mercoledì 27 giugno 2012

Le leggi suntuarie o la regolamentazione del lusso

In piena Rivoluzione francese un decreto del l’8 brumaio anno II, ossia del 29 ottobre 1793, ruppe in modo radicale le convenzioni sul vestire che erano vigenti in Europa fin dai tempi degli antichi romani: “Nessuna persona, dell’uno o dell’altro sesso, potrà costringere alcun cittadino o cittadina a vestirsi in modo particolare, sotto pena di essere considerata o trattata come sospetta o perturbatrice della pubblica quiete; ognuno è libero di portare gli abiti o gli accessori del suo sesso che preferisce”. In altre parole si vietava qualsiasi intervento legislativo che limitasse o proibisse  l’abbigliamento a qualsivoglia classe sociale. Al giorno d’oggi facciamo fatica a capire come sia possibile irreggimentare la moda, ma per entrare nelle usanze degli antichi dobbiamo sapere che, almeno fino alla Rivoluzione, esistevano specifiche leggi che limitavano il lusso e non solo in campo vestiario, vuoi per scopi morali, vuoi per rimarcare la differenza tra classi sociali, o per contraddistinguere coloro che appartenevano a religioni odiate come gli Ebrei.
Benché fossero conosciute fino all’epoca dei greci, le leggi Suntuarie, dalla parola latina  “Sumptus”, ossia spesa, si diffusero in Europa con il diritto romano: con le loro minuziose descrizioni sono un prezioso documento sulla moda e sulla morale antica. Nel 215 a.C. fu promulgata a Roma la Lex Oppia che intendeva limitare il lusso femminile con intento di evitare spese eccessive in un momento di particolare crisi dovuta all’impegno militare durante le Guerre puniche. Fu abrogata nel 195 a.C. dopo una discussione in Senato e dopo che le donne protestarono vivacemente. Altre leggi suntuarie furono emanate da Giulio Cesare (Lex Iulia) da Tiberio, con intendeva proibire abiti di seta agli uomini, giacché si pensava che la lana fosse una fibra più virile; in seguito altri interventi furono l’editto di Diocleziano del 301 con disposizioni che riguardavano i prezzi del vestiario, e le leggi di Teodosio del 328, di Arcadio ed Onorio nel 397.
Sulla stregua di questi insegnamenti cominciarono a comparire le prime leggi suntuarie a noi note, quelle di Bologna e Perugia nel XIII secolo, per limitare il fasto eccessivo delle nozze.
Ci si mise anche Papa Gregorio X interdicendo alle donne cristiane  “smoderati ornamenti” in particolare durante la quaresima dove era proibito lo strascico. Cominciava così la guerra secolare delle code che segnò anche momenti divertenti, poiché le donne non rinunciarono facilmente e ricorsero a tutte le astuzie per salvaguardare il loro abito, compreso l’uso di spille d’oro che raccoglievano l’eccesso di tessuto in vista degli agenti di controllo.  Nel 1278 nel nord Italia, il cardinale Latino Malebranca, legato Pontificio a Bologna,  non solo vietava lo strascico ma obbligava anche l’uso del velo, pena la mancata assoluzione in confessionale, fatto gravissimo per quei tempi. Dal XIII al XIV secolo feste e matrimoni furono tenuti regolarmente sotto osservazione per moderare il lusso eccessivo. A Bologna la domenica ufficiali incaricati del controllo si appostavano fuori dalle Chiese interrogando la gente anche per indurre alla delazione. Non era sempre facile: nel 1286 una signora dotata di una coda troppo lunga, fu accanitamente difesa dagli astanti, che impedirono al notaio di misurare lo strascico. Per facilitare le spie fu così deciso di versare una parte della multa al denunciante: caddero così nella rete chiusure vietate, bottoni, ornamenti d’oro, abiti tinti con coloranti costosi.
Nel tardo Medioevo, dopo secoli di restrizioni, il vestito diventò uno strumento dell’apparire, modificando gusti e costumi. Nel XIV e XV secolo, l’arricchimento delle città, il moltiplicarsi dei commerci e in particolare la nascita delle Signorie portarono molte novità nell’abbigliamento assieme all’esigenza di indossare abiti preziosi, puntualmente stigmatizzati dalle Leggi Suntuarie che non trascuravano alcun dettaglio di moda. L’idea era di limitare il lusso delle famiglie e la fuoriuscita di denaro dalle Casse del comune, anche se alla fine i provvedimenti colpivano molto più le donne che gli uomini. Gli agenti contavano bottoni, misuravano maniche ed abiti, sequestravano o multavano fibbie d’oro, catenelle smaltate, corone, abiti in velluto o con profilature d’oro.
Più ferocemente bersagliate furono le prostitute, obbligate a portare un segno distintivo colorato o un campanello, a togliersi ogni ornamento oppure ad indossarne molti a seconda delle città; stessa sorte per i ruffiani che a Padova dovevano uscire con un cappuccio rosso pena una sonora battitura. Perseguitati in tutta Europa agli Ebrei furono prescritti abiti o segni distintivi a partire dal quarto Concilio Lateranense nel 1212, soprattutto il cappello a punta rappresentato in tante opere d’arte. Il colore maggiormente usato per distinguere gli emarginati era il giallo, ma si utilizzavano anche nastri, veli o motivi cuciti sulla veste.  Ma non bisogna pensare che le Leggi Suntuarie colpissero tutti:  spesso erano la piccola borghesia e i ceti più bassi a farne le spese, laddove i capi di governo, i magistrati, i dottori e le loro famiglie non subivano alcun controllo.
Nel Rinascimento le leggi Suntuarie si moltiplicarono, dirette non solo a fini morali, ma in particolar modo contro lo spreco economico: a fine protezionistico contro l’importazione di prodotti esteri, oppure per combattere la moda dei tagli e delle “affrappature”praticati nei tessuti, che si protrarrà anche nel ‘500 e che rovinava metri e metri di stoffa preziosa. Un’ulteriore preoccupazione era quella di far si che la gente portasse a lungo le vesti e che non le cambiasse troppo spesso: questa mentalità nasceva dal fatto che l’abito era considerato fin dal Medioevo un oggetto di pregio, spesso indicato come lascito testamentario.
Curiosa la legge bolognese del 1401 che proibiva alle donne abiti foderati in pelliccia più larghi di dieci braccia, con strascico e ricami preziosi: chi già  li possedeva doveva denunciarli e farli timbrare, dopo di che erano trascritti nel “Registro delle vesti bollate”. In talune città italiane la persecuzione contro il lusso fu caratterizzata da accenti più intransigenti e drammatici: il 7 febbraio 1497 a Firenze, dopo la cacciata dei Medici. Gerolamo Savonarola e i suoi seguaci sequestrarono e bruciarono sulla pubblica piazza oggetti d’arte, libri, articoli voluttuari come specchi, cosmetici e abiti. Ulteriore preoccupazione dei legislatori era vietare costumi troppo scollacciati o sconfinanti con l’oscenità: in particolar modo per gli uomini gli indumenti talmente corti, venuti di moda alla fine del ‘400 che mostravano le mutande o mettevano in rilievo i genitali. 
Non sempre si applicavano multe ai trasgressori, ma si poteva arrivare al sequestro dell’oggetto incriminato, alla prigione o perfino all’  esilio, come accadeva a Venezia dove si minacciavano i sarti colpevoli di produrre capi vietati allontanandoli perpetuamente dalla città: i soli esentati erano Il Doge, la moglie e ai loro familiari. In quanto all’efficacia di queste proibizioni sembra fosse assai scarsa, visto anche il fatto che le leggi erano reiterate nel tempo e che le botteghe artigiane continuavano a produrre indumenti vietati. Le proteste femminili non mancavano:  il cronista veneziano Marin Sanudo narra nei suoi diari che nel 1499 alcune nobili veronesi fecero apporre sui muri scritte ingiuriose del tipo: “bechi fotui no vedè quelo che gavè in casa”. Con la nascita dei primi stati il lusso si diffuse nelle corti dove i sovrani facevano sfoggio di ogni tipo di ricchezza, e dove i loro seguaci tentavano in ogni modo di emularli. Tuttavia se a corte il fasto era ammesso nel resto dei paesi era soggetto a limitazioni:durante il ‘500 e il ‘600 Prammatiche, Editti, Leggi e Capitoli continuarono a stabilire norme, divieti e sanzioni, diverse a seconda dei domini in cui l’Italia era divisa, ma accomunate dal medesimo tentativo di proibire gioielli, bottoni, tessuti preziosi lavorati in oro filato perfino ai bambini.
A Venezia il 29 marzo 1515 la Repubblica deliberò la proclamazione di un “Provveditore alla pompe” per emanare leggi minuziosissime che permettevano agli incaricati fin di entrare in casa e perfino nella camera delle partorienti. Si colpivano in particolar modo cerimonie come matrimoni, festività e lutto che erano occasioni per veri e propri sfoggi di ostentazione. 
Nel XVI secolo le Leggi suntuarie cominciarono ad occuparsi delle maschere: si stava infatti diffondendo l'usanza di indossare travestimenti carnevaleschi  sia all'aperto sia in casa. Ad Orvieto si proibiva agli uomini di travestirsi da donne, alle donne da uomini o - ancor peggio - da religiosi. Stigmatizzato fin dal XV secolo da San Bernardino il carnevale era considerato un divertimento sfrenato e licenzioso proprio perché dietro la maschera era possibile qualsiasi tipo di avventura.D'altro canto le prediche di San Bernardino si rifacevano ad un precedente illustre, il Deuteronomio, che al passo 22,5 ammoniva: "La donna non si vestirà da uomo, né l'uomo si vestirà da donna; poiché chiunque fa tali cose è abominio all'Eterno".
Dalla Francia stava arrivando intanto in Italia la moda delle parrucche maschili, che spopolerà per tutto il secolo successivo. Nel 1665 a Venezia il patrizio Scipione Vinciguerra di Collalto, sfoggiò durante la passeggiata sul "liston" una monumentale capigliatura posticcia, subito imitata dagli aristocratici della città. Il Magistrato delle Pompe si affrettò a proibire le zazzere alla moda che - nonostante il divieto - continuarono ad essere indossate mentre i colpevoli se la cavavano al massimo con una multa nemmeno troppo pesante.   
Dal XVII al XVIII secolo le leggi suntuarie, sempre più disattese, cominciarono a scomparire progressivamente. Mentre la cultura tradizionalista continuava a interpretare il lusso come riprovevole, il dibattito filosofico investiva l'uomo e la società e poneva l'accento sulla ricchezza di abiti e arredi come scelta politica e ideologica. 

Bibliografia:
Rosita Levi Pizetsky, Il costume e la moda nella società italiana, Einaudi, Torino, 1978
Rosita Levi Pizetsky, Storia del Costume in Italia, Istituto Editoriale italiano, Vol. I - IV
Milano, 1964 – 1967
http://www.treccani.it/enciclopedia/lusso_(Enciclopedia-delle-Scienze-Sociali)/



martedì 19 giugno 2012

Abiti estetici, abiti riformati

Verso la metà del XIX secolo la moda femminile europea era ingessata nella gabbia dei busti e delle crinoline che impedivano qualsiasi movimento naturale del corpo, nuocendo anche alla salute. Tuttavia durante il periodo vittoriano medici e audaci pionieri dell’abbigliamento cominciarono a proporre un modo di vestire più razionale e comodo, cercando in particolare di risolvere i problemi che la biancheria intima eccessiva, soffocante e rigida causava alle donne. Alcune coraggiose attiviste americane, tra cui Elizabeth Smith Miller e Amelia Bloomer si presentarono nei salotti e per strada con una tunichetta lunga al ginocchio da cui spuntavano ampi pantaloni alla turca. Fatte bersaglio dei giovinastri, che tiravano loro verdura e palle di neve, insultate dagli uomini, le pioniere furono accusate di oltraggio alla decenza e si dovettero aspettare due generazioni per tornare a parlare di abiti riformati che peraltro erano indossati solo da donne dell’arte e dello spettacolo come la danzatrice Isadora Duncan.
Movimenti come quello della confraternita dei  Preraffaelliti, nato in Inghilterra nel 1848 e qui esauritosi, che emulavano i maestri medievali, sceglievano per i loro soggetti lunghi modelli sciolti ispirati alla pittura antica. Anche le loro mogli vestivano con queste vesti dai colori tenui e non sintetici e di ricami dorati in stile.  Poco dopo furono fondate le Art and Craft fiorite tra il 1860 e il 1910 circa: i loro teorici, William Morris (1834 – 1896) e Charles Voysey (1857 – 1941) si ispiravano agli scritti del critico John Ruskin  che si opponeva all’impoverimento dell’arte decorativa causato dall’industrializzazione e suggeriva il ritorno a tecniche manuali e artigianali antiche. Morris ci ha lasciato meravigliosi pattern per tessuti con raffinate decorazioni intrecciate di fiori e uccelli. Dal 1860 l’abito artistico diventò popolare presso i circoli intellettuali  per la sua raffinata bellezza e perché rispettava i criteri di lavoro manuale, di qualità, di purezza. Jane Morris, in linea con lo stile preraffaellita, portava gonfi e drappeggiati vestiti, privi di cinture e cordoni, ispirati alle opere del Botticelli e ad alcuni vasi greci conservati al British Museum: sembra che la moda greca fosse particolarmente adatta all’ora del the.
Nacquero anche associazioni come la londinese Rational Dress Society fondata nel 1881 che affermavano che nessuna donna avrebbe dovuto portare più di sette chili di biancheria intima contro i 14 normalmente usati. Era l’epoca in cui le donne cominciavano a lavorare fuori casa mentre risalgono a questo periodo le prime rivendicazioni sociali del ruolo femminile. Nel 1880 il dottor Gustav Jäger pubblicò un libro “Abbigliamento standardizzato per la tutela della salute” in cui affermava che l’equilibrio del corpo dipende dagli odori emessi, inventando un sistema di indumenti in lana, compreso il busto,  che avrebbero risolto il problema. Rifiutando qualsiasi altro tessuto, promosse una serie di indumenti di taglio severo che vendeva dappertutto, anche in America, tramite il suo catalogo: “Dr. Jäger Sanitary Woollen System of Dress.
Tuttavia fino all’ultimo ventennio dell’Ottocento si pensava comunemente che le malattie del busto, che andavano dalle emorroidi al cancro, non potessero essere curate con abiti salutari o movimento fisico: L’autore di un libro contro gli abiti razionali si chiedeva cosa facesse una donna in una palestra e affermava che “spazzare o sfregare un pavimento o spolverare una stanza sono attività infinitamente più utili e benefiche del recarsi in una sala santificata a fare capriole”.In seguito la diffusione dei bagni di mare e dello sport e in particolare del ciclismo, del tennis, del canottaggio,  rese obbligatorio l’uso di indumenti pratici; era impossibile infatti correre sui moderni velocipedi con vestiti lunghi che causavano pericolosi incidenti e questa volta il completo tunichetta -pantaloni fu accettato con maggiore disinvoltura. 
L’abito estetico della fine del secolo si ispirò all’Aesthetic Moviment che rifiutava il moralismo vittoriano e affermava il culto della bellezza e dell’arte fine a sé stessa. L’abito estetico guardava alla moda orientale propugnando l’importanza della veste come delicato piacere sensuale e proponendo che  i vestiti fossero in armonia con l’arredamento;  suo massimo profeta fu il poeta e drammaturgo inglese Oscar Wilde.
Le Esposizioni Universali che si tennero in tutto il mondo durante l’Ottocento, in particolare a Parigi e a Londra,  rivelavano intanto al pubblico le meraviglie dell’esotismo che irrompeva in Occidente anche grazie all’imperialismo britannico e all’importazione dei prodotti coloniali, dando un notevole impulso al commercio e all’industria. Esse segnarono la diffusione delle mode orientali, ampliando la possibilità di conoscenza di artisti e designers, stimolando anche spedizioni e viaggi per studiare e acquistare prodotti e stampe asiatici. Organizzate fino alla Prima guerra mondiale, le Esposizioni erano una mirabolante vetrina di innovazioni tecnologiche, ma volevano soprattutto pacificare il perenne conflitto tra arte, industria e artigianato.
In Europa cominciarono ad aprirsi negozi  che vendevano prodotti orientali: un giovane magazziniere che lavorava a Londra da Farmer e Rogers, Arthur Lasenby Liberty (1843, 1917) fondò nel 1875 la “East Indian House” dove si vendevano tessuti e prodotti importati. Il grande successo del negozio spinse il commerciante a creare, nel 1875, i grandi magazzini Liberty & Co,  la cui sede, rinnovata in stile Tudor negli anni ’20, è tuttora uno dei centri commerciali più famosi di Londra. In Italia Liberty dette anche il nome al movimento Art Nouveau, in particolare dopo le Esposizioni di Torino dell’inizio del secolo scorso. 
L’Art Nouveau, che assunse denominazioni diverse a seconda delle nazioni europee in cui si manifestava, si configurava come uno stile internazionale caratterizzato da motivi floreali e decorazioni lineari a frusta, che si occupava di design d’interni, di arredamento, di oggettistica, utensili, tessuti e abiti.
Intanto Liberty decise di produrre tessuti in proprio, dal momento che i commercianti indiani da cui acquistava  utilizzavano colori sgargianti che non venivano incontro alle esigenze della clientela europea, più attirata dalle tinte pallide; nacquero quindi tonalità quali il rosa persiano, il rosso veneziano, il blu pavone, l’ambra, la salvia e il verde salice. Le stoffe in seta, lana cachemire, erano progettate da importanti designers e stampate a mano con piccoli motivi floreali indiani. Nel 1884 assunse come direttore del reparto abbigliamento Edward W. Godwin che era anche socio della Costume Society, e che dichiarava che il costume storico doveva adattarsi alle esigenze della vita moderna; il vangelo di Godwin può essere riassunto in questa dichiarazione: “Per essere belle non affidatevi ai rigidi ornamenti già prodotti dalla modista, ai fiocchi posti dove non dovrebbero essere, ai falpalà, ma allo squisito gioco di linee e luce ottenuto con pieghe mosse e ricche”.
Accanto all’abbigliamento artistico per signore c’era anche quello per bambini che si basava sul ricamo a punto smock lungo vita, collo e polsini, ispirato alle illustrazioni di Kate Greenaway. Per merito di Liberty l’abbigliamento artistico diventò socialmente accettabile , e quindi non solo per artisti e bohémiens, ma anche per borghesi illuminati.  Risalgono a questo periodo preziose cappe con cappuccio ispirate ai burnus arabi, giacche dalle maniche enormi e ricadenti, abiti morbidi che non segnavano il petto e la vita come l’abbigliamento conservatore sancito a  corte e che si ispirava alla moda francese. Prima di Paul Poiret Liberty lanciò un abito “Stile impero” dalla vita alta, mentre nel 1901 il sarto parigino Paquin ne seguiva le orme.
Dopo il successo del suo padiglione all’Esposizione universale di Parigi nel 1889, Liberty aprì una succursale nella capitale francese e ben presto i vestiti “artistici” diventarono accessibili a un selezionato pubblico continentale. Le fantasie floreali di Liberty influenzeranno dopo la sua morte anche couturiers moderni: negli anni ’60 Mary Quant, negli anni ’70 Yves Saint Laurent, mentre nello stesso periodo Cacharel creò famose collezioni di moda dedicate ad adulti e bambini.



Bibliografia:

Bernard Rudofsky, Il corpo incompiuto, Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1971
Giovanni e Rosalia Fanelli, Il tessuto moderno, Vallecchi, Firenze, 1976  http://en.wikipedia.org/wiki/Artistic_Dress_movement




venerdì 15 giugno 2012

Il Re Sole e la moda maschile alla corte di Francia

La Guerra dei Trent’anni, che devastò l’Europa dal 1618 al 1648, terminò con una netta vittoria francese e la conseguente egemonia del paese sul continente.  E’ noto che le nazioni vincitrici tendono ad imporre le loro  fogge ai vincitori (così è accaduto dopo la Seconda guerra mondiale, alla fine della quale lo stile Americano fu copiato in tutto il mondo) e dopo la metà del secolo la Francia diventò il polo culturale dell’intero continente. Grazie all’opera del cardinale Richelieu e soprattutto grazie a Luigi XIV di Borbone, Parigi e la corte si trasformarono nel centro universale della bellezza e del buon gusto. Il monarca, chiamato con ammirazione Re Sole, regnò dal 14 maggio 1661 fino alla sua morte nel 1715: convinto assertore della monarchia assoluta, rafforzò l’influenza della Francia grazie anche alla lunghezza del suo regno, il più lungo documentato in Europa. A ciò contribuì anche il protezionismo economico voluto da Luigi XIV e organizzato dal suo onnipotente ministro delle finanze Colbert: il suo principio cardine era che occorreva esportare di più e importare di meno e contemporaneamente incoraggiare le industrie nazionali del lusso, arruolando con ogni mezzo artigiani stranieri. Nacquero così i vetri di Saint Gobain mutuati da quelli di Murano, i tessuti di Lione copiati da quelli italiani, i merletti e le lane, gli arazzi di Gobelin. Grazie a queste manifatture del lusso la moda francese si diffuse in tutta l’Europa.
A 44 anni il re si installò a Versailles che divenne la sua residenza ufficiale; stabilì che l’aristocrazia dovesse abitare nella sua enorme reggia, ne ridusse la potenza e l’orgoglio con l’offerta di onori, titoli, rendite e privilegi, e li trasformò in mansueti e servili cortigiani. Un gruppo di potere totalmente separato dal resto del corpo sociale (Versailles era alle porte di Parigi) su cui esercitava un dominio assoluto e da cui esigeva la totale sottomissione. Per far questo stabilì regole d’etichetta rigorose e complesse che trasformavano i suoi atti, anche i più semplici, in un cerimoniale quasi sacro. Non c’era ora della giornata in cui il re, che si imponeva di avere un’esistenza sempre pubblica, non si sottoponesse e sottoponesse i suoi nobili a riti minuziosi e per noi ridicoli che però comportavano una gara perenne per ottenere la sua attenzione e i suoi favori. Tanto per fare qualche esempio, i cortigiani erano tenuti a inchinarsi davanti alla regale colazione, a disputarsi il privilegio di offrirgli camicia e mutande, mentre perfino l’estrazione di un dente doveva essere eseguita davanti a tutti per far vedere che il sovrano sopportava stoicamente il dolore.
Famosissima è la cerimonia del “lever du roi”. 

Alle 8 del mattino il “valet de chambre” il cameriere che dormiva ai piedi del letto, lo svegliava; seguiva poi il ricevimento di vari aristocratici, in una serie di “entrate” minuziosamente regolate: per primi i componenti della famiglia reale,  cui seguivano quelle dei “grands officiers de chambre et de la garderobe”, e a seguire nobili e cortigiani che il re aveva personalmente designato. Il re dormiva con una piccola parrucca senza la quale non si mostrava mai; si faceva togliere la camicia da due camerieri diversi, uno per braccio, mentre il ciambellano gli toglieva la berretta da notte, il barbiere lo radeva; indossava poi la camicia da giorno sempre con le stesse modalità, sceglieva la cravatta e due fazzoletti, si faceva infilare e allacciare le scarpe e così pure, senza far nulla da solo,  la giubba e la spada. Cambiava la parrucca e ne indossava una monumentale: Luigi aveva bei capelli biondi, ma nel corso del suo regno portò e fece portare sul cranio enormi masse di riccioli torreggianti su cui era letteralmente impossibile mettere il cappello, che infatti si portava sotto il braccio.  
Una volta vestito e addobbato, andava nel suo studio. Il resto della giornata e della settimana erano regolate con la stessa puntigliosa cadenza.
Come per le cerimonie anche l’abbigliamento era regolamentato nei minimi particolari, sia per gli uomini che per le donne. La moda era un ulteriore sistema per controllare l’aristocrazia, indurla a spendere delle follie e in definitiva renderla dipendente anche dal punto di vista economico: il re stesso aveva un guardaroba ricchissimo con alcuni abiti costellati di bottoni in diamanti, e che riempiva da solo tre stanze. Il primo insieme di capi codificati a corte fu formato dai  “Calzoni alla Rhingrave”, dal giubbetto corto, dalla camicia sbuffante chiusa dallo jabot, dalla fascia trasversale di seta detta “Baudrier”, dalle calze, dalla parrucca e dal cappello.   Il tutto guarnito da vistosi nastri, sì che la figura maschile aveva un aspetto quasi lezioso e femmineo. Di moda dopo il 1650  fino al 1680 i calzoni alla “Ringravio” o Rheingraf, erano una sorta di gonna-pantalone arricciata e piena di fiocchi introdotta a corte dal Ringravio di Salm, e chiamati prosaicamente “a gamba di piccione”. Questo insieme era rigorosamente codificato come costume di corte de “l’homme de qualité” che era al servizio del re.
In seguito il re Sole stabilì che 50 dei suoi uomini più fedeli, in pratica le sue guardie del corpo, avrebbero dovuto indossare uno speciale giustacuore, le “Justaucorp au brevet”, una giacca blu con maniche ad ampi risvolti, foderata di rosso e profilata da pesanti galloni d’oro e d’argento. Il tutto era completato da un panciotto lungo, da braghe al ginocchio, da una lunga cravatta di batista, da scarpe obbligatoriamente con tacco rosso (talon rouge) a volte inciso con decorazioni, e dalla spada che pendeva dalla larga fusciacca. I tacchi alti, come pure le immense parrucche, simboleggiavano  in qualche modo la supremazia della corte francese su quelle europee e saranno usati dall’aristocrazia anche per tutto il secolo successivo fino agli eventi fatali della Rivoluzione francese. Chi era vestito così aveva il privilegio di seguire il re durante la sua giornata e partecipare alle sue ore di maggiore intimità. Nel quadro di Claude Guy Galle che rappresenta l’udienza di Luigi XIV al doge Francesco Maria Imperiale, si vede molto bene questo tipo di divisa, che sarà chiamata in tutta Europa “Habit alla française”. Il Delfino invece portava abitualmente una preziosa giacca marrone. Attentissimo e quasi feticista,
Luigi obbligò così la corte a vestirsi come lui voleva  giocando su infinite sfumature dell’etichetta: dai 40 modi diversi di sventolare il cappello piumato a seconda del rango delle persone da salutare, a una infinita varietà di alamari e nastri che dovevano distinguere il rango dei cortigiani.
Altrettanto lussuose e complesse erano le cerimonie e le feste. Il re Sole amava la musica, la danza e il teatro, ed era egli stesso un buon ballerino, finché non fu costretto ad abbandonare le scene a causa degli acciacchi. Le feste più celebri del regno si svolsero a Versailles: processioni, fuochi artificiali, giochi d’acqua, caroselli, tornei durante i quali ci si cambiava più volte d’abito. Alla “Festa dell’isola incantata” nel 1664, parteciparono più di 600 persone che soggiornarono nel castello. Ispirata all’Orlando Furioso dell’Ariosto, durò una decina di giorni e Luigi vi interpretò il ruolo di Ruggero liberato dall’isola della fata Alcina grazie all’anello di Angelica.



Bibliografia:
Norbert Elias, La società di corte, Il Mulino, Milano, 1980
Mario Rivoire, Luigi XIV il re Sole, Mondadori, Milano, 1970


lunedì 11 giugno 2012

Gli antichi romani e i loro abiti

Fin dai tempi della Repubblica il cittadino romano di sesso maschile  - dove per cittadino si intende non colui che vive a Roma, ma chi ha il riconoscimento onorifico della cittadinanza romana – è caratterizzato nel vestire dal monumentale panneggio che lo avvolge, la toga. Questo enorme mantello dava alla figura una nobile imponenza, una calma tranquilla dei gesti, un lento incedere, inscindibile dall’idea di potenza che dovevano emanare questi  conquistatori del mondo. Quindi romano e togato erano sinonimi e l’indumento fu indossato per tutti i lunghi secoli del dominio latino, fino a che, con l’avvento della cristianità e con la caduta dell’impero, anche il costume simbolico venne definitivamente a cadere per essere sostituito da abiti più svelti e longilinei.
La toga era indossata sulla tunica, che lasciava braccia e gambe nude, e derivava probabilmente da un antico mantello etrusco, la Tebenna. Parecchie notizie sull’abbigliamento civile romano si possono ricavare dalle Leggi Suntuarie, ossia le disposizioni contro il lusso, di cui la più importante, sebbene riguardasse solo il costume femminile, fu la Lex Oppia, istituita nel 215 a.C. . Nel 18 a.C. Giulio Cesare nella sua carica di “praefectus morum”  dettò precisi regolamenti per limitare l’abbigliamento; in seguito anche Tiberio, Diocleziano, Teodosio, Arcadio ed Onorio intervennero in tale materia. Ai tempi dell’apologista Tertulliano (155, 230 circa) le leggi suntuarie erano ormai in disuso, mentre i primi autori cristiani si limitavano a censurare con veementi prediche coloro che si allontanavano dalla modestia e dal decoro.
La toga di lana era un grande mantello semicircolare prima, ellittico durante l’Impero, le cui diagonali potevano essere 4-5 metri su 3. Prima di indossarla si dovevano sistemare una serie di pieghe parallele sul lato lungo, poi veniva appoggiata a partire dalla spalla sinistra, si faceva passare dietro alla schiena e sotto il braccio destro, da cui tornava ad appoggiarsi sul braccio sinistro. Il motivo di pieghe che ricadeva sul davanti era detto “sinus”, e poteva anche essere usato come tasca. Fondamentale motivo decorativo era il drappeggio: l’oratore Quintilliano, vissuto nel primo secolo d.C., dà precisi consigli su come disporlo annotando anche che il drappeggio doveva essere tenuto in forma la notte prima con appositi moduli di legno e ricorda un certo Ortensio che voleva intentare una causa a un tale che gli aveva involontariamente disordinato il panneggio.
La toga poteva essere di diversi colori e modelli:
La toga virilis, in lana naturale e indossata comunemente in età adulta. Il Pontefice massimo, ossia il capo del collegio dei sacerdoti, ne poneva un lembo sulla testa. Così è rappresentato Augusto nel pieno delle sue funzioni. Sacerdoti ed equestri la ornavano per privilegio con delle strisce color porpora, larga per i primi (laticlavio) e più stretta per i secondi (angusticlavio).
La toga candida, bianchissima e usata dai “candidati” alle cariche pubbliche per dimostrare l’onestà delle loro intenzioni.
La toga praetexta, anch’essa orlata di porpora, indossata dai ragazzi romani prima della loro maggiore età, e dai Magistrati Curuli. Il manto tuttavia è di origine orientale, introdotto dall’imperatore Eliogabalo che la voleva interamente in seta. 
La toga pulla o atra bruna o grigio scuro, che veniva portata nei giorni di lutto.
Nei primi secoli di Roma si volevano per gli uomini abbigliamento ed acconciature semplici e severi che dimostrassero la purezza di costumi e il rigore morale del popolo latino: per questo motivo gli abiti dovevano essere in lana e quasi privi di decorazioni. Con la conquista dell’Impero cominciarono ad insinuarsi usi e costumi di popoli orientali che comportarono, pur tra diverse proteste, tessuti come il lino
prima, la seta poi, con l’aggiunta di ricami, colori e decorazioni, nella totale indifferenza verso le Leggi Suntuarie. Le nuove fogge finirono per superare quelle vecchie al punto che Giovenale (60, 127 circa d.C) afferma ironicamente che ai suoi tempi la toga era ormai indossata solo dai morti.
La toga Picta, molto decorata, fu   portata dai generali vittoriosi nell’ora del loro trionfo, dagli imperatori e dai giovani eleganti che si facevano ammirare per le loro frange e  i motivi animali e vegetali.  La picta diventò così pesante e rigida al punto che limitava i movimenti e dovette essere sostituita da indumenti più comodi.
Varrone parla altresì di una toga vitrea, fatta di un tessuto leggero e trasparente.
Nel tardo impero l’ultima evoluzione è la toga contabulata, con una larga fascia di pieghe che passa sul torace.Che per i romani i mantelli fossero importanti è dimostrato dalla varietà dei loro modelli: oltre alla toga  conoscevano: il Birro con cappuccio, la Paenula rotonda usata per viaggiare, mentre i militari si coprivano col Sago, menzionato nell’editto di Diocleziano (301 d.C.) e la clamide, che passerà poi al comune vestire civile. Quest’ultimo indumento che all’epoca di Teodosio (347, 395) incuteva ancora terrore, era di origine greca, più corto della toga e affibbiato sulla spalla destra. Nato come mantello da equitazione entrerà prepotentemente nell’uso civile per la sua praticità.
Sempre di origine greca era il Pallio, mantello simile alla toga e avvolto attorno al corpo che si diffonderà in epoca bizantina.
Le tuniche, quasi sempre nascoste, non variarono di modello fino a quando non venne di moda il colobio, molto largo, sciolto e senza maniche, che fu in particolare adottato dai primi monaci cristiani. Novità importante introdotta dall’oriente furono invece le maniche, considerate all’inizio un segno di effeminatezza: Giulio Cesare fu criticato perché ne esibiva di orlate con frange. Molto raffinata era la “Synthesina” un camice leggero che si portava alla notte o che si metteva quando si partecipava a un pranzo, regalata dall’ospite stesso che desiderava far star comodi i convitati.
Nel II secolo una lunga tunica con maniche larghe, detta Dalmatica, e decorata con due larghe clavi verticali, spesso ricamate, entrò a far parte del guardaroba. Indossata anche dalle donne, la si può ben vedere negli affreschi delle catacombe paleocristiane, in cui viene esibita da figure di oranti a braccia aperte.
Come si è detto le conquiste romane introdussero nuovi indumenti che, dapprima guardati con diffidenza, entrarono poi nell’uso comune. L’esempio più clamoroso sono le Brache, che erano comunemente portate dalle tribù barbariche per proteggersi dal freddo e che colpirono a tal punto l’immaginazione dei conquistatori da affibbiare a quei territori il nome di “Gallia bracata”. Diffusesi rapidamente a causa della loro estrema praticità, le brache erano all’inizio color porpora per gli imperatori. Ma dopo Diocleziano, che cita il “bracario” come sarto dedicato a quell’unico indumento, Teodosio, Onorio e Arcadio le vietarono comminando l’esilio perpetuo ai trasgressori. Anche le brache entrarono poi prepotentemente nell’uso quotidiano a ulteriore dimostrazione che le leggi repressive non servono nel loro intento.

Bibliografia:
Rosita Levi Pizetsky, Il costume e la moda nella società italiana,Einaudi, Torino, 1978
Henni Harald Hansen, Storia del costume, Marietti. Torino


venerdì 8 giugno 2012

Paul Poiret

Paul Poiret (1879 - 1944) è entrato di prepotenza nella storia della moda per aver completamente rivoluzionato l’abbigliamento femminile negli anni della Bella Epoque. Figlio di un commerciante di tessuti, cominciò precocemente a collaborare a Parigi con le maison Cheruit e Doucet, dove si fece conoscere per i suoi completi giacca e gonna, per i suoi originali mantelli, e per i suoi costumi teatrali come quelli dell’Aiglon per Sarah Bernhardt. Passò poi nell’atelier di Worth, il più importante sarto parigino, che produceva pesanti abiti di gran lusso per le aristocratiche di tutta Europa ma che sentiva la necessità di capi semplici per le incombenze della giornata.  Con quest’ultimo si trovò tuttavia in disaccordo per l’eccessiva modernità dei sui disegni.
Nel 1903 fondò la sua casa di moda in rue  Auber. Era ancora l’epoca del busto che nel frattempo furoreggiava nel modello “Gache Serraute” che ripartiva il corpo in due blocchi distinti, il petto e i seni e la parte posteriore. In nome della libertà e ispirandosi allo stile Impero, Poiret lo abolì dalle sue creazioni raccomandando l’uso di una corta sottoveste, mutande e reggiseno. Cercava la massima semplificazione: vita alta, gonne lisce e senza eccessive decorazioni, cappellini a turbante invece dei monumentali cappelli in uso all’inizio del Novecento, ma la gonna era stretta in fondo e creava non pochi problemi per salire gradini o montare sulle carrozze. L’audacia del sarto parigino suscitò scalpore e molte preoccupazioni: la sua decisione di abolire busto e sottogonne gli valse la protesta dei produttori di seta e di corsetti che profetizzarono che avrebbe mandato sul lastrico intere categorie di lavoratori.
Anche l’uso innovativo del colore era uno schiaffo al perbenismo della società d’inizio secolo. Come lui stesso afferma nella sua autobiografia prima di lui: “si apprezzavano solo le sfumature del rosa cipria, i lilla, i malva in deliquio, l’azzurro pallido delle ortensie, i verdini,  i giallini, i paglierini, tutto ciò che era tenue, slavato e scialbo insomma. Gettai in quell’ovile alcuni lupi robusti: i rossi, i viola, i verdi, i blu di Francia fecero cantare il resto…trascinai con me la truppa dei coloristi all’attacco di tutte le tonalità della tavolozza e ridiedi consistenza alle sfumature attenuate”.  Alla sua policromia vivace e contrastante non erano estranei i suggerimenti delle prime avanguardie artistiche come i Fauves, in particolare Derain e Maurice de Vlaminck.
Poiret aveva capito prima di altri stilisti l’importanza del marketing: fu infatti il primo a pubblicare i propri lavori a scopo promozionale avvalendosi di ottimi illustratori come Paul Iribe (Les robes de Paul Poiret) e George Lepape. Nel 1911 uscì un nuovo album, “Les choses de Paul Poiret”, che segnò una svolta nella storia dell’illustrazione di moda e il cui stile fu imitato in tutto il mondo. il sarto organizzò inoltre defilé itineranti  Il sarto organizzò inoltre defilé itineranti con nove mannequin per promuovere i propri lavori in giro per l'Europa. Lo stile Impero aveva intanto aperto la strada a modelli più arditi, come l’abito “Entrave” (impaccio) molto stretto sul fondo e che costringeva la donna a minuscoli passi.
Nel frattempo aveva deciso di lasciare il suo atelier per stabilirsi in Faubourg St. Honoré, dove restaurò una vecchia e grande casa facendone la sua nuova Maison: ormai tutta Parigi passava da Poiret e lui era all’apice della fama. Per farsi conoscere fuori dalla Francia mise in piedi un gigantesco tour in cui nove indossatrici presentavano i suoi modelli. Interessato alle arti decorative, studiò a fondo la Secessione Viennese, poi decise di aprire a Parigi una scuola d’arte che prese il nome da una delle sue figlie, “Martine”: fuori da ogni convenzione reclutò bambine di 11 anni che lasciò libere di esprimersi senza l’aiuto di alcun professore. Ispirandosi alle piante dell’orto botanico, le ragazze inventarono campi di grano maturo, cesti di begonie, aiuole di ortensie, foreste vergini che ricordavano quelle di Rousseau il Doganiere. Sulla base dei  pattern venivano poi realizzati tessuti per l’arredamento e tappeti.  
In seguito il laboratorio si avvalse anche della collaborazione di Raoul Dufy.
In quegli anni a Parigi furoreggiavano i “Balletti Russi” fondati dall'impresario Sergej Djagilev: ricchissimi nella scenografia e nei costumi di Leon Bakst, i  balletti imposero uno stile orientaleggiante che contagiò Poiret stesso e molti altri couturier, sebbene lui, nella sua autobiografia, rifiuti decisamente di esserne stato influenzato, affermando che il gusto per l’Oriente gli era venuto dalla sua creatività e suoi viaggi, in primis dalla visita del museo londinese di Kensigton.  Estremamente prodigo, nel maggio del 1911 decise di dare una festa grandiosa, intitolata “La milleduesima notte”:  tra tendaggi, zampilli, animali esotici e fuochi artificiali, passavano gli invitati vestiti come sultani e odalische; Poiret stesso era addobbato come un pascià, mentre la moglie indossava calzoni alla turca e una specie di tunichetta a paralume con un turbante che culminava in un lunga aigrette.  
Lo “stile odalisca”, con gonna pantalone che Poiret riprese nei suoi modelli successivi fu considerato troppo audace. In anticipo sui tempi credeva nel pantalone da donna e fece numerosi tentativi per imporlo, mai coronati dal successo: questo indumento comincerà ad entrare nel guardaroba femminile solo a partire dagli anni Trenta, e grazie al successo di star cinematografiche come Marlene Dietrich. Lanciò anche altri indumenti di linea orientaleggiante: cappotti, giacche e mantelli erano tagliati nella semplice e geometrica forma del kimono, che avrebbe scandalizzato l’America benpensante, mentre suggerì il turbante come nuovo tipo di copricapo.
La produzione della sua maison ben presto si allargò all’ambito della profumeria. Dal 1911 lanciò il “Parfums de Rosine” dandogli il nome di sua figlia; in seguito ne inventò e altri, come Le Minaret o Nuit de Chine, che aveva la forma di un emanatore da oppio.  Le confezioni erano raffinate e costose e le bottiglie disegnate dal grande Lalique.
Durante la prima guerra mondiale Poiret dovette interrompere la sua attività per disegnare uniformi per i combattenti. Tornato a casa trovò la sua Maison sull’orlo della bancarotta e soprattutto assediata dalla concorrenza: nuove figure come Coco Chanel stavano imponendosi con un gusto più moderno che  si indirizzava a un tipo di donna lavoratrice ed attiva, mentre lui elaborava ancora abiti troppo lussuosi e ormai superati. 
Era minacciato dai debiti, anche per investimenti sbagliati e spese eccessive: amava infatti il lusso e la mondanità e non lesinava quando organizzava feste sontuose o pranzi di gala. Nonostante ciò continuò la sua attività in Europa e oltre Oceano dove era ancora conosciuto come “The king of fashion”, e dove aveva aperto un altro atelier producendo accessori moda. Fece anche numerose conferenze predicando convinto la divulgazione dei pantaloni da donna; lavorò, come aveva sempre fatto, per il teatro e realizzò i costumi per il film “L’inhumaine”. Nel 1926 dovette chiudere la sua casa di moda cedendone anche il nome, mentre i suoi abiti venivano venduti al chilo come stracci La crisi economica del 1929 lo rovinò completamente. Sprofondato in miseria finì per essere completamente dimenticato. Gli ultimi anni li passò malinconicamente in fila coi poveri per un piatto di minestra.

Bibliografia:

Paul Poiret, Vestendo la Belle’Epoque, Excelsior, Milano, 2009
Palmer White, Poiret, Studio Vista, London, 1973