mercoledì 30 maggio 2012

Dalla maggiorata fisica alla donna stecchino

Gran parte dell’evoluzione estetica del corpo femminile durante il Novecento la si deve all’influenza del cinema. Lo star sistem di Hollywood aveva lanciato dagli anni Venti ai Quaranta attrici come Greta Garbo o Marlene Dietrich, donne slanciate, dalla pelle chiara, e molto sofisticate. L’altera bellezza di Greta Garbo  e la bionda e sensuale avvenenza di Marlene con le sue ciglia rasate e il suo portamento a tratti dolce e a tratti spavaldo erano state imitate dalle donne di mezzo mondo.
Il cinema italiano, affermatosi soprattutto nel dopoguerra con il Neorealismo, diede una versione nostrana del divismo femminile. Negli anni Cinquanta partendo dal concorso di miss Italia, alcune vincitrici o concorrenti molto formose approdarono al mondo del cinema diventando star internazionali e proponendo il mito della donna latina: Gina Lollobrigida, Silvana Mangano, Sofia Loren, Lucia Bosè, Silvana Pampanini, solo per citare le più famose, avevano forme prorompenti, fianchi e seno abbondanti, vita sottile.  Fu Vittorio De Sica  che nell’episodio “Il processo di Frine”, del film  “Altri tempi” (1952) in una memorabile arringa nella parte di avvocato difensore delle grazie di una popolana, Gina Lollobrigida,  inventò il termine proverbiale di maggiorata fisica, sostituendolo con quello di “minorata psichica” con cui la stessa era stata definita. Nel film “Riso amaro” (1949) la Mangano, poi passata a ruoli più sofisticati, interpretava la parte di una mondina bella ed aggressiva, mentre la Loren, arrivata al successo qualche anno più tardi, con “L’oro di Napoli” (1953) proponeva l’immagine di una provocante pizzaiola napoletana. Allo scadere del decennio Federico Fellini nel suo celeberrimo “La dolce vita” dette una versione poetica e per molti scandalosa della maggiorata, immortalando Anita Ekberg mentre si bagnava nella Fontana di Trevi.
Nello stesso tempo gli Stati Uniti lanciarono una nuova sex symbol, Marilyn Monroe  che dal 1953 fino alla sua morte diventò una delle più famose star del mondo, restando sempre all’interno di ruoli di oca bionda. Tuttora la star è ancora un’icona cult della bellezza e della sensualità. La seguì a ruota Jayne Mansfield, che non ebbe tuttavia lo stesso successo; dotata di un seno prorompente l’attrice cercava in ogni modo di mostrarlo “casualmente” facendosi aiutare da fotografi e paparazzi. A queste donne era richiesto di essere solo belle e provocante, con abiti ammiccanti, gambe scoperte, vesti scollate e tacchi alti.
Dalla fine degli anni Cinquanta il cinema francese si accorse che le nuove generazioni stavano cambiando: un diverso modo di pensare, di leggere, di vivere designato dai giornali come “Nouvelle Vague” presentava giovani sinceri, disinvolti, inquieti.  Il tipo estetico femminile non poteva più essere solo quello della donna oca:  così nel 1956 Roger Vadim propose la moglie  Brigitte Bardot nel l film “E Dio creò la donna” che ebbe un successo strepitoso.In the same year she married Roger Vadim. A differenza degli anni Cinquanta dove, almeno in Italia, la bellezza prorompente delle attrici si accompagnava solo a timidissime allusioni erotiche, Brigitte presentò un personaggio  insolente, sensuale, ribelle, senza alcuna vergogna di mostrare il suo splendido corpo: la sua acconciatura spettinata e la lunga e bionda coda di cavallo furono copiate dalle ragazzine di mezzo mondo. Il broncio scostante e l’atteggiamento indipendente, anticipavano la libertà sessuale che sarebbe stata una delle conquiste degli anni Sessanta.  Una versione italiana e molto più casta della Bardot fu fornita da Marisa Allasio che nel film “Poveri ma belli” (1956) interpretava il ruolo di una bellissima ragazza tutta curve ma dalla moralità ineccepibile.
Nello stesso periodo quasi ad anticipare gli anni Sessanta, fece la sua comparsa un’attrice dal fisico completamente diverso: la  magrissima Audrey Hepburn. Nel 1952 debuttò in “Vacanze romane” dove recitava assieme a Gregory Peck. Dotata di fascino e grande talento ebbe un enorme successo e diventò ben presto un'icona dello stile, anche perché la sua figura ben si prestava ad indossare ogni tipo di abito. In seguito il suo guardaroba venne affidato allo stilista francese Givenchy che sarebbe diventato suo amico e couturier personale, creando per lei indimenticabili toilettes  come quelle del film “Colazione da Tiffany”(1961). L’inquietudine degli anni Sessanta con la protesta giovanile contro la società borghese, la famiglia tradizionale, il mondo capitalista e la guerra del Vietnam sfociò in una contestazione generalizzata che si riorganizzò in nuovi gruppi di opinione come il movimento hippy, il femminismo, il movimento omosessuale. Le nuove icone femminili si riferivano ormai a corpi snelli e non maturi, a gambe sottili, a fisici quasi androgini: la diffusione della moda giovane caratteristica del periodo, portò alla ribalta indossatrici e ragazze copertina “reinventate” dai fotografi di moda. Queste ragazze erano incredibilmente magre e pallide come zombies, anche grazie al trucco che ne sottolineava  pesantemente gli occhi ed evitava l’uso del rossetto. La più famosa tra tutte fu Twiggy (legnetto) al secolo Lesley Hornsby una ragazza inglese alta 1 metro e 65 cm.  che pesava 43 chili.  Era il tipo ideale per indossare la minigonna che  negli stessi anni era stata lanciata da Mary Quant. Seguirono un’altra modella inglese, Jean Shrimpton soprannominata “Shrimp” (scricciolo) e, tra le altre Penelope Tree.
Questa ragazza non bella fu scoperta a soli 13 anni dalla fotografa Diane Arbous e, nonostante il parere contrario dei genitori, a 17 anni fui presentata all’editor di Vogue Diana Vreeland. Fu fotografata dal grande Richard Avedon, che vedeva in lei una strana bellezza nonostante l’opposizione di alcuni redattori della rivista, che la consideravano goffa. Penelope aveva occhi immensi e un aspetto non convenzionale, sottolineato anche dal fatto che davanti alla macchina fotografica non sorrideva mai. Più tardi ammise di essere stata anoressica. La sua carriera terminò a 21 anni per una grave malattia della pelle che le lasciò grvi cicatrici sul volto. Queste modelle erano tra l’altro le icone della Swinging London termine che indicava le tendenze culturali che si svilupparono in Gran Bretagna negli anni Sessanta, non esclusa la musica pop i cui simboli principali furono i Beatles, i Rollig Stone e gli Who.
Tuttavia la prima top-model della storia fu Vera von Lehndorff (1939) nota con lo pseudonimo di Verushka.  Di origine tedesca e altissima (1,85 cm.) si affermò come una delle più importanti e delle più pagate modelle del periodo grazie al fotografo Ugo Mulas  che la scoprì nel 1959, e in seguito al fidanzato-fotografo Franco Rubartelli, che la immortalò in alcune delle sue foto più belle. Ha posato per più di 800 cover. Parlando di sé stessa dichiarò che si era sempre sentita bruttissima e si vergognava dei piedi taglia 44; per poter calzare scarpe da donna si sarebbe fatta ridurre l’alluce.  Si ritirò nel  1975 per dedicarsi alla body art e alla pittura.
Le indossatrici  inaugurarono uno stile di femminilità assolutamente nuovo nella storia, sfoggiando gambe da cicogna e imponendo per la prima volta la magrezza come valore estetico. Dietro di loro c’era il business della moda che tentava di catturare le giovani generazioni che stavano diventando più esili degli adulti, sia per la vita sportiva, sia per il nuovo tipo di alimentazione.


Il presepe napoletano del ‘700 e i suoi costumi

"Il presepe napoletano è il Vangelo tradotto in dialetto partenopeo”affermava Michele Cuciniello che
donò al Museo di San Martino di Napoli la sua meravigliosa collezione, inaugurata felicemente nel 1879. Nel XVIII secolo, grazie all’impulso dato da Carlo III di Borbone, il presepe era diventato in città una vera e propria forma d’arte. Il principe era consigliato dal suo confessore padre Rocco che vi vedeva uno strumento di propaganda; all’approssimarsi del Natale il religioso infatti esortava il popolo a costruire all’interno delle case una rappresentazione della Natività, promettendo i castighi dell’inferno a chi non avesse eseguito i suoi suggerimenti. Carlo III contribuì a dare l’esempio e coinvolse nella creazione del presepe tutta la sua corte, dando luogo a vere e proprie competizioni tra la nobiltà locale. 
I migliori artisti della Napoli settecentesca come gli scultori Giuseppe Sammartino, Matteo e Felice Bottiglieri, Nicola Somma, Lorenzo Vaccaro, assieme a scenografi, e artigiani di ogni tipo, orafi, liutai, ceramisti, erano chiamati a realizzare le statue - che avevano viso e mani in terracotta, occhi in vetro, anima in stoppa e fil di ferro e abiti cuciti a mano - e gli accessori   Per la realizzazione del presepe si ricorreva ai prodotti delle Reali fabbriche borboniche (arazzi, porcellane, pietre dure, argenti, sete) che permettevano di costruire le statuette e i loro corredi i quali costavano vere e proprie fortune al punto che non di rado la corsa al presepe più bello portò all’indebitamento delle famiglie aristocratiche; nei registri giudiziari alla voce "debiti" figuravano per l’appunto queste messinscene sacre e costosissime. Infine, ogni anno si apportavano al presepe variazioni nelle pose e nella scenografia in modo da assicurare scene sempre diverse.

Lo scarno tema della narrazione evangelica di Matteo e Luca è stato immaginato dalla sbrigliata fantasia napoletana mettendo al centro la Natività, attorno a cui  si stringono i pastori adoranti e i re Magi col loro  ricchissimo corteo, per poi allargarsi all'infinito nelle figure di contorno che si ispirano alla vita popolare dei mercati e delle piazze, con miriadi di personaggi che esprimono lo spirito festoso del popolo partenopeo. Né manca la taverna in cui Maria e Giuseppe non avevano trovato alloggio, popolata di bevitori, giocatori, allegre brigate. Il mercato poi si snocciola nelle sue attività mensili riprese dalle medievali raffigurazioni dei periodi dell’anno: gennaio e febbraio con il macellaio e il salumiere, marzo col ricottaro, il pollivendolo ad aprile, il venditore di uova a maggio, le donne coi canestri di ciliegie a giugno, il panettiere a luglio, i pomodori ad agosto, il banchetto dei cocomeri a settembre, il contadino o il seminatore ad ottobre, il vinaio o “Cicci Bacco” a novembre e il caldarrostaio e il pescivendolo a dicembre. Altre figure caratteristiche sono “Benino”, l’uomo che dorme, i Compari Zi’ Vincenzo e Zì Pasquale che vendono i numeri del lotto, il Monaco, la Zingara, la Meretrice.
Collegato a temi letterari e pittorici, il presepe napoletano è influenzato da motivi bucolici che si ritrovano in Torquato Tasso e nella sua “Aminta”, nell’Arcadia e nelle sue favole pastorali, in Metastasio e perfino nella canzone napoletana antica, con melodie celeberrime come “Tu scendi dalle stelle” o “Quanno nascette ‘o ninno”. Né sono estranee le influenze della pittura, in particolare quella di genere: la “Gloria degli angeli”, “l’Adorazione dei Magi”, le scene di taverna e di cucina tanto presenti nell’arte barocca dopo Caravaggio e i Carracci, la natura morta napoletana. Mentre le scenografie  risentono del gusto per la pittura di “rovine”, o dei paesaggi tutti balze e dirupi di Salvator Rosa e Aniello Falcone.
I personaggi del presepe sono abbigliati in modo molto accurato con abiti spesso cuciti dalle stesse dame di corte. Non si trattava però di costumi quotidiani, ma delle vesti tradizionali indossate dal popolo per le feste, mentre tutti i giorni della settimana la gente si metteva panni semplici da lavoro. Le  figure rappresentano un’umanità semplice, felice e giocosa che poteva essere ammirata nelle processioni e nelle sagre, nei matrimoni e nei riti. 
Proprio in quel periodo, elementi di ordine economico come il progresso dell’industria e delle comunicazioni avevano dato impulso al miglioramento del tenore di vita dei ceti bassi, che finirono per essere alla base di nuove mode popolari. Un ulteriore incentivo all'arte presepiale fu anche l’amore per l’eleganza di Carlo III che in ogni occasione incitava – forse per dimostrare la bontà del suo regno – alla galanteria e al gusto del vestire. I canoni del costume festivo erano rigorosamente rispettati in una ricostruzione che brillava di colori, di finiture dorate, di bottoni e perfino di gioielli. E non solo la Campania ma anche il Regno delle due Sicilie era raffigurato in tutta la sua varietà di varietà. I tessuti erano realizzati nella real Colonia di San Leucio, la manifattura voluta da Carlo III per realizzare pregiate e richiestissime stoffe in seta: in particolare la cosiddetta misura “terzina” consistente in decorazioni a piccoli fiori e forme geometriche.

Nella cavalcata dei Magi si scatena il gusto del fantastico: i costumi orientali dei re e del loro seguito si ispiravano a quelli degli uomini al seguito degli inviati del Sultano e del re di Tripoli, o a quelli degli ambasciatori della Porta Ottomana in visita a Napoli, che nel 1778 sfilarono in pompa magna per via Toledo. Nel presepe oltre ai re spiccano le figure dei Giannizzeri, la fanteria che formava la guardia personale del Sultano, e dei “Georgiani” provenienti dalle regioni meridionali del Caucaso, ossia dignitari di razza bianca vestiti alla turca con ampi e sbuffanti pantaloni, con una lunga palandrana piena di alamari, ricami e galloni. 
L’odalisca dalla bellezza procace invece è un personaggio di fantasia che non poteva essere stata vista dal popolo. Algerini, mongoli, turchi, georgiani, samaritane, sono ricoperti di tessuti ed accessori preziosi rigorosamente ridotti in scala. Anche i servitori dei Magi, i nani e i portantini furono fedelmente ricostruiti assieme agli animali - cani, cavalli, scimmie e cammelli - con le loro bardature. Lo scopo finale di queste messinscene era naturalmente di suscitare meraviglia nello spettatore e ostentare la ricchezza del proprietario.
Una delle caratteristiche del vestiario festivo popolare era la portabilità necessaria per le esigenze lavorative: grembiuli, braghe larghe non fermate sotto il ginocchio ma lasciate libere di ricadere all’altezza del polpaccio, pratiche giacche corte. Mentre le vesti dell’aristocrazia erano rigide e complicate dimostrando che questo ceto non praticava lavori manuali, quelle della povera gente lasciavano libertà di movimento costituendo in tal modo un segno distintivo di classe. 
Il corredo femminile era riconducibile a pochi tipi base, rielaborati e caratterizzati per ogni paese, città, rione e persino gruppo familiare: caratteristiche sono la linea del bustino aderente ma non strozzato in vita e la gonna corta e arricciata ma non esageratamente allargata dalle impalcature interne portate dalle aristocratiche che impedivano loro perfino di sedersi. Fondamentale elemento di riconoscimento è poi il pezzo di stoffa destinato a coprire il capo, a volte il grembiule stesso ripiegato sulla testa, a volte il fazzoletto o il velo. 
Nel presepe particolarmente pittoresche sono le fogge delle donne delle isole di Ischia e Procida: zimarra in seta chiusa da bottoni d’oro, corpetto allacciato davanti, grembiule e fazzoletto arrotolato sul capo. Le donne d’Ischia invece indossano abiti riccamente ornati, camicia con maniche ampie, zoccoli e soprattutto un grande fazzoletto ripiegato sul capo – detto tovaglia - che distingueva l’identità locale e che era portato anche in altre località del centro Italia.
Il costume dei pastori abruzzesi è invece caratterizzato dal panciotto in pelle di pecora e da fasce o panni arrotolati attorno alle gambe e ciocie ai piedi. Questa tipica calzatura, ancora portata nel secolo scorso,  è costituita da una suola di cuoio flessibile assicurata al piede da corregge intrecciate. Il suonatore di violino, un po’ più in alto nella scala sociale,  ha invece un abito in seta lucida quadrettata o a fiori e completato da eleganti calze aderenti.
Il costume borghese – in ritardo sulle novità della moda di corte che copiava le fogge di Francia – comprendeva per gli uomini una giacca lunga con maniche a larghi risvolti, e per le donne una gonna arricciata e un corpetto aderente.  Più semplice del vestito aristocratico, l’abito di questa classe non denotava tanto una limitata disponibilità di mezzi economici, quanto un gusto per la vita sobria, dedicata al lavoro e alla costruzione di un solido patrimonio finanziario in confronto con l’aristocrazia sprecona.
Fonti:
Il folklore – volume XI della serie Conosci l’Italia, Touring club italiano, Milano, 1967
Il presepe napoletano – volume 47 della serie “Forma e colore”, Sadea/Sansoni editori


venerdì 25 maggio 2012

Roberto Capucci

Roberto Capucci, nato a Roma nel 1930, è stato un enfant prodige della moda a cui arrivò quasi per caso, dato che i suoi interessi primari erano la scenografia, il costume teatrale, l’architettura. Dopo aver frequentato il Liceo artistico, collaborò con lo stilista Emilio Schubert, per poi aprire a soli vent’anni  una Casa di moda per contro proprio. Nel 1951 presentò le sue creazioni a Palazzo Pitti di Firenze, ottenendo un successo immediato. Nel 1958 presentò la linea “a scatola” aggiudicandosi l’Oscar della moda. Diventò in breve famoso e apprezzato, tanto che lo stilista francese Christian Dior lo definì in un’intervista a Vogue: “il miglior creatore della moda italiana”. Era infastidito dalla volgarità e dal cattivo gusto, cercando stimoli nella storia dell’arte. Certamente la formazione lo aiutò ad acquisire consapevolezza culturale: era affascinato dai primitivi italiani – Giotto, Pisanello, Beato Angelico, Benozzo Gozzoli, Paolo Uccello, e dai loro colori ora teneri ora squillanti, cui aggiunse ben presto tinte tenebrose. Fin dall’inizio si dimostrò interessato alla sperimentazione sulle forme e le decorazioni: ogni abito, praticamente una scultura in tessuto,  richiedeva almeno mille ore di lavorazione manuale, con cuciture praticamente invisibili  e ricami eseguiti con materiali insoliti come pietruzze di fiume o piccole conchiglie. Innamorato fin dall’inizio della seta, ne approfondì la conoscenza nell’Opificio Serico  del marchese Pucci scoprendo l’ormesino, un antico tessuto lavorato su telaio a mano, che usò nella versione cangiante.
La ricerca delle possibilità che gli offriva la seta, da lui stesso definita “un tessuto nobile, duttile, che si piega a tutte le invenzioni” lo portò in seguito a fornirsi presso antiche manifatture come i Gammarelli, fornitori vaticani. Tuttora questo tessuto è protagonista delle sue collezioni nelle sue infinite varianti: dallo chiffon, al crêpe georgette, dal raso, al velluto, al taffetas; in ciò ha seguito la storia e la tradizione della moda italiana coi suoi infiniti  e preziosi modelli, da quelli nobiliari ai paramenti sacri. Proprio con un abito serico tramato d’oro ha voluto qualche anno fa rendere solenne l’apertura della sua fondazione. Fa tingere le sue stoffe a Lione, riproducendo infinite sfumature di colore, fino 172 in un abito presentato all’expo di Lisbona del ’98.
Il successo strepitoso raccolto negli anni romani era contrario alla sua natura introversa. Era spaventato “dal contagio della volgarità, dal mal gusto imperante, dalla bruttezza”. Così “il piccolo Re di Roma” – come era stato battezzato dai giornali – decise di andarsene ed  aprire nel 1962 un atelier a Parigi accompagnato solo dalla sorella Marcella. Voleva creare in solitudine, ispirandosi ai suoi viaggi, ai suoi studi sull’arte, alle osservazioni della natura. Nel 1968 tornò definitivamente in Italia e nel 1970 realizzò gli abiti di Silvana Mangano e Terence Stamp per il film “Teorema” di Pier Paolo Pasolini. Nel 1980 decise di allontanarsi dal mondo delle grandi istituzioni di moda, presentando una collezione di alta moda all’anno e sempre in una città diversa, esponendo le sue creazioni non come quelle di un grande sarto, ma di un vero e proprio artista, utilizzando come fondale antichi palazzi, musei, sale per concerti. E’ proprio in questo periodo che cominciò a introdurre il plissè piegato alle sue esigenze creative. Non si è mai dedicato al prêt à porter. Ormai era conosciuto anche in Oriente, dove fu chiamato  per tenere lezioni sull’arte di creare all’Università di Pechino e di Shanghai.
Il suo percorso, che dura tuttora ininterrotto, gli ha portato onorificenze e riconoscimenti: i suoi abiti da cerimonia sono stati indossati da molte donne dell’alta società italiana ed europea: Gloria Swanson, Marilyn Monroe, Silvana Mangano.  Resta famoso il modello realiozzato per Rita Levi Montalcini in occasione della cerimonia per il premio Nobel a lei conferito nel 1986.
Nell’ultimo trentennio della sua attività ha trovato ulteriori fonti d’ispirazione nel Rinascimento Italiano, di cui ha usato le ampie maniche, i sontuosi strascichi e i colori vivacissimi, nel Barocco di Velazquez e di Tiepolo, nell’abbigliamento e nelle armature orientali.  Anche l’antica divisone del mondo fisico  negli elementi fondamentali, Acqua, Terra, Aria, Fuoco, è stata per lui una spinta alla creazione di sempre nuove forme. L’atelier Capucci usa ago e filo, ma tratta la seta come metallo in infinite modulazioni ottenute con gli stampi da plissettatura.  In tal modo crea forme a ventaglio, sfaccettate, incrostate, con giochi di luce e di ombra e moltissime variazioni cromatiche.
Lui stesso non ha mai eletto un “colore simbolo” che lo distinguesse come altri sarti, ma “usa il colore secondo una personale necessità”. Nello stesso tempo ha accostato tessuti preziosi come la seta a materiali inconsueti come paglia, ottone, plexiglas, cristalli di rocca, tubi di plastica, ciottoli di pietra. Le sue creazioni si presentano così come abiti a linee spezzate, a cubi,  ad anello, a spirale, a fiori stilizzati, a grandi farfalle, con elementi asimmetrici, zampilli, grandi arricciature di seta, lunghe code. Meticolosissimo, per ogni sua presentazione prepara fino a 1200 bozzetti per poi selezionarne una parte. Non risparmia né in lavoro né in costi: quattro mesi per realizzare un abito che può richiedere fino ai 180 metri di tessuto. Non è interessato né alla vestibilità né alla portabilità, ma i suoi modelli sono scultura pura libera da esigenze materiali e temporali. Nel 1910 la sua ultima sfilata ha proposto stupefacenti abiti ispirati alla Cina, sia nei colori, sia nelle forme che ricordano, perfino nei fantastici cappelli, pagode e architetture tipiche. Ogni vestito aveva il nome degli splendidi paesaggi della Repubblica popolare cinese. Dal 2006 è stata istituita a Firenze la fondazione Roberto Capucci con la finalità di conservare e promuovere le opere del maestro e lanciare nuovi talenti. Le sue opere sono ospitate nei maggiori musei del mondo.

Bibliografia:
Fantasie guerriere, catalogo della Mostra, Silvana editoriale, Milano, 2008
Amelia Bottero, Nostra signora la moda, Mursia. Milano, 1979
Guido Vergani, Dizionario della moda, Baldini Castaldi Dalai editore, Milano, 2009


giovedì 24 maggio 2012

I primi segni dell’uomo: tatuaggi e scarificazioni

L’uomo ha sempre cercato di usare la pelle per trasferirvi sogni, emozioni e desideri, giuramenti d’amore, paure, scongiuri propiziatori, inclinazioni alla vendetta, desiderio di proprietà e via dicendo. Tatuaggi e deformazioni cicatriziali o corporali sono probabilmente la forma d’arte più effimera che l’uomo abbia creato dal momento che scompaiono con lui. Amati o detestati nel corso del tempo hanno provocato reazioni molto diversificate: ammirazione, rispetto, paura, repulsione. Soggetti alle mode e molto diversificati, sono presenti in tutte le culture del pianeta fin dall’antichità e sono stati studiati a fondo dagli etnologi, se pur gli studi debbano ulteriormente essere approfonditi.
La parola moderna tatuaggio deriva dall’etimo polinesiano “tatau” che significa “disegno sulla pelle”; la tecnica di esecuzione non si è evoluta attraverso i secoli, se non dopo la comparsa dell’ago elettrico, brevettato per la prima volta nel 1891.  Il concetto basilare è comunque rimasto identico: incisioni profonde o leggere  praticate per mezzo di scaglie, pietre appuntite o aghi di vari materiali, intrisi di sostanza colorante fluida che deve penetrare sotto  l’epidermide. Molte le varianti: alcuni popoli nel sud – est asiatico, grattano la pelle con uno strumento munito di punte affilate, metodo conosciuto in Europa fin dalla preistoria. In Oriente tale tecnica si serve di una sorta di pettine in cui sono conficcate  punte d’osso o d’avorio. I complessi tatuaggi di Samoa usano contemporaneamente vari strumenti affilati che permettono di eseguire linee molto fini.
La nascita del tatuaggio è precedente al periodo neolitico (attorno ai 10.000 anni fa): gli scavi hanno riportato alla luce ossa di uomini tatuati, sebbene il primo documento certo sia molto più recente: infatti la mummia del Similaun soprannominata  Ötzi, è considerata il primo essere umano tatuato di cui si abbia conoscenza,  con ben 57 tatuaggi sul corpo. La tecnica utilizzata nel periodo in cui quest’uomo è vissuto (III millennio a.C.) appare diversa da quella moderna: non venivano usati aghi, ma erano invece praticate delle piccole incisioni della pelle, poi ricoperte con carbone vegetale per ottenere l'immagine. I tatuaggi dell'uomo del Similaun consistono in semplici punti, linee e crocette: si trovano in corrispondenza della parte bassa della colonna vertebrale, dietro il ginocchio sinistro e sulla caviglia destra. Esami radiologici hanno individuato forme di artrite proprio in quei punti, da cui si presume che tali immagini avessero una funzione di tipo magico o cultuale, al fine di alleviare i dolori.
Testimonianze dall’antico Egitto ci dicono che le donne si tatuavano, come dimostrato da alcune pitture funebri o da mummie femminili risalenti al 2000 a.C.  Gli antichi romani, cultori della purezza del corpo umano, rifiutarono radicalmente il tatuaggio – con cui marchiavano solo i criminali -  fino a quando non vennero in contatto coi Galli per i quali le incisioni corporali erano un simbolo di forza e di onore; dopo l’invasione del nord Europa, i legionari cominciarono a praticare su sé stessi questi segni distintivi. Il cristianesimo, che attraverso i padri della Chiesa predicava il rifiuto di qualsiasi manipolazione del corpo, naturalmente perfetto perché opera divina, osteggiò apertamente il tatuaggio, che vietato da una bolla di papa Adriano nel 787, scomparve definitivamente dall’Europa ad eccezion fatta per la croce di Gerusalemme che si praticavano i crociati. I cristiani copti invece mantennero questa usanza praticandosi sul corpo disegni che rappresentavano la croce, la Natività o Corios, santo martirizzato sotto l’impero di Diocleziano.
La religione ebraica vieta i tatuaggi permanenti (Levitico, 19, 28) come pure quella Musulmana, secondo le indicazioni del profeta Maometto, permettendo solo i disegni provvisori con l’henné.  Solo durante il XVIII secolo il famoso viaggiatore inglese capitano Cook fece conoscere nei suoi viaggi  nell’Oceano pacifico il tatuaggio largamente praticato dai nativi.   Da lui e da studi successivi sappiamo che I segni non erano un accessorio cosmetico ma avevano una fondamentale valenza culturale.  Le ragazze polinesiane ad esempio, si praticavano tatuaggi neri sulle natiche al sopraggiungere della pubertà. A Samoa inoltre era diffuso Il “pe’à” che ricopriva tutto il corpo e richiedeva una seduta di cinque giorni che era anche una prova di grande forza e sopportazione, al termine della quale il tatuato era onorato con grandi feste. Il significato profondo di questa forma d’arte era quindi collegato con riti di passaggio e per questo richiedeva tempo, pazienza, sacrificio e notevole capacità di sopportare il dolore fisico. Il tatuaggio era inoltre considerato un’operazione di abbellimento ma soprattutto di protezione dalle malattie, le disgrazie, gli spiriti maligni, i passaggi difficili della vita, forse perché era definitivo, facendo corpo unico con la pelle. Le polveri usate più comunemente erano il colore rosso, nero, bruno e verdastro. Il tatuaggio doveva essere sempre evidente, lucido e brillante e quindi l’operazione poteva essere ripetuta varie volte. Non esistendo aghi sterili era possibile avere reazioni edematose specie nel caso di tatuaggi complessi.
Affascinati da queste decorazioni, i marinai europei cominciarono a copiarne le forme e le tecniche, e non c’era un porto dove non si trovasse una bottega di Tattoo, che così si ridiffusero anche da noi, se pur quasi in clandestinità e sempre nelle fasce sociali collegate con la marina e la malavita.
Mentre nelle isole del Pacifico la grande prevalenza dei tatuaggi era maschile, in Africa era femminile. Nel momento in l’usanza ebbe la sua massima diffusione, si arrivò a diversi vari tipi di tatuaggio: da quello “estetico” solitamente composto da fiori e animali, a quello “superstizioso” che serviva a difendersi da malattie e disgrazie;  dal tatuaggio “d’onore e di distinzione”, come quello praticato per ricordare il numero di nemici uccisi o le gerarchie all’interno delle tribù, a quello di “possesso”, praticato sulle donne o sugli animali; dal  tatuaggio “religioso” frequente tra gli indigeni convertiti al cristianesimo (come le croci marchiate a fuoco sulla fronte in Etiopia) a  quello “informativo” destinato a coloro che avevano subito un’iniziazione, o che appartenevano ad una determinata tribù o clan. Infine esisteva anche il tatuaggio “ricordo” per rammentare una persona scomparsa.
Nonostante le proibizioni del Corano,un tipico esempio di tatuaggio contro il malocchio tuttora diffuso nel mondo islamico, è la “Mano di Fatima” (Hamsa) simbolo di serietà e autocontrollo. Essa è anche collegabile ai cinque pilastri praticati nel credo di questa religione, essenziali per mantenere un buon rapporto con Allah: la testimonianza di fede, le preghiere rituali, il digiuno nel mese di Ramadan, l’elemosina, il pellegrinaggio alla Mecca.
I Maori, che continuano a tatuarsi tuttora, chiamano i loro disegni facciali personalizzati “moko”, considerato una forma di identificazione con la famiglia di provenienza o come simbolo delle conquiste realizzate nella vita. Dal 1820 cominciò la macabra  e redditizia usanza di barattare armi con le teste mozzate di guerrieri maori, al punto che gli omicidi di indigeni divennero una pratica abituale, proibita definitivamente dal governo britannico nel 1831 che vietò l’importazione di teste in Inghilterra.
Le “Scarificazioni” sono una variante del gruppo dei tatuaggi in forma di cicatrici, praticata soprattutto in Africa. Queste incisioni vengono ottenute mediante piccoli tagli della pelle con disegni semplici o complessi, lineari o curvilinei. In seguito vi si passano sopra polvere o sostanze irritanti in modo da tenere la ferita sempre aperta e da formare la cosiddetta “cheloide” una cicatrice rilevata. Un altro sistema di scarificazione è l’ustione praticata con punte roventi, mentre il paziente sopporta il dolore fisico con vero stoicismo. In passato per le donne africane erano una fonte di attrazione sessuale e per questo praticate su parti ben visibili come il volto, l’addome, le braccia, il pube, le natiche, la faccia interna delle cosce, ed esse stesse si sottoponevano di buon grado al procedimento convinte altrimenti di non trovar marito. Anche gli uomini si sottoponevano alla dolorosa pratica della scarificazione per sottolineare il rito di passaggio dall’infanzia alla maturazione. La loro forma indicava l’età, l’affiliazione ad un clan, o aveva semplici scopi estetici.
Il popolo Nuer ha portato quest’operazione ai limiti estremi, praticando sei larghe cicatrici tagliate col rasoio, che coprono orizzontalmente la fronte. Poiché col rasoio si incide anche il nervo suborbitale questo tipo di operazione poteva indurre violente emorragie anche mortali. Tuttavia, dopo un lungo periodo di convalescenza i ragazzi  erano accolti dalla comunità con grandi celebrazioni cerimoniali. Una curiosa scarificazione tribale veniva praticata dai boscimani in Etiopia: un grande solco in mezzo alla fronte su cui venivano inseriti frammenti di carne di antilope, per acquistare l’agilità allo scopo di favorirne la caccia.
Fino a quando non è esplosa la moda odierna del tatuaggio, in Occidente esso era relegato alla criminalità e alla prostituzione. Secondo alcuni studiosi aveva lo scopo di elevare e identificare l’individuo al di sopra nella noia e dell’appiattimento derivati dalla detenzione. La psicologia junghiana moderna vede nel tatuaggio l’espressione della rappresentazione fantastica di un desiderio. In Giappone invece alcune categorie sociali utilizzano tuttora il tatuaggio: i falegnami, i sushimakers (coloro che preparano il sushi) e i gangster “Yakuza”. Come per le società tribali il tatuaggio yakuza sottolinea l’appartenenza alla nuova famiglia criminale e rafforza i legami tra i vari membri: il rosso e il nero, colori preferibilmente usati, sono collegati coi numi protettori, Fudo e Nio, che simboleggiano la durezza  e il coraggio.

Bibliografia:

Paolo Rovesti, Alla ricerca della cosmesi dei primitivi, Maurilio, Venezia, 1977
L’Asino e la zebra, Catalogo della mostra, De Luca editore, Roma, 1983.
Burkhard Riemschneider, 1000 tattoos, Taschen, Colonia, 2005



mercoledì 23 maggio 2012

Vivienne Westwood

Nata nel 1941 da una famiglia di operai tessili inglesi, Vivienne Isabel Swire, giunse a Londra assai giovane e, dopo un breve matrimonio con  Derek Westwood, vi conobbe e sposò Malcom McLaren, destinato a diventare leader dei Sex Pistols. Avevano in comune la ribellione verso l’ipocrisia della società inglese che volevano destabilizzare con atteggiamenti provocatori  che richiamavano il sesso e l’anarchia. Dopo un breve periodo in cui Vivienne visse vendendo gioielli a Portobello Road, lei e Malcom aprirono nel 1971 una boutique “Let it Rock” dove si potevano comperare giacche in pelle nera e maglie con le borchie, vestiti in gomma o altro materiale sintetico, e t-shirt stampate con immagini pornografiche o scritte come “Only anarchists are pretty o “Anarchy is melody”.  Appassionata dello stile punk che contribuì a lanciare, Vivienne non esitò ad esibirsi lei stessa con capelli corti e ispidi a ciuffi colorati e scarpe dalla zeppa vertiginosa. La sua boutique includeva pantaloni in pelle, t-shirt tagliate e accessori fetish come lamette,  catene e collari a punte metalliche. Cominciò ad avere clienti importanti come Ringo Starr per cui ideò costumi di scena.  Il negozio fu chiuso dalla polizia, ma lei lo riaprì ribattezzandolo “Seditionaries”, un gioco di parole tra seduzione e sedizione. Nel 1975 fu fondato il gruppo dei Sex Pistols una delle più importanti band punk rock britanniche e i suoi membri cominciarono a frequentare “Let it Rock” contribuendo a diffondere tra i loro fan i prodotti della Westwood.
Negli anni Ottanta il fenomeno punk si andava ormai diluendo. Nel 1981 Vivienne, pur rimanendo ancorata al suo stile provocatorio, lo corresse ribattezzando la sua prima sfilata londinese “Pirate” imperniata sul rilancio del romanticismo ma dedicata ai ribelli di tutti i tempi. Cominciava a rivolgersi ai costumi antichi pur rielaborandoli in modo sovversivo. In questa collezione rimasero famosi i suoi stivali  chiusi da larghe fasce orizzontali, poi imitati da numerosi stilisti. Due anni dopo terminò il suo sodalizio artistico e sentimentale con McLaren, ma rimase nel mondo dell’arte avendo rapporti sempre più stretti con Keith Haring, con cui creò la collezione Witches, in cui giacche e gonne erano stampate con motivi ideati dal famoso artista di graffiti. Col tramonto dei punk “Lady Vie” aprì una nuova boutique tuttora esistente, “World’s end”, in cui è  inserito un grande orologio con le lancette che girano all’incontrario. Nonostante molti cominciassero a darla per spacciata lei fu invitata a Parigi, prima delle stiliste inglesi assieme a Mary Quant a ottenere un simile palcoscenico. Nel 1983 propose polemicamente di indossare il reggiseno sopra gli abiti. Nel 1985 ebbe nuovamente un grosso successo con la “Crini collection”, una rivisitazione degli abiti vittoriani in cui riproponeva corsetti, gonne a faux-cul e le “platform”zeppe altissime perché “la bellezza femminile  deve essere issata su un piedistallo”. La collezione fece nuovamente scalpore ma Vivienne reagì: “Gli abiti hanno sempre ricostruito e modellato l’architettura del corpo, anche se oggi sembra vietato farlo. Disegnare un vestito con il sellier, l’imbottitura che regala una forma rotonda, è diventato un atto sovversivo. Nell’era dei pregiudizi democratici, tutto deve essere omologato, controllato, contenuto entro limiti precisi.”
Se pur a fortune alterne la stilista continuò a godere di altissima considerazione nell’ambiente della moda: nominata insegnante dall’89 al ’91  all’Accademia delle Arti applicate di Vienna, riuscì ad ottenere dalla Regina Elisabetta l’onorificenza “Order of British Empire”; durante la cerimonia, per non smentirsi, tirò su la gonna mostrando al mondo che non portava biancheria intima. Negli anni successivi continuò le sue contaminazioni storiche riproponendo il tema della crinolina e delle parrucche bianche stile Maria Antonietta. Nel 1993 firmò un orologio Swatch, il Pop Putti. Dal  1996  si dedicò alla moda maschile con una collezione al Pitti uomo che suscitò notevole scandalo. Al tempo stesso stava riorganizzando le sue collezioni con nuove linee: la Gold Label, La Red Label, la Man Label e in seguito Anglomania. Nonostante gli anni passassero la creatività della Westwood  non si esauriva; dimostrando grandi capacità di marketing era ormai a capo di un impero con negozi in tutto il mondo.
Nel 2005 dissentendo contro la politiche delle amministrazioni Bush e Blair, appoggiò i movimenti libertari inventando una T-Shirt stampata con la scritta: “I am not a terrorist”; le sue collezioni successive sono continuate sul piano ideologico della resistenza attiva.

Bibliografia: F.Alfano Miglietti, Virus moda, Skira ed, Milano, 2005; G.Vergani, Dizionario della moda, Baldini, Castoldi, Dalai ed. 2010.

Breve storia dei pantaloni da uomo

Probabilmente nati come indumento per cavalcare, i pantaloni fecero la loro comparsa in Persia molti secoli prima di Cristo. I persiani furono molto abili a conciare le pelli rendendole morbide e duttili e contribuendo in modo fondamentale a creare un capo che avrebbe avuto una notevole fortuna storica. Nel bacino del Mediterraneo però i pantaloni comparvero assai più tardi, dopo le conquiste romane in Gallia: i barbari infatti usavano, per difendersi dal freddo, lunghi tubi che colpirono talmente l’immaginazione dei  latini da definire la regione “Gallia bracata”. Osteggiate dapprima come indumento volgare, le brache entrarono egualmente nell’uso maschile quotidiano al punto che, alla caduta dell’impero romano nel V secolo, erano parte stabile del guardaroba maschile: non troppo strette, legate con lacci o fasciature incrociate alla gamba, venivano confezionate in lana o più raramente in seta preziosa.
Nel Medioevo facevano parte degli indumenti chiamati genericamente “panni da gamba”, che comprendevano anche fasce, calze e uose. Nel Duecento e nel Trecento il gusto del colore invase l’abbigliamento con il curioso costume delle “vesti divisate”, ossia degli abiti ripartiti in due metà verticali e simmetriche di tinta diversa e contrastante, moda cui nemmeno le braghe sfuggirono. L’usanza festosa delle vesti   colorate sarebbe durata fino alla conquista spagnola dell’Italia, nel XVI secolo, quando fu sostituita dal funereo nero integrale. Tornando al Trecento, si assiste a una svolta determinante: tutto l’abbigliamento si fece aderentissimo al corpo e si accorciò, mentre le brache si trasformarono in calze legate con lacci al farsetto sottostante la veste. Ne abbiamo una bella testimonianza nella miniatura dell’ofiziolo rappresentante il martirio di Santo Stefano e conservata alla Biblioteca nazionale di Parigi. Uno dei carnefici si china a raccogliere pietre e così facendo scopre mutande e calze di cui si vedono chiaramente gli occhielli superiori, sganciatisi a causa della posizione chinata poiché il tessuto non aveva elasticità (la maglia fu introdotta più di un secolo dopo). Le calze terminano a punta e sono munite di suola; non si portavano quindi scarpe dal momento che, per proteggersi dalla fanghiglia della strada, si infilavano ai piedi zoccoli di legno.
Questo modo di abbigliarsi  corto e aderente che fu  giudicato ridicolo da molti e condannato dalla Chiesa perché considerato osceno, ebbe ciò nonostante un grosso successo e fu determinante per differenziare la moda maschile e femminile ancora molto simile fino al basso Medioevo.
Durante il XV secolo le calze colorate conobbero ulteriori affermazioni. Presso i giovani erano anche munite di culottes e associate  al farsetto in un insieme aderentissimo e squillante di tessuti tagliati in varie guise: “addogati”, “frappati”, “dimidiati”, “scaccati”. La figura maschile si delineava così in tutta la sua prestanza  resa ancor più virile dall’uso di racchiudere i genitali in una conchiglia di tessuto detta “brachetta”, le cui dimensioni aumenteranno sempre più nel Cinquecento fino ad assumere una forma irrigidita ad astuccio penico, licenziosa e arrogante, adoperata perfino come tasca. La moda provocò non poche polemiche: nel 1553 le signore di  Ascoli protestarono contro  l’usanza di “mostrare tutte le chiappe et natiche integre de riete, et non solo de riete ma ancora de nanti…brachette toste..et dirizzate in su”.Nel XVI secolo la linea maschile si espanse anche in senso orizzontale: il femore fu coperto da brache sempre più rigonfie e percorse da tagli verticali, o accoltellature, la cui forma si vuole inventata dai lanzichenecchi. Per  questo indumento erano necessari quattro o cinque metri di tessuto solo per l’esterno e più di venti metri per la preziosa fodera arricciata che sbucava dalle aperture, cosa che ne faceva un simbolo di status sociale. Giocoforza le brache, aderenti alla gamba e rotondeggianti sulla coscia, dovettero essere divise sopra al ginocchio. Verso la fine del secolo il rigonfio si accorciò viepiù fino a trasformarsi in calzoncini corti chiamati “brachesse alla spagnola”.
Nel XVII secolo il nostro indumento subì ulteriori e importanti evoluzioni collegate anche alla situazione politica europea. Dopo un secolo di influenza spagnola la Francia si stava avviando ad essere lo stato più importante del continente ed importante riferimento per ogni cambiamento di costume. Attorno agli anni Trenta, una compagnia di attori italiani si esibì a corte, presentandosi in scena colle vesti della Commedia dell’arte; tra loro non mancava Pantalone dei Bisognosi che indossava una casacca e un paio di braghe di origine popolare prive di legature sotto al ginocchio e lunghe fino al polpaccio. Il duca di Brunswick se ne innamorò e se ne fece fare una versione corretta da nastri e che mostrava le calze in seta, copiata perfino dal cardinale Richelieu; il nuovo capo, che ebbe enorme successo, fu ribattezzato Pantalone in onore della maschera italiana.
Con l’avvento al trono di Luigi XIV la corte di Francia, trasferitasi nella reggia di Versailles, diventò il centro di ogni moda e bizzarria europea, subito avidamente copiate  in tutta Europa. Ormai il costume maschile aveva perso ogni parvenza di severità e virilità, carico com’era di pizzi e di nastri che sbucavano dappertutto; dopo il 1650 e fino al 1680 spopolò una sorta di gonna-pantalone arricciata e piena di fiocchi introdotta a corte dal Ringravio di Salm, e perciò chiamata calzoni alla “Ringravio” o Rheingraf, o più prosaicamente “a gamba di piccione”. Decaduta nell’ultimo ventennio del secolo, fu sostituita da calzoncini abbottonati sotto al ginocchio che saranno di moda per tutto il secolo successivo.
Il Settecento fu epoca di grandi cambiamenti storici: la Francia, sempre al centro dell’attenzione, passò dalla monarchia alla Rivoluzione e alla repubblica , mentre la moda, come sempre, si adeguò alle mutate condizioni politiche lanciando nuovissimi capi e imponendoli al mondo. I pantaloni ormai erano denominati “culottes” (a Venezia bragoni) dotati di comode tasche  e realizzati in tessuti pregiati. Le culottes di prammatica erano aderenti e così strette che i previdenti proprietari se ne facevano fare due tipi diversi: uno per camminare e l’altro in tessuto più elastico in modo da eseguire  la riverenza in modo senza strapparli sul dietro. Ma la presa della Bastiglia nel 1789 e la fine dell’ancien regime furono determinanti per lanciare un nuovo modello: furono i sanculotti, ossia il popolo che non portava le culottes ma esibiva i pantaloni lunghi e non fermati sotto il ginocchio, che trasformarono il loro abbigliamento in un vero e proprio manifesto politico. I pantaloni larghi tornarono quindi  ad imporsi se pure con qualche difficoltà dovuta alla resistenza delle corti europee che diffidavano di quell’indumento così apertamente rivoluzionario e giacobino. Così nel 1799 Ferdinando I di Borbone ne proibì l’uso  e l’abuso, precauzione inutile perché nel giro di non molti anni si imposero definitivamente.
Il 1800 può ben dirsi l’epoca dei pantaloni. La classe che aveva vinto la rivoluzione, la borghesia, li adottò in massa assieme ad un abbigliamento severo, con toni spenti o addirittura scuri, che ben rappresentavano i suoi ideali di vita: rigore, sobrietà, fedeltà alla famiglia, lavoro e guadagno come misura di una nuova morale in contrapposizione a quella dell’aristocrazia fannullona e sprecona. Diventato indumento di massa il pantalone ormai liberalizzato arrivava alla caviglia, mostrando lo scarpino scuro. Finché l’uomo andava a cavallo era munito di sottopiede  in modo da rimanere sempre perfettamente stirato, ma quando la carrozza prima e l’automobile poi si affermarono come mezzo di locomozione  anche la staffa sparì. Molto stretti all’inizio del secolo, i pantaloni si allargarono leggermente e si realizzarono i tessuti coordinati con le giacche: verde inglese, grigio, bronzo o neri per la sera. Alla metà del secolo si affermarono per il giorno pantaloni rigati o quadrettati mentre per andare a teatro l’immancabile frak  nero era abbinato a calzoni in tinta: il completo funereo, che rendeva l’uomo simile a un pinguino, era ravvivato solo dalla camicia bianca inamidata.
L’abbottonatura rimase sul fianco fino agli anni ’50 quando il sarto inglese Humann ideò l’apertura nel mezzo davanti; e siccome per quanto riguarda la moda maschile l’Inghilterra dettava legge in Europa il modello si affermò rapidamente. Tutte le innovazioni sartoriali del periodo venivano da quella nazione ed erano scrupolosamente imitate: il vestito e i pantaloni erano tagliati in modo da correggere i difetti fisici – ventre e natiche rotonde, tibie mal in arnese -  tramite appropriate stirature e imbottiture nascoste.   
Sempre dall’Inghilterra il figlio della regina Vittoria, principe di Galles e futuro Edoardo VII, re dei dandies per eccellenza, si divertiva a inaugurare mode; involontariamente inventò il risvolto dei pantaloni una volta che, per non inzaccherarli, li ripiegò sulla caviglia. Un’altra volta mentre si recava alle corse di Ascot, si procurò uno strappo e in fretta e furia ne comperò un paio dal primo rivenditore: l’indumento era impilato assieme ad altri e presentava un vistosa piega verticale davanti. Imperturbabile Edoardo se lo mise lanciando così un nuovo e duraturo stile.
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento lo sport diventò attività comune sostituendo le vecchie e aristocratiche  partite di caccia; gare, giochi, passatempi come il tennis, il canottaggio, la corsa, l’alpinismo, la bicicletta  e inoltre i viaggi e le vacanze, si diffusero anche presso la piccola borghesia richiedendo indumenti adatti alle situazioni in cui il corpo si doveva muovere liberamente. I pantaloni – che per inciso in questo periodo furono adottati anche dalle signore – erano l’abbigliamento ideale. Così all’inizio del secolo si accorciarono sotto al ginocchio dove erano fermati da una fascietta chiusa da una fibbia di metallo. Chiamati “knickerbockers”  erano solitamente abbinati a una giacca “Norfolk” doppiopetto  con cintura incorporata. D’estate invece, per coloro che potevano permettersi costose crociere, si andava affermando la divisa dello yacht man, maglia e pantaloni bianchi, giacca blu e spavaldo berretto da marinaio. 
Durante i disinvolti anni ’20 la società europea fu travolta dall’esuberanti mode americane: al posto di tango e valzer furoreggiarono charleston e fox trot, il jazz impazzava, le ragazze si accorciarono i capelli alla garçonne, alzarono le gonne sotto al ginocchio, assunsero atteggiamenti disinibiti; gli uomini, più conservatori, rimasero legati al solito completo giacca, gilet, camicia e pantaloni, che, rimanendo sempre due tubi, diventarono però più morbidi grazie alle pinces in vita e si allargarono in modo che i benpensanti giudicarono eccessivo. Dalle università americane arrivarono gli “Oxford bags” , “i sacchetti di Oxford” in flanella e tweed che erano portati col pullover e con giacche dalle spalle vistosamente imbottite. Per i pantaloni sportivi si continuavano a preferire i knickerbockers, mentre si introdussero anche i calzoni alla cavallerizza spesso indossati con stivali di cuoio, uniforme molto amata dal Duce perché gli dava una virile baldanza. Dall’Inghilterra proveniva invece lo stile coloniale, derivato dagli ufficiali in stanza in India, in color kaki, composto di sahariana e shorts che terminavano al ginocchio.
Saltando a piè pari qualche decennio, tutto sommato molto conservatore in fatto di moda maschile, ingessata nei canoni tradizionali, il primo vero colpo di scena in fatto di innovazione si ebbe quando i giovani irruppero sul mercato condizionando coi loro gusti l’industria dell’abbigliamento.
Nel 1953 uscì il film “Il selvaggio” interpretato da Marlon Brando; vestito con un giubbotto in pelle nera e un cappello a visiera piantato sulle 23, l’attore indossava i blue jeans, i pantaloni da lavoro azzurri, in cotone robusto e rinforzati dai rivetti e dalla doppia cucitura, che l’imprenditore americano Levi Strauss aveva venduto con successo dal 1873 a operai, contadini, cercatori d’oro. Diventati bandiera dei movimenti giovanili e dell’avanguardia intellettuale, esplosero negli anni sessanta come simbolo di contestazione, per poi essere assorbiti dal mondo della moda e diventare, se firmati dagli stilisti, un oggetto di culto.

Bibliografia:
Rosita Levi Pizetski: Storia del costume in Italia, Istituto editoriale italiano, Milano, 1960
Vittoria de Buzzaccarini: Pantaloni & Co. Zanfi editore, Modena, 1989
Henny Harald Hansen: Storia del costume, Marietti, Torino