poi grazie all'enorme successo dei jeans – l'uniforme del movimento hippy – e a sarti d'avanguardia come André Courrèges che li introdusse nelle sue collezioni, l'uso dei pantaloni da donna cominciò lentamente ad essere considerato normale anche in Europa e soprattutto in Italia. Alla fine del Novecento le vendite globali dei calzoni aumentarono del 167 per cento, segno che l'emancipazione femminile vestiaria (almeno quella) aveva vinto una millenaria battaglia. 
Fonti:
http://the-toast.net/2014/08/07/wearing-pants-brief-history/http://fashion



mercoledì 27 aprile 2016

Le spericolate acconciature di Maria Antonietta



Quindici anni sono decisamente pochi ai nostri occhi per sposarsi col futuro re di Francia allo scopo di assicurargli una discendenza  e consolidare così le traballanti relazioni tra quel paese e l’Austria. Fu tuttavia quello che accadde a Maria Antonia Giuseppa Giovanna d’Asburgo-Lorena, meglio nota col nome di Maria Antonietta, la sfortunata regina che pagò con la propria testa il fatto di non averne una lungimirante e di avere commesso un mucchio di imprudenze in un periodo storico dove invece era necessario agire con acume, fermezza e diplomazia.  Era stata promessa al Delfino ancora bambina, e prima di partire per Parigi i suoi istitutori viennesi cercarono con fatica di prepararla per il futuro compito;  Maria Antonia tuttavia era capricciosa e svogliata e ai libri preferiva di gran lunga la moda parigina che a quell’epoca era copiata nelle corti e nei salotti di tutta Europa. Non sapeva nulla del fidanzato Luigi Augusto, un ventenne grassoccio che adorava la caccia e aveva l’hobby di montare e smontare orologi e che per sette anni non fu capace di fare all’amore con sua moglie.
Una volta arrivata a Versailles questa ragazza spensierata si trovò  a disagio con le vecchie cariatidi della corte, che ricambiarono l’antipatia soprannominandola “l’autrichienne”, l’austriaca;  trascurata dal marito, isolata e senza alcun ruolo politico, cominciò ad annoiarsi e decise di approfittare dei piaceri della moda e di assumere il ruolo – se non di regina di Francia – di signora assoluta del “bon ton”. 

Uno dei comportamenti che suscitarono la riprovazione della nobiltà fu quella di far venire a corte due persone provenienti dal popolo, la sua sarta personale, Mademoiselle Rose Bertin, e il parrucchiere Leonard Autié. Rose, che servì la sua sovrana per una ventina d’anni, guadagnò grazie a lei e al commercio con le altre dame di corte cifre da capogiro: Maria Antonietta aveva un appannaggio stratosferico (che non le bastava mai) e spendeva follie per lanciare nuove mode che erano immediatamente imitate dalle dame dell’aristocrazia.
Anche Leonard si inserì nel gioco: nel 1774 inventò un’acconciatura alta il doppio della testa della regina, il “pouf”: si trattava di una ridondante costruzione composta da un leggero telaio metallico e cuscini imbottiti su cui venivano tesi i capelli dopo essere stati impomatati e suddivisi in ciocche, a cui si mischiavano metri di garza e altri capelli posticci, boccoli, tirabaci. Il tutto era poi incipriato e guarnito con piume di struzzo, nastri e pietre preziose. Sembra che sulle prime la regina, guardandosi allo specchio, sia rimasta un po’ perplessa, ma quando l’astuto parrucchiere le promise che la sua sarebbe stata tra le acconciatura più alte di Parigi, Maria Antonietta, felice, si lasciò convincere. 

L’invenzione del pouf conquistò il pubblico femminile europeo per sei anni consecutivi, durante i quali l’architettura delle teste arrivò fino a raggiungere il metro di altezza diventando sempre più complessa e stravagante. Leonard, che si considerava un artista e che aveva un gusto fortemente teatrale, inventò per la duchessa di Chartres il pouf “sentimentale”, composto da 14 metri circa di garza su cui ondeggiavano molti pennacchi inframmezzati a figurine in cera: il ritratto del primogenito della nobildonna in braccio alla nutrice, un negretto a cui era molto affezionata e un pappagallo che beccava un piatto di ciliegie.

Quella che si potrebbe chiamare “la febbre del pouf”  mostrò al popolo esterrefatto  donne con la testa piena di sciami di farfalle, di amorini e gabbie con uccelli vivi, di battaglioni in miniatura per le mogli dei militari, di urne crematorie per le signore in lutto (i soggetti andavano dal lezioso al patetico), mentre per mantenere i fiori freschi si tuffavano i gambi in fiale piene d’acqua mescolate ai capelli ; né mancavano le acconciature “alla giardiniera” con carciofi, carote e barbabietole e fiori di patata, tubero a quei tempi considerato velenoso e che grazie a Maria Antonietta diventò popolare.  Eventi storici e di cronaca diedero il via a nuove follie: nel 1778 i francesi si lanciarono nella guerra d’indipendenza americana combattendo con una loro fregata contro la nave inglese Arethusa. Lo scontro fu il pretesto per l’invenzione dell’acconciatura alla Belle Poule, con l’imbarcazione che svettava in cima alle teste, vele al vento, sartiame  e artiglieria compresi. Si può dire che ogni giorno nasceva una nuova pettinatura, scomoda e priva di senso, mentre il paese andava in bancarotta e il popolo, che all’inizio aveva provato simpatia per la coppia reale, cominciò a scaricare su di loro tutto il suo risentimento. Bersaglio preferito furono però l’incosciente sovrana - completamente disinteressata ai bisogni dei francesi - e il suo assurdo tenore di vita: basti dire che quando scoppiò un’insurrezione popolare detta “guerra delle farine” causata dall’aumento del prezzo del grano, l’unica risposta di Maria Antonietta fu mettersi in capo un “berretto alla rivolta”inventato da Rose Bertin.

Solo in un caso la moda contribuì a diffondere un’abitudine sanitaria che avrebbe salvato la vita di molte persone: in Francia il vaiolo era endemico e aveva causato molte morti, tra cui quella straziante di Luigi XV e di una cinquantina di cortigiani residenti a Versailles. Si conosceva tuttavia la pratica dell’inoculazione – venuta dall’Oriente – che consisteva nell’ iniettare una piccola quantità di pus prelevata dalle lesioni di un malato sotto la pelle di un paziente sano, in modo da stimolare la produzione di anticorpi senza causare l’insorgere del morbo. Avendo assistito al decesso del padre, Luigi Augusto si fece coraggio e decise di sottoporre alla pratica sé stesso e i suoi due fratelli. L’esito positivo del trattamento fece nascere la moda del “pouf all’inoculazione” di cui non abbiamo immagini, ma che sappiamo essere stato costituito da un olivo coperto di frutti intorno al quale si arrotolava il serpente del dio della medicina Asclepio, il tutto coronato da un sole che sorge (il re) a simboleggiare il trionfo della scienza sulla malattia. La commemorazione dell’evento, esposta in cima alla testa delle signore alla moda, contribuì a incentivare largamente la pratica a tutto beneficio della salute pubblica.

Le pettinature alte creavano non pochi problemi: intanto erano costosissime, sia per le ore di lavoro dei parrucchieri, sia per la qualità dei materiali usati che comportavano anche l’aggiunta di piume rare, di perle, gioielli e perfino automi. Erano scomode da portare perché tendevano ad impigliarsi nei lampadari e a cadere di sotto quando le signore si affacciavano alla finestre.

I pennacchi erano talmente ingombranti che non entravano dalla porta delle carrozze e la stessa Maria Antonietta dovette rimuoverli per recarsi a un ballo dato dalla duchessa d’Orleans. Per arricciare le chiome occorreva passare una notte intera con la testa carica di bigodini, sedute su una sedia per non disfare il sapiente e fragile edificio. Le pomate erano a base di grassi animali come il midollo di bue o il grasso d’orso, a volte mescolate con componenti vegetali come l’olio di nocciole e aromatizzanti come i chiodi di garofano e l’essenza di limone: così lavorate le acconciature potevano durare una settimana, ma dovevano essere disfatte e lavate prima che il grasso si irrancidisse e la testa si riempisse di parassiti.

Nel 1781 Maria Antonietta diede finalmente alla Francia il suo primo erede al trono che – se risolveva il problema ereditario – causò alla sovrana una catastrofica perdita di capelli. Fu una dura prova per Leonard, che vedeva svanire i suoi privilegi e la sua influenza nonché dimagrire il portafogli. Ma il genio è genio e lui si adattò alla situazione tagliando i capelli della regina piuttosto corti e lasciando qualche boccolo sulla nuca: l’acconciatura fu denominata “à l’enfant” e nel giro di un paio di settimane fu imitata da tutte le dame di corte.
Fu l’ultimo colpo d’estro del parrucchiere che dodici anni dopo dovette riparare in Germania per fuggire alla furia della Rivoluzione. In una fredda mattina di ottobre  del 1793 il boia avrebbe tagliato definitivamente le chiome leggendarie della regina e mostrato la sua testa mozzata e quasi priva di capelli alla folla impazzita e festante.