giovedì 12 ottobre 2017

Le dure leggi medievali sull'abbigliamento e i segni di esclusione sociale


Lebbroso con battola
Sembra impossibile, ma prima della Rivoluzione francese non ci si poteva vestire come si voleva. I regolamenti sull'abbigliamento sono molto antichi: già dal tempo dei romani la Lex Oppia (215 a.C.) proibiva alle donne di indossare abiti colorati con la porpora - prodotto costosissimo ricavato da un mollusco gasteropode - riservato per il suo valore solo ad uso sacerdotale e regale, mentre uguali restrizioni erano destinati ai gioielli. In Europa le leggi Suntuarie (da sumptus, spesa) furono, specie dal medioevo, una normativa costante che regolava la moda maschile ma soprattutto femminile cercando di ricondurla alla semplicità nel quadro della lotta alle vanità propugnata dal cristianesimo. Un tipico esempio è il caso delle Costituzioni del cardinal Latino Malebranca – legato pontificio per la Lombardia, la Toscana e la Romagna – che nel 1279 volle stabilire la lunghezza massima degli strascichi femminili oltre a obbligare le donne a portare il velo, pena la mancata assoluzione, cosa gravissima per quei tempi. L'opera dei legislatori laici si affiancò alle posizioni dei moralisti e dei predicatori causando una lotta che sarebbe durata secoli, tra chi vietava e chi eludeva il divieto con risultati talora comici: ad esempio, per tornare alle Costituzioni suddette, un cronista narra che le donne misero sì il velo, ma l'ornarono furbescamente con liste d'oro in modo da sembrare più belle.
Tarocchi Gringonneur, Il Matto
Un ulteriore punto importante – e per noi odioso – era che la funzione del vestito doveva contraddistinguere le classi sociali: in molte città medievali infatti un pervicace spirito di casta escludeva dal lusso la borghesia, certamente ricca ma priva di potere politico. A capi di governo, signori, magistrati, dotti e cavalieri e relative mogli erano permessi indumenti e decori altrimenti proibiti ai più, con corollario di multe e punizioni crudeli come a Firenze, in cui si fustigavano sulla pubblica piazza le fantesche ree di aver le maniche chiuse da un'abbottonatura che superava il gomito. Malignamente si può anche notare che – essendo tutti i legislatori uomini – erano molto tolleranti col loro sesso, ma non altrettanto con l'altra metà del cielo, molto più duramente bersagliata.
Nella società europea antica chi non si sottometteva alle leggi della morale, basate su molti passi della Bibbia ripresi anche dalla regolamentazione laica, era un escluso e un infame: il cittadino ideale era cristiano, osservante, maschio, abbiente e di reputazione integerrima. L'elenco degli esclusi è lungo, a cominciare dai ladri, dai violatori di luoghi sacri, dagli spergiuri ai calunniatori, fino a tutti i tipi di malfattori compresi i peccatori della carne come gli adulteri, che nel nord Europa venivano rasati a zero e frustati in pubblico; c'erano poi coloro che conducevano una vita errante (come gli attori), o che professavano mestieri disonesti come chi aveva a che fare col sangue (macellai e carnefici), la sporcizia (tintori), il denaro (usurai). Si fuggiva anche dagli ammalati come i pazzi e i lebbrosi (per “lebbra” si intendevano anche malattie della pelle come herpes, eritemi e altre infezioni cutanee) che non solo dovevano vivere lontano dai luoghi abitati, ma che erano obbligati a indossare un abito con cappuccio bianco e a far suonare la cosiddetta “raganella”, un aggeggio rumoroso che annunciava il loro arrivo permettendo alla gente di scappare.
Giotto, Il bacio di Giuda
Si considerava il contagio come un evento non solo fisico, ma anche psicologico: per sottolineare la marginalità furono quindi elaborati segni da portare addosso per marcare l'estromissione dal consorzio civile. Una serie di norme particolarmente feroci colpirono nel medioevo le prostitute: nel XIV secolo in alcune città italiane erano obbligate a portare un sonaglio attaccato al cappuccio, in altri posti erano vietati loro abiti lussuosi, che invece a Firenze erano permessi nell'improbabile speranza di accomunare al malcostume bottoni d'argento, tessuti preziosi, gioielli e di tenerne lontano le signore oneste. In Sicilia le donne di malaffare erano obbligate a calzare i tappini, un particolare tipo di zoccoli di legno da cui è derivato il nome “tappinara”, in dialetto meretrice. Idem dicasi per i ruffiani che a Padova erano obbligati a uscire con un cappuccio rosso in testa, pena una sonora battitura. In Francia, dove il pio e bigotto San Luigi aveva tentato invano di espellere le donne scostumate dal paese, esse furono costrette a portare un nastrino rosso che cadeva sulla spalla. Più che il colore rosso però il giallo era considerato fin dall'antichità simbolo di tradimento, truffa e malattia, e così Giotto dipinge il mantello di Giuda negli affreschi della cappella Scrovegni; a Firenze e Venezia le prostitute dovevano indossare elementi gialli collegati con l'abito, anche se quest'usanza cominciò a decadere man mano che il mestiere venne regolato e istituzionalizzato e i governi diventarono più tolleranti. Un esempio di tale indulgenza a Venezia è la nota vicenda del “Ponte delle tette” tuttora situato tra i sestieri di San Polo e Santa Croce: tutta la zona era un vero e proprio quartiere a luci rosse, luogo di adescamento delle “carampane” chiamate così dalla ricca famiglia dei Rampani, che – priva di eredi - aveva lasciato le sue case (ca' in dialetto) in eredità al governo. Le prostitute che lì esercitavano avevano ottenuto dalla Serenissima stessa il permesso di esporre il seno nudo per combattere la diffusione dell'omosessualità.
Roman de la Rose, Due amanti con coperta a righe

Un ulteriore carattere discriminatorio avevano le righe, specie quelle che alternavano tinte complementari come il rosso e il verde assieme al solito giallo, e quindi applicate – oltre e tanto per cambiare alle meretrici – anche a coloro che esercitavano lavori disonorevoli come i saltimbanchi, i giullari, i carnefici, i mugnai (considerati anche dalla novellistica furbi e arraffoni) e i fabbri, ritenuti – chissà perché – stregoni. L'input venne come al solito dal Levitico (19,19) che proibiva di indossare vestiti composti di materiali diversi. Quando poi nel Trecento e nel Quattrocento la moda si accese di un forte cromatismo che poteva confondere chi guardava, le vesti a strisce furono specialmente destinate all'uniforme della servitù, proprio perché reputata una categoria inferiore.
Il gruppo umano più perseguitato fu però quello degli ebrei, accusati dai padri della Chiesa di deicidio (cosa che sarà superata solo nel 1965 dal Concilio Vaticano II). Tutto era iniziato col Concilio di Nicea del 325 dopo Cristo, in cui si stabiliva che essi potevano continuare ad esistere se pur in stato di sottomissione e umiliazione. Successivamente fu un continuo crescendo, a cominciare dal divieto di sposarsi con cristiani, continuando con l'esclusione dalle cariche pubbliche, per poi passare al battesimo forzato, dopo il quale i convertiti subivano ancora moltissime restrizioni ed indicati con epiteti ingiuriosi come in Spagna, dove erano chiamati “marrani” (porci). In diversi casi furono cacciati dai paesi di residenza o massacrati con l'accusa di omicidio rituale di bambini. Il tutto alternato a periodi di relativa calma e stabilità, perché si trattava pur sempre di un popolo di grande cultura che assolveva a servizi cruciali come la traduzione e diffusione di testi arabi scientifici, la finanza, l'amministrazione e la medicina.
Les miracles de la Vierge, All’estrema destra un ebreo con la rotella
Nel 1215 papa Innocenzo III indisse il IV Concilio lateranense in cui tra l'altro si permetteva ai giudei di praticare come unici mestieri la vendita di abiti usati e il prestito di denaro, e gli si imponeva di indossare una marchio distintivo vivacemente colorato. Allo stesso modo si colpivano i musulmani che vivevano nei paesi cattolici, i quali a loro volta avevano imposto abiti che identificassero i non credenti nei territori a maggioranza islamica. Appellandosi alle sacre scritture Innocenzo III dichiarava esplicitamente che lo scopo della nuova legge era di evitare mescolanze sessuali “maledette” tra cristiani, giudei e saraceni. In Europa l'ordinanza papale non si diffuse immediatamente: da principio iniziò Inghilterra, a seguire gli altri regni, mentre in Italia il primo avamposto del nuovo razzismo fu la repubblica di Venezia. Regole più dettagliate circa il tipo di segno infamante variarono localmente, ma i due più diffusi furono la “rotella” e il cappello a punta detto alla latina “pileus cornutus”; la prima era una pezza di stoffa circolare a volte bicolore, a volte solamente gialla, che veniva cucita sul davanti dell'abito. Nella Serenissima la rotella fu una sorta di O della dimensione di un pane da quattro soldi, ma essendo piccola e facile da nascondere si passò al berretto dapprima giallo e dalla fine del Cinquecento in poi rosso.

Stemma di Judenburg, Austria
Il cappello a punta all'epoca del Concilio faceva già parte dell'abbigliamento maschile tradizionale ebraico portato comunemente dagli ortodossi; in origine era una variante del berretto frigio indossato in Persia dai sacerdoti di Mitra alcuni secoli prima di Cristo e diffusosi in seguito in Europa. Da noi era rappresentato nei manoscritti miniati come il Talmud ma anche nei testi sacri cristiani – lo si trova ad esempio sul capo di San Giuseppe - mentre in territorio tedesco compariva talvolta negli stemmi cittadini o nei blasoni, come a Judenburg, città austriaca il cui nome significa “Castello degli ebrei”, perché era un avamposto dei loro commerci. All'inizio il cappello a punta non era considerato un segno d'infamia, ma lo diventò quando fu introdotto l'obbligo di indossarlo. In parallelo si diffusero immagini antisemite con personaggi caratterizzati da un corpo sgraziato e un gran nasone, caratteristica che purtroppo è rimasta un topos nelle illustrazioni razziste fino ai tempi nostri.
Salterio di Bonne di Lussemburgo
con caricatura di ebreo
Tutto ciò – come ho detto all'inizio – fino alla Rivoluzione francese. Quando i nazisti obbligarono le popolazioni ebraiche dei territori occupati a cucire sugli abiti la Stella di Davide gialla a sei punte, non fecero altro che risuscitare un passato che ora si spera sia morto per sempre.


Fonti:
Rosita Levi Pisetzky, Storia del Costume in Italia, Istituto Editoriale Italiano
Michel Pastoureau, La stoffa del diavolo, Il melangolo
Bernhard Blumenkranz, Il Cappello a punta, Laterza
Giacomo Todeschini, Visibilmente crudeli, Il Mulino

venerdì 28 luglio 2017

Come eravamo: il costume da bagno femminile dai mutandoni della nonna al tanga

Nell'estate del 1824 la vedova di Carlo X di Borbone, la principessa Maria Carolina Ferdinanda Luisa di Berry, decise di prendere un bagno nelle non calde acque di Dieppe, nell'alta Normandia. Si tuffò in mare completamente vestita con un abito in panno, scarpette di vernice, cappello e guanti, inaugurando con sprezzo del pericolo la moda dei bagni di mare e facendo scandalizzare le corti di mezza Europa. Questa donna spregiudicata e moderna in realtà aveva copiato l'idea dall'Inghilterra, dove questa pratica era in uso dal XVIII secolo, prima del quale quella vastità acquea senza fine era vista come qualcosa di misterioso e pericoloso, un elemento popolato da terribili mostri marini, che costringeva la gente – aristocrazia compresa – a tuffarsi nelle onde più rassicuranti dei fiumi. Si indossavano per la bisogna camicioni di tela robusta e cappelli, dal momento che l'imperativo della moda imponeva alle signore una pelle lattea, sicuro stigma di nobiltà rispetto all'abbronzatura rozza delle contadine. Questi sacchi informi coprivano il corpo anche per motivi di pudore, gli stessi per cui uomini e donne si immergevano in spazi separati, scendendo in acqua direttamente da carretti di legno chiusi detti “macchine da bagno” che permettevano di effettuare il cambio degli abiti senza essere visti. Tutto questo armeggiare ci dice come a quell'epoca la visione – non solo del corpo intero, ma anche di parti come le caviglie – fosse considerata altamente sconveniente; non a caso un confidente della Serenissima Repubblica di Venezia nel 1762 segnala come meretrici le signore che si azzardavano a fare il bagno al Lido. Il graduale scoprirsi di ulteriori porzioni e l'intervento della censura fanno parte della storia del costume da bagno e della lotta per l'emancipazione verso la quasi nudità.

La prima rappresentazione di un due pezzi femminile risale all'epoca romana: un ambiente di servizio della grande Villa del Casale di Piazza Armerina in Sicilia, è pavimentato con un famoso mosaico che mostra dieci fanciulle in slip e reggiseno mentre compiono degli esercizi ginnici, eseguiti – non sappiamo se in palestra o per allietare dei commensali – ma comunque all'asciutto. La rigida morale cristiana mise una pietra tombale sull'esibizione del corpo in pubblico e sarebbe stata la diffusione delle vacanze al mare a partire dall'Ottocento che avrebbe riaperto il problema di come tuffarsi in acqua senza essere trascinati in fondo dal peso del tessuto inzuppato. Nel frattempo (grazie a Lavoisier) la chimica aveva scoperto l'esistenza dell'ossigeno, mentre i medici avevano cominciato a prescrivere l'aria pura e l'acqua di mare per la cura di parecchie malattie. Con la passione per la talassoterapia nacquero i primi stabilimenti balneari in cui le signore si recarono completamente vestite almeno fino al 1860, quando i giornali di moda iniziarono a pubblicare le prime e pudicissime illustrazioni di costumi da bagno: pantaloni larghi e lunghi fino ai garretti, una giacchina con maniche che copriva i fianchi (entrambi rigorosamente neri), una cuffia munita di visiera parasole, senza dimenticare le scarpe e naturalmente il busto, con cui entravano in acqua le sciagurate che volevano esibire a tutti i costi la vita di vespa
A scuotere quella castigata processione balneare pensò la nuotatrice e attrice australiana Annette Kellermann che in una calda domenica d'estate del 1908 si presentò in una spiaggia vicino a Boston con un costume nero di lana che le lasciava scoperte braccia e gambe, una provocazione inaudita che le costò l'arresto. In seguito, per niente intimidita, lanciò una sua linea di costumi che ebbe un notevole successo. Era l'inizio di una battaglia che le ragazze avrebbero combattuto contro la censura per una sessantina d'anni. Armati di metro regolamentare poliziotti e guardiani del buon costume cominciarono a percorrere in lungo e in largo le coste per controllare lunghezze, misurare scollature, multare o perfino mettere in galera le spudorate, ma era una lotta perduta in partenza: all'inizio degli anni Ruggenti con una maggiore coscienza dell'importanza della salute personale e dell'esercizio fisico tramite il nuoto, i costumi da bagno si accorciarono ulteriormente. Il business della moda aveva fatto il resto, introducendo modelli sbarazzini a colori vivaci. Le nuove linee furono anche influenzate dalla diffusione dell'abbronzatura, non si sa se lanciata dalla cantante Marthe Davelli o da Coco Chanel al ritorno da una vacanza a Biarritz. Negli anni Trenta cadde un'ulteriore frontiera del pudore: la stilista italiana Elsa Schiaparelli ridisegnò il tradizionale costume denudando la schiena e permettendo l'esposizione al sole di una pelle sana e colorata, ultima frontiera del glamour; intanto il classico binomio tunichetta-calzoncini cedeva il posto al costume intero.

Nell'Italia del Ventennio l'abbigliamento era controllato dal fascismo attraverso l'Ente nazionale della moda, fondato nel 1935 e voluto fortemente dal Duce che voleva costringere le donne ad abbandonare lo stile francese – allora copiato in tutto il mondo - in favore di un riconoscibile modo di vestire italiano e patriottico. Mussolini amava le donne robuste e credeva fermamente che la funzione femminile principale fosse quella della maternità. Convinto che “l'eleganza è nettamente sfavorevole alla fecondità”, il regime dettava le direttive attraverso le riviste di moda, suggerendo perfino che la modella perfetta doveva essere alta meno di un metro e sessanta e pesare 55/60 chili. Sui giornali di moda e sui manifesti turistici che pubblicizzavano le vacanze in riviera comparvero illustrazioni di ragazze in costume dai seni e dai fianchi generosi e dalla vita larga, futura promessa di prole abbondante; intanto il MinCulPop, Ministero della Cultura Popolare, aveva emanato una disposizione che vietava ai giornali la pubblicazione di fotografie di donne nude o in abiti molto succinti che secondo Galeazzo Ciano erano antidemografiche.
Negli Stati Uniti si usavano già con disinvoltura costumi da bagno che sarebbero arrivati in Europa solo dopo la guerra: lucidi e colorati, a un solo pezzo che arrivava non oltre le natiche, o due pezzi (reggiseno e mutandina) che audacemente lasciava libero lo stomaco. La novità erano le fibre elastiche fascianti che venivano a sostituire la lana che si appesantiva durante il bagno e a volte mostrava imbarazzanti nudità. 
Nel 1946, un anno dopo la fine del conflitto, lo stilista francese Louis Réard presentò – basandosi su un modello più castigato del suo collega Jacques Heim – un costume talmente ridotto da esibire anche l'ombelico e l'inguine, e che fu presentato al pubblico addosso a una spogliarellista perché non si trovarono indossatrici tanto disinibite da portarlo con disinvoltura. L'impatto fu così forte che il microscopico indumento fu ribattezzato Bikini, dal nome di un atollo delle isole Marshall dove l'America eseguiva esperimenti nucleari che tra l'altro ebbero tragiche conseguenze su una parte abitanti. Il sonno della ragione genera mostri: l'abbinamento fra il sex appeal femminile e il terribile ordigno sarebbe stato vincente anche negli anni Cinquanta quando sempre in America una bella ragazza bionda, Lee Merlin, fu eletta Miss Atomic bomb indossando appunto un costume da bagno a forma di fungo.
All'estero il nuovo indumento fu immediatamente accolto con favore da dive e donne famose come la principessa Margaret, sorella della regina d'Inghilterra e soprattutto da Brigitte Bardot, che nel 1953 visitò la portaerei americana Enterprise vestita con un bikini che sembrava un'ombra (con sommo gaudio dei 2000 marines), mentre da noi incorse nei rigori della censura democristiana alleata a quella ecclesiastica. Nel 1957 il manifesto del film di Dino Risi, “Poveri ma belli” che mostrava una Marisa Allasio ammiccante in due pezzi, scandalizzò Pio XII al punto da causarne il sequestro il giorno dopo l'uscita; ancor più Illuminanti in proposito furono le circolari che il ministro dell'interno Mario Scelba trasmise ai questori e al Comando Generale dell'arma dei Carabinieri in cui vengono indicate perfino le misure per i costumi da bagno di ambo i sessi “onde evitare un abbigliamento eccessivamente succinto quindi lesivo delle regole del pudore e della decenza” (6 agosto 1963). Il documento fu accolto tra lo sghignazzo generale, anche perché conteneva in allegato un grazioso modellino in scala 1/5 di un paio di slip maschili regolamentari; nelle spiagge più spudorate della penisola, Rimini e Viareggio, ancora una volta i carabinieri dovettero constatare le infrazioni multando o allontanando i trasgressori. Più forte della censura fu comunque l'ostinazione dei bagnanti e, se pur con una certa difficoltà, il bikini finì per affermarsi e per diventare sempre più ridotto.
Nel 1964 lo stilista austriaco Rudi Gernreich lanciò il monokini, un topless in maglia che si concludeva a metà del busto ed era sostenuto da due bretelle incrociate, e che dichiarava le idee libertarie del sarto circa l'esibizione del corpo umano che lui non considerava vergognosa. Si era in piena “rivoluzione sessuale”, ma il modello non riuscì ad avere successo commerciale, pur aprendo la strada all'esposizione del nudo: all'inizio degli anni Settanta una modella brasiliana, Rose de Primo, si fece notare sulla spiaggia di Ipanema indossando un Tanga, il famoso triangolino di stoffa che copre solamente il pube lasciando liberi i glutei. Non era una novità assoluta perché che il copri-sesso era un indumento di origine tribale diffuso in Amazzonia, ma su un lido connotato dalla cultura occidentale scatenò un parapiglia. L'esibizione pressoché totale del corpo ha portato inevitabilmente al culto dell'apparenza: obbligatorio avere un look perfetto e costruito attraverso diete, sport, ginnastica, jogging, danza, body building, dove i nemici da combattere sono pancia e cellulite, problemi che colpiscono (e avviliscono) la maggior parte delle donne adulte. Oggi si va in spiaggia con qualsiasi cosa. Sembra che le ultime novità della moda siano il “nipple bikini” che ha il reggiseno color rosa carne con i capezzoli stampati sopra, e il “naked bikini” che si scioglie completamente una volta a bagno nell'acqua, anche se a questo punto sorge una domanda: non sarebbe meglio frequentare una spiaggia per nudisti?

Fonti:
Doretta Davanzo Poli, Costumi da bagno, Zanfi editori
Natalia Aspesi, Il lusso e l'autarchia, Rizzoli

venerdì 12 maggio 2017

Quando la nuda pelle non basta:il corpo e il tatuaggio

Winston Churchill aveva addosso un'ancora, Theodore e Franklin Delano Roosevelt - rispettivamente ventiseiesimo e trentaduesimo presidente degli Stati Uniti d'America - lo stemma di famiglia, mentre l'ultimo zar di tutte le Russie Nicola II, affascinato dalla cultura orientale, preferì un drago ed Elena di Savoia, moglie di Vittorio Emanuele III, una vezzosa farfalletta. Sto parlando di tatuaggi, oggi di gran moda, ma che un tempo in Europa solo pochi coraggiosi come i personaggi citati si facevano incidere chi sulle braccia o sul torace, chi sulle mani o sulla gamba. L'abitudine di decorare il corpo con incisioni e cicatrici di ogni genere risale alla preistoria: il più antico individuo tatuato di nostra conoscenza è Otzi, un uomo di mezza età ritrovato nel 1991 sulle Alpi Venoste, ai piedi del ghiacciaio del Similaun, che ha 61 tra punti, linee crocette tatuati in corrispondenza di infiammazioni artritiche. Molto più recente è la mummia di Amunet, sacerdotessa della dea Hathor che ha una serie di puntini incisi sul basso ventre, che secondo alcuni studiosi sarebbero collegati alla fertilità o alla sessualità.

In un divertente libro del 1975: “Il corpo incompiuto. Psicopatologia dell'abbigliamento”, l'architetto, storico e scrittore austriaco Bernard Rudofsky, si chiede cosa può spingere l'essere umano a non accontentarsi della sua nudità (anche quando il clima lo permetterebbe) ma a dipingersi, incidersi, deformare il corpo con busti, tacchi alti, crinoline, acconciature e molte altre stravaganti sovrapposizioni. Forse ci mancano i piumaggi colorati degli uccelli o le belle pellicce maculate e striate dei mammiferi? La sociologia e psicologia odierne forniscono varie risposte. Qui mi occuperò solo del campo relativo al tatuaggio, un sistema a volte molto doloroso per decorarsi e al tempo stesso comunicare i propri desideri e propositi, le idee, le paure, l'appartenenza culturale o lo stato sociale. I segni sul corpo infatti sono un messaggio che diamo al gruppo che ci circonda, e avevano un particolare significato per quelle che ci ostiniamo a chiamare “popolazioni primitive”.
Gli antropologi distinguono tra tatuaggi estetici, solitamente per nascondere rughe o difetti della pelle; tatuaggi portafortuna o superstiziosi, per difendersi dal malocchio o tener lontani gli spiriti maligni; d'onore, come lo sfoggiare il numero dei nemici vinti in battaglia; di possesso, eseguiti non solo sugli schiavi e il bestiame ma anche sulle mogli; religiosi come quelli dei cristiani copti che si marchiano tuttora una croce sulla fronte; di ricordo, in memoria di un caro estinto. Molto spesso le fasi importanti della vita di un individuo erano accompagnate da una cerimonia religiosa, in cui veniva sottoposto alla dolorosa iniziazione del tatuaggio per accedere a una nuova fase della vita sociale o sessuale. Sì, perché, prima dell'invenzione del benemerito ago elettrico farsi incidere la pelle non era uno scherzo: si utilizzavano – ovviamente senza anestesia - stampi, aghi, ossa o conchiglie appuntite e martelletti per far penetrare il colore sotto pelle. Presso le isole Samoa la cerimonia del tatuaggio maschile era una prova di coraggio per entrare nell'età adulta senza la quale un giovane non poteva sposarsi né tanto meno rivolgersi agli anziani, ma era considerato un paria a cui affidare solo compiti degradanti. L'operazione durava cinque giorni: la parte tatuata andava dal giro vita alle ginocchia, genitali compresi, e a volte qualcuno poteva anche lasciarci le penne.

In Europa il tatuaggio fu sempre guardato con molta diffidenza, a cominciare dagli antichi romani che – credendo nella purezza del corpo – lo consideravano una pratica buona solo per le popolazioni barbariche, e al limite lo usavano per marchiare criminali o schiavi ribelli. Il contatto tra latini e popoli nordici causò nel tempo inevitabili fenomeni di imitazione e finì per contagiare i legionari che – come Massimo Decimo Meridio nel film “Il gladiatore” - portavano incisa sull'omero la sigla SPQR, oppure la legione di appartenenza o il nome del loro imperatore. Nella Bibbia il Levitico ordina: “ Non vi farete incisioni nella carne per un defunto, né vi farete dei tatuaggi addosso”, ma il motivo principale per cui questi segni distintivi sparirono dalla pelle con l'avvento del cristianesimo fu soprattutto un decreto di papa Adriano I, che nel 787 li proibì tassativamente perché puzzavano lontano un miglio di paganesimo. Sembra però che alla chetichella l'usanza continuasse anche nel medioevo, se è vero che molti combattenti in Terra Santa si fecero incidere addosso la croce, e non solo per fede, ma anche come portafortuna contro le scimitarre dei saraceni. Da noi rimase comunque l'idea che il tatuaggio stravolgesse il corpo naturale creato da Dio, e quando i colonizzatori e soprattutto i missionari al seguito cercarono di portare i “selvaggi” sulla retta via, una delle cose che si affrettarono a combattere fu proprio l'usanza di tatuarsi.

Nonostante le autorità ostili i contrassegni corporei rimasero presenti nella cultura europea se pur con alti e bassi. Non solo i pellegrini si tatuavano, ma ci sono testimonianze che dal XVI secolo gli artigiani europei si imprimevano i simboli del loro mestiere - il cosiddetto “Marchio di Caino” - perché si credeva che il figlio fratricida di Adamo avesse intrapreso una professione manuale. Né sparirono i tatuaggi religiosi: in Italia in particolare chi si recava in pellegrinaggio a Loreto si faceva incidere in blu dai cosiddetti “Frati marcatori” simboli come il pesce, la croce, la Madonna o la Santa Casa. Ma accanto a questi segni positivi c'erano anche i marchi d'infamia: chi ha letto “I tre moschettieri” di Alexandre Dumas ricorderà che la perfida Milady aveva tatuato a fuoco sulle belle spalle il giglio di Francia (fleur de lys); sempre in Francia fu elaborato un sistema di marchiatura per i ladri (V, voleur), i mendicanti e i galeotti (rispettivamente M e Gal). Anche in Russia prima della rivoluzione d'ottobre i criminali avevano tatuata sulla fronte o sulle guance l'iniziale del loro misfatto, e la stessa sorte era riservata ai disertori in Inghilterra.

Nel XVIII secolo il capitano James Cook, che a bordo della nave HMS Endeavour esplorò per conto di Sua Maestà Britannica l'oceano Pacifico, trascrisse per la prima volta nei suoi diari di bordo la parola “Tattow” derivata dall'onomatopeico “tau-tau” che ricordava il rumore del martelletto che picchiava sulla punta che serviva a bucare la pelle. Non contento Cook si portò dalle isole Marchesi un capotribù completamente tatuato, cui seguirono altri polinesiani esposti nei circhi alla stregua della donna cannone, introducendo una nuova moda che fece impazzire dapprima l'aristocrazia europea, per poi soggiogare i viaggiatori e in particolare i marinai che consideravano quei disegni simbolici un portafortuna contro ogni pericolo. Tra la fine del Diciannovesimo e l'inizio del Ventesimo secolo ci poteva guadagnare da vivere grazie alla propria pelle presentandosi al pubblico pagante con un nome esotico (Dyta Salomé, Creola, Don Manuelo, La bella Irène, ecc.) e il corpo interamente inciso e colorato.
La pratica si diffuse ancor di più tra i criminali, in particolare dopo l'Unità d'Italia, quando molti di loro furono esiliati in Nord Africa dove appresero decorazioni che adattarono alla loro condizione di fuorilegge: tatuaggi segreti, situati in parti del corpo non visibili e che indicavano la loro affiliazione a qualche gruppo malavitoso o tatuaggi pubblici, destinati a ricordare la mamma o la donna amata, a rivendicare il loro valore, a insultare le autorità e promettere vendetta esibendo pugnali, pistole o rasoi. Questi disegni erano accompagnati da scritte che sottolineavano e ostentavano forza e disprezzo per le regole sociali: “morte agli sbirri”, “né Dio né padrone”, il francese “merde” sul lato esterno della mano e ben visibile al momento del saluto militare. 

Nell'Ottocento il criminologo Cesare Lombroso si diede allo studio della personalità malavitosa partendo dal presupposto - completamente superato - che “criminali si nasce” a causa di certe anomalie fisiche congenite che determinavano il comportamento deviante. Le sue ricerche, raccolte nella sua opera principale “L'uomo delinquente”, presero anche in considerazione più di 10.000 malviventi tatuati (donne comprese), arrivando alla conclusione che – ripescando usanze tipiche dei popoli primitivi – costoro non facevano altro che esprimere il loro legame arcaico con cavernicoli e palafitticoli. Solo tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento il tatuaggio si allargò alle culture giovanili degli hippy e delle bande di motociclisti, conquistando in seguito ogni strato sociale e fascia di età.
Al giorno d'oggi i tatuaggi criminali più famosi del mondo sono quelli a cui si sottopongono gli affiliati alla Yakuza, la famosa e potentissima mafia giapponese popolata quasi esclusivamente da uomini che hanno il corpo quasi interamente coperto da disegni molto colorati e molto dolorosi da eseguire, dal momento che non vengono usati strumenti elettrici ma una serie di aghi e bacchette che permettono di ottenere le belle e caratteristiche sfumature. I motivi degli “irezumi” – così si chiamano – sono in parte quelli delle antiche stampe Ukiyo-e fiorite nel paese tra il Diciassettesimo e Ventesimo secolo, aggiustati con elementi sanguinari: dai dragoni simbolo di longevità, alle colorate carpe che tuttora ornano i locali laghetti, collegate alla virilità, alle teste mozzate che dichiarano di accettare la morte con onore, ai demoni cornuti, e naturalmente ad animali feroci come tigri e leoni. Proprio perché caratteristici della mafia, nel Giappone moderno i tatuaggi sono guardati con sospetto e in taluni luoghi - come bagni termali, piscine e palestre – decisamente vietati. In quanto agli uomini della Yakuza evitano con cura di tatuarsi collo, braccia e gambe in modo da poter esibire le proprie decorazioni solo nelle riunioni del clan.

Fonti:
Paolo Rovesti, Alla ricerca della cosmesi dei primitivi, Blow up

mercoledì 5 aprile 2017

50.000 anni di bellezza: dalla cicciona delle caverne alla donna grissino

Obesa, con seni enormi e natiche e cosce ipertrofiche. Così doveva apparire la donna ideale che popolava i sogni degli uomini della preistoria, almeno stando alle statuette del periodo – le cosiddette “Veneri” – eseguite con notevole realismo fisico e probabili immagini del culto della Dea Madre. Nella valle del Nilo, decine di migliaia di anni dopo, un anonimo poeta celebrò la bellezza della sua amata descrivendola con parole infiammate: “Stella fulgente, brillante di pelle, dal petto luminoso, le dita come calici di loto, le languide reni, le anche strette”. Il corpo asciutto dal seno appena accennato e i fianchi poco arrotondati delle egiziane, faceva tremare le vene e i polsi degli uomini del Faraone ma niente aveva a che vedere con le preistoriche ciccione; tra questi due estremi – grasso e magro - si colloca la lunga avventura della bellezza femminile, una carrellata secolare di tipi estetici diversi tra loro e variabili a seconda dei tempi, delle latitudini e delle mode.
Fino alla rivoluzione del femminismo, a dettare le leggi della bellezza fu quasi sempre il ruolo di moglie e madre in cui la società confinava la donna e che mirava ad esaltare le parti del corpo destinate alla riproduzione e all’allattamento. Non si vuole qui rinnegare la funzione essenziale della maternità, quanto lo stereotipo millenario che ha sempre voluto vedere – fin dai tempi di Ippocrate – l'utero come unico organo direttore del corpo e della mente femminili, sottovalutando o addirittura scartando la ricchezza e la complessità fisica e psicologica del genere. 
Il canone di bellezza di cui sopra fu stabilito nella Grecia antica e – a parte il medioevo - fu seguito per secoli: il modello fu la statua dell'Afrodite di Cnido, celeberrima opera di Prassitele giunta a noi tramite una copia romana. Rappresentata nell’atto di uscire dal bagno, la carnosa figura della dea dalla vita massiccia e dalle caviglie robuste, oggi non potrebbe certo entusiasmare gli appassionati di sfilate di moda. Di parere diverso erano i greci che ammiravano nella scultura in questione il ritratto di Frine, una splendida cortigiana vissuta ad Atene nel IV secolo a.C., che aveva la spudoratezza di fare il bagno in mare nuda durante le celebrazioni in onore di Poseidone con grande gaudio della popolazione maschile. Fu accusata di empietà e assolta con un processo in cui suo avvocato Iperide, al posto dell'arringa si limitò a denudarle il seno: i giurati la guardarono (immaginiamo a lungo) e si persuasero seduta stante della sua innocenza.
Fianchi larghi anche per la matrona romana, instancabile fattrice di soldati da destinare alle glorie patrie, che manteneva la linea con un’alimentazione succulenta e pesante; per le signore inoltre erano di moda mandibole robuste, fronte bassa e ostinata e sopracciglia congiunte alla radice del naso. Le mogli dei Cesari si stancarono presto delle numerose e pericolosissime gravidanze cercando di limitarle, ma il loro aspetto rimase fin quasi alla fine dell’impero un inno ai pannicoli adiposi. Dal V secolo d. C. venne in auge un tipo fisico opposto, quasi disincarnato e modellato su Teodora di Bisanzio, la basilissa che ci osserva coi suoi immensi occhi dai mosaici della basilica di San Vitale a Ravenna. In quel tempo la religione cristiana - ferocemente misogina – trionfava sugli dei pagani opponendosi all'idea stessa di seduzione: una delle caratteristiche del nuovo credo era infatti la rinuncia sessuale, cosa che ebbe un’enorme influenza sull’estetica. Padri della Chiesa come San Girolamo e Tertulliano iniziarono un'accanita battaglia contro tutto quello che nella donna poteva risvegliare il desiderio dell’uomo, combattendo la cosmesi e perfino l'igiene e insistendo perché le ragazze si coprissero il capo col velo, per evitare che le belle chiome risvegliassero brutti propositi.
L'ideale di bellezza del medioevo maturo discese in Italia direttamente dal nord Europa sull'onda delle liriche trobadoriche: l'amore tra uomo e donna, l'amor cortese, inneggiava a una passione “cortese” al di fuori del matrimonio e non sempre soddisfatta. Poeti e menestrelli sospiravano per le trecce bionde, le angeliche sembianze, le membra pargolette, gli occhi come vaghi lumi ardenti: così Petrarca descrive Laura, una fanciulla incontrata una sola volta in una chiesa d'Avignone di cui gli storici dibattono ancora l'esistenza. Era il ritratto dell'adolescenza - l'età del massimo splendore per il periodo - in cui le donne si sposavano e cominciavano a sfornar figlioli per sfiorire definitivamente a 25 anni appesantite dalla maternità, ed essere considerate decrepite superati i trenta. Questo pregiudizio è durato secoli: tanto per fare un esempio ancora nell'Ottocento un rispettabile e colto giornale di moda italiano, il Corriere delle dame, pur se diretto da una signora, definiva “avole”, ossia vecchie, le quarantenni a cui consigliava di vestirsi di scuro e di velarsi il volto.
Simonetta Vespucci, amata da Giuliano de' Medici e morta giovanissima tra il generale cordoglio degli abitanti di Firenze, fu considerata la più bella donna del primo rinascimento; a lei si ispirarono poeti come il Poliziano e pittori come il Pollaiolo e Sandro Botticelli che ne fa il ritratto nella sua celeberrima “Nascita di Venere”: un corpo longilineo ma solido, collo, braccia e gambe lunghe, un profilo incisivo col naso leggermente all'insù, la fronte molto alta ottenuta come voleva la moda, con una meticolosa depilazione in cui la “ceretta” era una sorta di micidiale impiastro a base di calce viva e solfuro di arsenico per scoraggiare la crescita dei peli ribelli. Simonetta chiuse la serie delle donne slanciate per aprire al ritorno dell'esuberanza della carne; l'Umanesimo trionfante del XVI secolo guardò di nuovo all'antichità classica ponendosi meno vincoli moralistici e perseguendo non solo il piacere della cultura ma anche quello dell'amore e del cibo. La donna ideale come la vediamo nei ritratti di Tiziano mantiene nel volto i moduli tradizionali – pelle candida, naso e bocca piccoli, occhi grandi, ma si allarga nuovamente nei fianchi e nella pancia. Un detto popolare dell'epoca fissava in una sorta di geografia estetica il canone di perfezione: “Anche fiamminghe, spalle tedesche, piedi genovesi, gambe slave, spirito francese, andatura spagnola, profilo di Siena, seno di Venezia, ciglia di Ferrara, pelle di Bologna, mani di Verona, portamento greco, denti di Napoli, dignità romana, grazia milanese”, a cui sembra corrispondesse solo Giovanna d'Aragona, moglie di Ascanio Colonna e duchessa di Tagliacozzo.

La ridondanza dell'arte barocca coincide col trionfo della cellulite, il cui massimo cantore fu il fiammingo Pieter Paul Rubens. Nel dipinto “Le tre grazie”, riprende il tema antico delle dee della gioia di vivere, sostituendo i giovani corpi sodi con un abbraccio di signore mature e dalla carne un po' frolla. La moda andò avanti per oltre un secolo finché il Settecento non lanciò un nuovo tipo adolescenziale, sofisticato e malizioso: la bambolina dal corpo tenero, i piedi e le mani minuscole, gli occhi e la boccuccia ammiccanti dietro il ventaglio, in un poco innocente gioco di civetteria. La novità fu che oltre alla bellezza occorreva possedere “quel certo non so che”, ossia una sorta di intimo e affascinante mistero senza il quale anche la perfezione estetica avrebbe perso ogni importanza; come Madame de Pompadour, una borghese non bellissima ma molto intelligente che dopo essere stata l'amante di Luigi XV seppe mantenere la sua influenza presso il re diventandone la più fidata consigliera.
La rivoluzione francese spazzò via alcune teste coronate ma non l'idea che la donna dovesse essere un bell'accessorio dell'uomo, prona ai suoi voleri e piaceri. Dopo la pausa napoleonica, incarnata al femminile dal ritorno della bellezza greca classica e dal corpo alabastrino di Venere vincitrice-Paolina Bonaparte, la cultura della borghesia emergente valorizzò ancora una volta le virtù materne e domestiche. Anche i languori del Romanticismo influenzarono la nuova moda che associava estetica e moralità: era nato l'angelo del focolare dalla pelle esangue e dai grandi occhi (dilatati da colliri a base di belladonna), la vita sottilissima strizzata dal busto, sempre pronto a svenire a causa delle difficoltà respiratorie, cercando però di cadere con grazia come suggerivano i manuali di etichetta. Durò poco perché un qualche tipo di libertà – almeno a Parigi – fu conquistata da quelle sfacciate che pretendevano di appropriarsi di attività e vizi maschili come la scherma, il nuoto, la lettura dei giornali e perfino il fumo. 
La parigina si impose per la disinvoltura e il movimento, caratterizzato dal modo di camminare e dal fruscio della gonna che ne faceva immaginare le nascoste forme carnose.
Attorno al 1910 il sarto francese Paul Poiret lanciò una collezione di abiti privi di busto che spedirono in soffitta la terribile linea a clessidra che aveva dominato l'Ottocento. Fu un successo strepitoso. Più libera fisicamente, la donna godeva ormai dei bagni di mare, delle cure termali, delle attività sportive all'aria aperta; esibendo le braccia e una parte delle gambe, signore e signorine cominciarono a preoccuparsi dell'aspetto di quelle parti del corpo che erano state sepolte per secoli dai tessuti e dalla storia. I giornali femminili intanto proposero diete e rulli per massaggi che avrebbero dovuto eliminare doppio mento e grasso localizzato. Dopo la prima Guerra mondiale e con gli “Anni ruggenti”, si affacciò alla scena la cosiddetta “garçonne” (in inglese “flapper”) magra e piatta, truccatissima e coi capelli corti, le gonne al ginocchio, che lavorava e frequentava locali pubblici e che soprattutto affrontava la sessualità in modo scandalosamente aperto. 
Nel dopoguerra tornò di moda la “maggiorata fisica” dalle forme prorompenti come la “pizzaiola” Sophia Loren ne “L'oro di Napoli”. Ci sarebbero voluti gli anni Sessanta, la stilista Mary Quant e la minigonna per rilanciare la magrezza, impersonificata nella super modella Twiggy, la ragazza-grissino dal look denutrito che ha purtroppo dato il via al pericoloso ideale della bellezza anoressica.

Fonti:
Carla Ravaioli, Profilo di Siena, seno di Venezia, Storia illustrata, gennaio 1960
http://www.lundici.it/2017/03/50-000-anni-di-bellezza-dalla-cicciona-delle-caverne-alla-donna-grissino/