domenica 26 maggio 2013

I secoli d'oro della parrucca

Anticamente la parrucca non aveva le connotazioni ridicole che molti oggi le attribuiscono, ma era un accessorio indossato fino dall’antico Egitto da uomini e donne, non necessariamente per compensare la perdita dei capelli, ma principalmente come segno di status. In Europa ebbe il suo massimo splendore nei secoli XVII e XVIII, quando trionfarono Barocco e Rococò: due stili fastosi e teatrali, in cui la parrucca – nella sua evidente finzione -  si trovava perfettamente a suo agio tra  stucchi, marmi e decorazioni.
La moda iniziò durante la Guerra dei Trent’anni, durata dal 1618 al 1648, che determinò un netto cambiamento del vestire maschile. A partire dagli anni Trenta del Seicento infatti, tutti gli uomini predilessero abiti in stile militaresco, portando con pose spavalde cinturoni, lunghe spade, pesanti stivali in cuoio. Trionfò la mascolinità bellicosa, e si voleva a tutti i costi esibire un rude aspetto guerresco, oltre che nel vestito anche nell’abbondante peluria, segno evidente di virilità. Parecchi aneddoti raccontano come la parrucca sia entrata nelle case reali e da qui abbracciata da quasi tutta la popolazione che - dati i costi -  se la poteva permettere; le parrucche più care erano infatti fabbricate con capelli veri, solitamente di contadine e meglio se biondi, mentre la gente più modesta doveva accontentarsi di peli di pecora e capra, crine di cavallo o coda di bue. 
Nel Seicento e nel Settecento la Francia era considerata il centro del buon gusto europeo e sembra che sia stato proprio un monarca francese, Luigi XIII, a favorire l'uso delle parrucche per nascondere la precoce calvizie causata da una malattia. Il suo successore Luigi XIV, il Re Sole (1638 – 1715) portò quest’accessorio alla sua apoteosi. Nel 1655 il sovrano concesse la licenza di aprire bottega a 48 fabbricanti parigini di parrucche, che entro qualche anno cambiarono denominazione professionale: da volgari “parruccai”, diventarono eleganti “coiffeur”. Questa categoria fu fra l’altro una delle poche a salvarsi  dal Terrore durante la Rivoluzione francese. Lo Huizinga, nel suo "Homo ludens", definisce giustamente la parrucca come "la cosa più barocca di tutto il barocco".  Da semplice accessorio per coprire la perdita di capelli, essa si trasformò in una monumentale torre di riccioli, con due bande che scendevano sul torace e un’altra dietro la schiena. Il peso eccessivo la rendeva molto scomoda da indossare, per cui la si portava solo a corte, mentre nel privato di preferiva indossare una ben più comoda berretta. La circonferenza della parrucca impediva l’uso del cappello, che si metteva semplicemente sotto braccio; altra bizzarria era la "linda" ossia una frangetta di capelli naturali e di colore diverso, che spuntava sulla fronte. Tuttavia oltre agli svantaggi, essa aveva vantaggi fisici e soprattutto psicologici non trascurabili: indossata sul cranio rasato, favoriva una maggior pulizia in un’epoca in cui pullulavano cimici e pidocchi. Inoltre rialzando la statura, dava alla figura maschile un senso di imponenza regale che aumentava il prestigio dell’individuo. Di colore nero all'inizio, verso la fine del Seicento diventò bianca e fu cosparsa di cipria. 
Al suo apparire in Italia la parrucca sollevò polemiche e discussioni e causò l'intervento della legge: di ritorno da un’ambasceria a Parigi, il veneziano Conte Scipione Vinciguerra di Collalto, la esibì per primo durante una passeggiata sul liston, in piazza San Marco. Ma la rivoluzionaria novità non piacque al Gran consiglio, che nel 1688, si affrettò a proibirne l’uso a tutti i magistrati nel pieno delle loro funzioni pubbliche. Il doge Erizzo invece, giunse al punto di diseredare suo figlio che aveva osato indossarla.
Durante il Settecento fino alla Rivoluzione francese, la moda della parrucca continuò a contagiare gli uomini e successivamente le  donne e i bambini. Chi poteva permettersi il parrucchiere personale era esigentissimo: Vittorio Alfieri racconta di aver lanciato un candeliere contro il domestico che gli aveva inavvertitamente tirato una ciocca di capelli.  Particolarità del periodo fu l’uso pressoché universale di imbiancarla cospargendola di cipria solitamente composta di polvere di riso. Un servitore la soffiava sul paziente in un apposito stanzino polverizzandola con un piccolo mantice, mentre il volto e il corpo erano protetti con un accappatoio e un cono che copriva la faccia. Oltre al riso si usavano l’amido mescolato con polvere profumata, e per quelli che non se lo potevano permettere, calcina, gesso, legno tarlato, osso bruciato, il tutto passato con cura al setaccio. Il principe Francesco I di Modena invece, si faceva spruzzare polvere d’oro in testa.
L'uso della parrucca diventò generale, al punto che non fu più possibile vietarla, mentre a Venezia gli Inquisitori, non potendo proibirla, cominciarono a tassarla.
Più frequente per l’uomo che per la donna, la parrucca serviva a coprire teste pelate vuoi dall'età, vuoi da qualche malattia che causava la caduta dei capelli come il vaiolo, allora piuttosto diffuso. Nel primo ventennio del Settecento si portarono ancora i parrucconi lanciati da Luigi XIV; in seguito la parrucca si ridusse, e fu fondamentale portarla dello stesso colore delle ciglia. Nel 1730 si diffuse la “parrucca a groppi”, che terminava con due nodini di capelli. Tuttavia la tipica parrucca maschile settecentesca, di moda soprattutto verso la metà del secolo aveva un ciuffo alto e arricciato sulla fronte, riccioli sulle orecchie e un codino avvolto in un sacchetto di seta nera. Ma i modelli erano molti di più e furono illustrati nelle enciclopedie per pettinarsi. I capelli erano impomatati, e poi arricciati con una specie di permanente avanti lettera, bolliti e infine cuciti a una reticella e fermati da nastri nascosti. I parrucchieri, che facevano anche i barbieri, avevano botteghe elegantissime piene di specchi e dorature. Andare dal parrucchiere alla moda diventò sinonimo di eleganza: Monsieur Galibert, soprannominato “Il sultano” aveva il negozio in piazza San Marco, con numerosi aiutanti e garzoni, e si faceva pagar salato.
Attorno al 1780 si cambiò modello, introducendo due rigidi boccoli laterali; infine le acconciature si portarono molto gonfie e spolverate con cipria grigia.
Le donne si accostarono a questo accessorio con un certo ritardo. Una sera Leonard, il parrucchiere personale di Maria Antonietta d’Austria, moglie di Luigi XVI di Borbone e re di Francia, acconciò la regina con capelli rialzati artificiosamente più di mezzo metro sul capo, frammischiandoli con sciarpe di velo. Questa acconciatura, detta pouf o tuppè, fu di moda dal 1770 per circa 10 anni. Le donne europee impazzirono per la nuova foggia: Carolina Maria d’Austria, regina di Napoli, chiese ed ottenne che Leonard venisse di persona, nella convinzioni che i parrucchieri della città non possedessero la sua abilità.  Il tuppè era una vera e propria parrucca, fatta solo in parte coi propri capelli;  aveva un’armatura nascosta di filo metallico ed era imbottito da un cuscinetto di crine. Era scomodo e malsano, sia perché portato su capelli non lavati ma tenuti in piega da oli e pomate profumati, sia perché attirava inevitabilmente ogni tipo di parassita. Ma l’aspetto più sconcertante erano le incredibili decorazioni che vi venivano appoggiate sopra. La fantasia non aveva limiti: palme, pappagalli, ghirlande d’amore, scale a chiocciola di pietre preziose, navi con le vele al vento spiegate (à la belle poule). Nomi e nomignoli francesi distinguevano i diversi modelli: à la monte du ciel, di altezza vertiginosa, alla cancelliera, alla flora, piena di fiori, al vezzo di perle (ovviamente circondata da giri di perle) à la Turque, à le Figaro, à piramide. Famosi erano i "pouf au sentiment", letteralmente "sgabello dei sentimenti" in cui la parrucca, considerata come una sorta di altarino, in cui si metteva in mostra ciò che si amava: così chi si sentiva vicino alla natura poneva sulla testa fiori, piante frutta e animaletti imbalsamati, chi pensava alla famiglia sfoggiava i ritratti del marito e dei figli, chi era legato alla patria esponeva orgogliosamente coccarde tricolori. 
L’acconciatura fu studiata per meravigliare gli altri, sfruttando persino la cronaca del giorno e la manifestazione dei propri sentimenti pur di attrarre teatralmente l’attenzione. Per fare un esempio, quando i fratelli Montgolfier nel 1783 alzarono per la prima volta su Parigi il primo pallone aerostatico, la moda inventò la “parrucca alla mongolfiera”. Nel frattempo l’altezza di queste curiose acconciature aumentò sempre di più, fino a raggiungere il metro, al punto che si diceva che una signora alla moda non riuscisse ad entrare in carrozza se non in ginocchio. La satira e le caricature fiorirono e un disegnatore rappresentò una dama con una parrucca talmente alta che era necessario sorreggerla con una sorta di forcone di legno.
I parrucchieri ovviamente beneficiarono della moda del tuppè. Particolarmente apprezzati erano quelli francesi, in Italia chiamati “Monsù”, da “Monsieur”, il fratello del re di Francia. Solitamente uomini, frequentavano anche le abitazioni ed erano ammessi nella stanza più intima della signora, il boudoir. Venivano quindi a conoscenza di tutti i segreti e i pettegolezzi, e non di rado facevano da  tramite a tresche amorose. Oltre ai parrucchieri c’erano anche le pettinatrici, dette a Venezia "conzateste", seppur di minore importanza dei loro colleghi maschi. 
Con la Rivoluzione francese, la parrucca scomparve, almeno in Francia. Era uno dei simboli dell'odiata aristocrazia, e uscire coi capelli incipriati era rischioso, perché si poteva finire sulla ghigliottina. Nel resto d'Europa rimase ancora per poco tempo, per trasferirsi poi sulla testa dei valletti. Solo i reazionari più accaniti continuarono a portarla, guadagnandosi il soprannome di "codino".


Bibliografia:
Rosita Levi Pizetsky: Storia del costume in Italia, Volume IV, Istituto editoriale italiano, Milano, 1967
Massimo e Costanza Baldini: L’arte della coiffure, i parrucchieri, la moda, i pittori, Ed. Armando, Roma 2006

lunedì 20 maggio 2013

La libera moda neoclassica femminile

Durante la rivoluzione francese, e precisamente l'8 Brumaio anno II, corrispondente al 29 ottobre 1793, la Convenzione emise un decreto che recitava così: "Nessuna persona dell'uno o dell'altro sesso, potrà costringere alcun cittadino o cittadina a vestirsi in modo particolare, sotto pena di essere trattata come sospetta, o perseguita come perturbatrice della pubblica quiete; ognuno è libero di portare l'abito o gli accessori che preferisce." L'editto era rivoluzionario, perché si opponeva in modo radicale alle leggi Suntuarie, ossia quel corpo giuridico che limitava o vietava di portare indumenti che non fossero relativi alla propria classe sociale, aumentando l'enorme distanza che separava le classi medie o povere da quelle ricche e privilegiate dell'aristocrazia e del clero.
Fra tutte le ingiustizie questa era particolarmente odiosa, perché rendeva immediatamente riconoscibile chi non apparteneva alla nobiltà. Il 5 maggio 1789, all'apertura degli Stati generali, i borghesi, che appartenevano al terzo stato, si presentarono in abito nero - obbligatorio per la loro classe - e cravatta bianca, a fronte dell'aristocrazia addobbata con estremo sfarzo e colori brillanti. Il drammatico contrasto, invece di creare un clima di umiliazione, provocò l'effetto opposto, e i semplici abiti scuri diventarono simbolo di pulizia morale e di nuovi ideali. L'iniqua proibizione finì per causare, come primo provvedimento, l'abolizione per il solo vestiario di ogni differenza di classe, mentre riguardo a quello femminile si dovette aspettare qualche anno dopo.   
Gli ultimi anni del Settecento avevano in ogni caso visto profondi mutamenti nella moda a causa dell'influenza del costume inglese, e della riscoperta di Pompei ed Ercolano, i cui scavi,  iniziati a partire dal 1748 causarono una vera e propria mania per l'arte greco - romana. Lo stile Neoclassico, con le sue linee semplici e l' uso di colori chiari o addirittura del bianco, soppiantò così il Barocco: le statue drappeggiate con abiti di foggia antica incantarono tutta l'Europa, nella mancanza di consapevolezza che i colori con cui erano state dipinte, si erano completamente dilavati nei secoli.
In Francia, che dai tempi del re Sole era il centro mondiale di ogni tendenza, pioniere del nuovo gusto furono Juliette Recamier e Madame Tallien, tra le maggiori esponenti del jet - set parigino. Come loro, le donne che si vestivano "a l'antique" erano chiamate "Merveilleuse". Gli abiti che indossavano davano l'impressione di una spigliata leggerezza, sia per la semplicità del taglio, sia per la  trasparenza delle stoffe di garza.
La vita fu portata sotto al seno, la scollatura abbassata, le maniche si accorciarono a palloncino mostrando per la prima volta la nudità delle braccia. Molte caricature mostrano le signore accompagnate dai loro corrispettivi maschili detti "Incroyable", che invece avevano colletti che coprivano completamente il mento, vestiti sdruciti e un nodoso bastone da passeggio. I vestiti alla greca chiamati "alla Flora", "alla Diana", all'Onfale", erano talmente sottili che non c'era posto per le tasche e si dovette inventare una borsetta a sacchetto, detta alla latina "reticule".  La grande novità fu la sparizione del busto, che tuttavia venne reintrodotto qualche tempo dopo in forma molto leggera e in modo da spingere il seno in alto. I piedi erano calzati da coturni, le teste acconciate alla greca e fasciate da bende ricamate, e tornarono i gioielli a cammeo. Madame Hamelin spinse all'estremo il suo abbigliamento tanto che, uscita dalla carrozza praticamente svestita, fu costretta a scappare precipitosamente perché fatta oggetto di lanci di sassi. Il corpo così esibito esaltava la giovinezza e la bellezza delle forme, certamente ispirandosi alla statuaria greca del periodo classico.
Era ancora vivissimo il ricordo della Rivoluzione, e a Parigi si organizzarono Balli "a la victime", dove chi partecipava doveva avere avuto almeno un parente ghigliottinato e dove il cattivo gusto imponeva di portare un nastrino rosso al collo che simulava il taglio della testa, e i capelli cortissimi come quelli dei condannati a morte. Il modo di vestire era una conseguenza della ritrovata - se pur per breve tempo - libertà femminile: la donna poteva esprimere le sue opinioni pubblicamente, fare sfoggio della sua cultura, avere un atteggiamento indipendente nei confronti dell'uomo.  
Nel 1799 Napoleone Bonaparte assunse il potere con un colpo di stato. Oltre ad essere un combattente e un
condottiero e ad aver riformato il Codice di leggi civili, capì perfettamente l'importanza della moda per l'economia francese e, pur non essendo personalmente interessato all'eleganza, finanziò il "Journal des Dames et des Modes", un periodico che conteneva numerose tavole illustrate e che contribuì alla diffusione del gusto. Napoleone non scoraggiò mai i capricci della moglie Joséphine de Beauharnais, che spendeva cifre folli per gli indumenti e non ne indossava mai uno due volte di seguito, diventando così un'icona dell'eleganza.
La moda delle vesti trasparenti, detta "del nudo", furoreggiò fino al 1805; ormai si diceva che una signora non era ben vestita ma "ben svestita" e si arrivò a pesare l'abbigliamento, scarpe e gioielli compresi, che non dovevano complessivamente oltrepassare i due etti; sotto all'abito si poteva portare una leggera e aderentissima calzamaglia color carne, mentre il seno era spinto in alto in modo da mostrare parte dei capezzoli. Alcune signore arrivarono invece a bagnarsi o ad ungersi il corpo perché il tessuto aderisse meglio e mostrasse le forme. Unica copertura anche d'inverno, era un morbido scialle di cachemire proveniente dall'India, il cui prezzo era paragonabile a quello di un'odierna automobile, e che diventò oggetto del desiderio al punto che a Madame Hamelin ne fu rubato uno durante un ballo. Abiti e accessori potevano però essere copiati da tutte le signore abbienti, e lo scialle diventò l'unico capo che distingueva le donne di stile; se ne perciò produssero molte imitazioni che tuttavia non riuscirono ad eguagliare la bellezza e la leggerezza degli originali, e fiorì il marcato  dell'usato.
Oltre allo stile greco anche le conquiste napoleoniche influenzarono il gusto. Dalla fine del Settecento era nato in Europa un crescente interesse per l'Oriente e in particolare per l'Impero ottomano; gli aristocratici si fecero ritrarre spesso in costume turco, mentre la moda cercò di imitarne - se pure in modo improbabile - alcuni dettagli, come i bordi di pelliccia in ermellino. La campagna d'Egitto condotta da Napoleone nel 1798, contribuì a rilanciare "le turcherie" attraverso la diffusione di disegni e incisioni: nacquero così abiti "alla mamelucca" o "alla sultana" mentre il turbante entrò a far parte dei copricapi femminili e a volte anche maschili.
La moda del nudo imperversò fino a quando un'epidemia di influenza non decimò la popolazione femminile francese, che fu costretta a tornare ad indumenti più pesanti. All'abbandono dei leggeri tessuti di cotone contribuì anche lo stesso Bonaparte, che vietò di importare questo tessuto per combattere l'Inghilterra anche sul piano commerciale, cercando di implementare, pur senza riuscirvi,  la produzione francese: il Calicò, il Chintz, il Madras, la Mussola, il Nanchino, il Percalle, provenivano infatti dalle colonie inglesi. Dopo l'incoronazione di Napoleone a Imperatore, avvenuta nel 1804, si diffusero tessuti spessi e pesanti in raso lucido o lana a cui furono aggiunte guarnizioni ricamate, passamaneria, frappe, volants, che andavano da metà della veste fino all'orlo. Le scollature furono mitigate o scomparvero addirittura: alle vesti fu abbinata una camicetta trasparente che terminava con un piccolo collo a gorgiera di ispirazione rinascimentale. Resuscitarono redingotes e soprabiti foderati in pelliccia, dal collo alto e dalle maniche lunghe, soprannominati in francese "Douillettes", forse grazie al tepore che sprigionavano. Comparve anche lo Spencer, un grazioso giacchettino che arrivava fino alla vita ed era realizzato in tessuto scuro, solitamente contrastante con quello dell'abito.
Al posto della donna svestita si diffuse l'immagine di quella infagottata, anche perché da tessuti, sciarpe e
cappelli spuntavano solo il viso e le caviglie. L'imperatore volle costituire attorno a sé una corte che ricordasse i fasti di quella di Versailles: introdusse quindi rigide regole d'etichetta, obbligando funzionari e dignitari a indossare uniformi in velluto nei colori blu, azzurro, nero e grigio, con decorazioni in oro, fusciacche e frange. Anche le dame erano tenute a seguire gli ordini di Napoleone, che le obbligava a cambiare abito ogni volta, e le redarguiva severamente in pubblico nel caso non lo avessero fatto; in questo era certamente influenzato da Joséphine, nota per il suo gusto squisito. Fastosi erano gli abiti da cerimonia: per la sua incoronazione Napoleone volle ispirarsi a quella di Carlo Magno e ne realizzò la regia aiutato da molti artisti, tra cui il pittore Isabey, che era incaricato di disegnare i costumi.  Un famoso quadro di David rappresenta la scena: l'imperatore, vestito con una veste bianca e un mantello di velluto rosso eicamato in oro, incorona la moglie. Joséphine porta anch'essa una veste di seta bianca a vita alta, con maniche lunghe fino a metà mano e un sontuoso manto rosso dall'immenso strascico e foderato d'ermellino, retto da uno stuolo di damigelle. Il mantello di corte partiva dalla vita, a cui era agganciato per mezzo di lacci, e diventò l'usuale capo indossato durante le cerimonie. Dalle spalle alla nuca si innalzava un rigido collo in pizzo detto "cherusque". lontano parente dei colletti lanciati da Caterina de' Medici in Francia.
La realizzazione dei costumi era stata affidata al sarto Leroy, che aveva cominciato come coiffeur sotto l'Ancien Règime ed era scampato alla rivoluzione. Leroy era il fornitore di Joséphine e un'abile uomo d'affari noto in tutta Europa; per mantenere sempre l'attenzione sul suo sontuoso atelier modificava il suo stile, facendo sì che i vestiti da lui creati diventassero rapidamente obsoleti. I suoi abiti avevano un ottimo taglio, ed era riconosciuto come un maestro nella creazione dei bustini.  
Il 5 maggio 1821 Napoleone morì a sant'Elena; nel 1810 aveva divorziato dalla moglie per sposare Maria Luigia d'Austria nella speranza di avere un erede. La nuova imperatrice, poco popolare in Francia, non seppe e non volle continuare lo stile di Joséphine; le sconfitte dell'imperatore inoltre, avevano diminuito notevolmente il fasto della corte e ridotto l'attenzione sulla moda. La restaurazione fu un tentativo di riportare in auge gli antichi regimi, mentre il gusto romantico vincente sullo stile neoclassico, condusse a un cambiamento radicale dell'immagine e del costume femminile. La libertà della donna fu inghiottita dalle pastoie impostele dalla società borghese, e il ritorno del busto segnò l'epoca di una nuova sottomissione che durò fino al Novecento, quando il couturier parigino  Paul Poiret ricreò gli abiti a vita alta e senza busto, dimostrando che l'eredità neoclassica non era andata persa.

Bibliografia:
Rosita Levi Pizesky: Storia del costume in Italia, Istituto editoriale italiano, Volume V, Milano
Grazietta Buttazzi, Alessandra Mottola Molfino: Classicismo e libertà, De Agostini, Novara, 1992
Cristina Barreto, Martin Lancaster, Napoleone e l'impero della moda - 1795/1815, Skira, Milano, 2010

Link:
http://omgthatdress.tumblr.com/
http://athousandpix.blogspot.it/2010/11/costume-parisien-napoleon-era-fashion_07.html

giovedì 16 maggio 2013

Paco Rabanne

Negli anni Sessanta, un vasto movimento di studenti e operai in Europa e negli Stati Uniti,  si schierò contro l'ideologia della società dei consumi, e del mondo borghese; in America in particolare quella che fu chiamata "controcultura" si oppose alla guerra del Vietnam legandosi alla battaglia per i diritti civili e all’ostilità verso il Capitale.  Anche la famiglia tradizionale fu scossa dal rifiuto dell'autorità dei genitori e del conformismo dei ruoli, mentre furono messe in discussione le discriminazioni in base al sesso e alla razza. Con la contestazione cominciò a diffondersi l’idea di un vestire più comodo, informale e meno elitario, e quindi contrario ai principi di distinzione, di stile e di lusso che avevano caratterizzato le creazioni dei grandi sarti. La moda  stava diventando un fenomeno di massa che  interessava i mercati internazionali e solo in piccola parte era riservata ad una élite ricca ed esclusiva. Lavorazione a catena, capi di taglio semplice e tessuti sintetici o misti permettevano alle industrie di tenere i prezzi bassi, facendo sgretolare  il primato della haute couture e il mito di Parigi.
Gli anni Sessanta registrarono anche un mutamento dell’ideale estetico femminile e maschile. Non più le donne formose e sofisticate degli anni Cinquanta ma ragazze giovanissime, pallide e molto magre. Su questo nuovo modello si sviluppò lo stile sartoriale ormai dedicato ai giovani, che case di moda e industrie avevano intuito potessero essere una nuova e promettente classe di consumatori. 
In questa nuova atmosfera si inserì il lavoro di Paco Rabanne (San Sebastian, 1934) al secolo Francisco Rabaneda Cuervo: era figlio della direttrice di un laboratorio di Balenciaga, ed entrambi erano scappati dalla Spagna durante la Guerra civile.  A Parigi si laureò in architettura: era affascinato dalla Pop Art, dal Dadaismo e dalle sculture in materiali innovativi come il neon, la plastica, il ferro e iniziò il suo percorso stilistico allontanandosi dalla tradizione, sulla scia di altri creatori di moda anticonformisti come Courrèges, Saint Laurent, Cardin, Ungaro.
Cominciò a inserirsi nel mondo della moda creando accessori per il pellettiere Roger Model, poi il calzaturiere Charles Jourdan e giungendo infine a grande sarto spagnolo Balenciaga. I suoi accessori stravaganti attirarono l' attenzione delle riviste di moda: orecchini oversize e cinture erano realizzati in rhodoïd, un materiale plastico rigido e a basso costo, colorabile e facilmente tagliabile. Mentre le vendite si impennavano e "Le figaro" gridava allo scandalo, Rabanne allargò le sue creazioni al bolero, capo tipicamente spagnolo reinterpretato con elementi sintetici.

Nel 1966 presentò all'Hotel Georges V la sua prima collezione composta da "dodici vestiti importabili in materiali contemporanei" e indossati da modelle scalze. La sfilata fu un fulmine a ciel sereno nel mondo della moda e fu ripresa dalla stampa internazionale, mentre Coco Chane gridava: "Questo non è un sarto, ma un metallurgico!" Nello stesso anno aprì anche il suo piccolo laboratorio a conduzione familiare.

Convinto che la creatività non è seduzione ma choc, nell'inverno 1966/67 fece sfilare le ballerine del Crazy Horse, che sul palcoscenico del locale, eseguirono coi suoi abiti un vero e proprio strip-tease, cui i suoi vestiti ben si  adattavano.  In seguito, anche grazie ai progressi tecnologici, il sarto sbrigliò ancor di più la sua scatenata fantasia: nel 1967 lanciò una linea piena di accostamenti irriverenti: in carta, tessuti assieme a una trama di nylon e legati con bande adesive, in jersey di alluminio, in piume incollate a nastri. Per gli abiti da sera scelse sottilissimi tubi di plastica, mentre immaginò le sue spose vestite in rettangoli di rhodoïd opalescente. I pezzetti erano tenuti assieme da anelli metallici: non più ago e filo dunque, ma strumenti sartoriali quali pinze e ganci. Altro elemento scioccante: le modelle erano di colore,  mai viste prima nell’alta moda.
L’idea alla base della creazioni di Rabanne stava in una precisa volontà di democratizzazione della moda, unita certamente a un forte gusto per la provocazione. I suoi abiti erano adatti a silhouette sottili, a donne coraggiose che non temevano né il caldo, né il freddo, né la scomodità: “i miei modelli sono come delle armi” dichiarò a Marie Claire “Quando sono chiusi si ha come l’impressione di udire il grilletto di un revolver”. Con questo spirito affrontò il campo della pellicceria affiancando pelli pregiate al metallo: partendo da striscioline ottenute da avanzi di pelliccia  e tessuto, cominciò a lavorarli a maglia, ottenendo un "tessuto" caldissimo e molto leggero.
Reinterpretò anche il merletto, traducendolo in plastica e alluminio, e il ricamo, utilizzando piccolissimi chiodi cuciti sul tessuto. Ispirandosi al medioevo lanciò la cotta di maglia al femminile.
Sempre con tecniche artigianali realizzò tra il 1970 e il 1976 abiti in bottoni, vestiti composti di fazzoletti, maniche costruite con calzini, modelli in fasce di caucciù. In quanto agli accessori non erano meno stravaganti dei vestiti: caschetti in metallo, turbanti iridati, antenne e zampilli in plexiglass e alluminio.
Dopo lo sbarco sulla luna si era in pieno boom spaziale e molti couturier si ispirarono, come Rabanne, ad abiti siderali che mandavano bagliori luminescenti. Anche il mondo dello spettacolo richiese le sue creazioni: una delle prime attrici che lo seguì fu Audrey Hepburn nel film “Due per la strada”, nel 1968 fece indossare alla cantante Françoise Hardy un abito in lamine d’oro con incrostazioni di diamanti e infine mise addosso a Jane Fonda, nel film Barbarella, un cortissimo e sensuale abitino in stile medievale fatto in maglia di metallo.
La parabola di Rabanne terminò con l’ipotesi di abiti biodegradabili, in accordo con le nuove idee che predicavano il salvataggio della natura. Chiusa definitivamente la sua maison, si ritirò dalla moda nel 1999.

Bibliografia:
Lydia Kamitsis, Paco Rabanne, ed. Franco Cantini, Firenze, 1998; Guido Vergani, Dizionario della moda, ed. Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2010; Gabriella D’Amato, Moda e design, ed. Bruno Mondadori, Milano, 2007.
Siti web

martedì 14 maggio 2013

Gli occhiali


Lo studio della vista era già praticato dagli antichi greci: sfere di vetro piene d’acqua servivano a ingrandire le immagini ed erano usate per curare alcuni disturbi oculari come la cataratta, su cui si interveniva chirurgicamente. Anche lo specchio concavo rimandava un’immagine ingrandita e rovesciata. Altri  congegni ottici del mondo antico di cui siamo a conoscenza, sono i famosi “specchi ustori” di Archimede coi quali lo scienziato siracusano incendiò le navi romane che assediavano la città. Seneca e Plinio fecero accenni a lenti sferiche come il famoso smeraldo con cui Nerone seguiva i combattimenti dei gladiatori. Ma solo nel Medioevo si intensificarono gli studi in materia e si arrivò alla scoperta delle lenti convesse; di particolare importanza furono le ricerche del matematico arabo Alhazen (996 - 1038) considerato oggi il fondatore dell’ottica. Tuttavia non si era ancora arrivati alla correzione dei difetti visivi,  col risultato che eruditi e amanuensi vedevano con gli anni svanire la loro vista.
Ma chi inventò gli occhiali? Probabilmente un italiano. Non ne conosciamo il nome perché per anni la loro fabbricazione fu vincolata dal segreto che, se svelato, causava una punizione severa. Sappiamo però che a Venezia, durante il Duecento, si producevano ed adoperavano lenti ed occhiali.  Nella città l’arte del vetro era molto evoluta e regolamentata da appositi capitolari; quello dei cristallieri cita lenti da vista, dette “roidi da ogli” e da ingrandimento, “lapis ad legendum”, e ne vieta esplicitamente la contraffazione.  La letteratura medievale non parla degli occhiali: un accenno a lenti ottiche fu fatto da Ruggero Bacone,filosofo, teologo, scienziato e alchimista inglese, detto il Doctor Mirabilis
La prima immagine comparve assai più tardi: l'ordine dei domenicani contemplava lo studio della teologia per meglio combattere le eresie sul piano della dottrina,
e furono proprio i frati a far affrescare nel convento di San Nicolò a Treviso quaranta predicatori seduti al loro scrittorio, intenti a leggere e a studiare. L’autore, Tommaso da Modena, che eseguì l’opera nel 1352, munì il cardinale Nicolò da Rouen di una lente da lettura, mentre Ugo da Provenza inforca gli occhiali: due lenti tonde molto approssimative appoggiate sul naso a cui erano strette da una sorta di compasso fermato da un perno; mancano le stanghette, che verranno inventate molto più tardi. Per molto tempo essi servirono solo a correggere la presbiopia, mente per risolvere il problema della miopia si dovette aspettare dopo la prima metà del XV secolo.  Gli occhiali si diffusero pur essendo un oggetto costoso e furono adottati perfino i francescani, che pur avevano ricevuto l’ordine dal loro fondatore di non dedicarsi alla scienza. In seguito anche Evangelisti, Padri della Chiesa, scrivani, mercanti insomma tutti gli uomini dotti o che dovevano far di conto, furono raffigurati con questo importante accessorio, che in viaggio era infilato in una custodia e appeso alla cintura.Occhiali erano usati anche nelle corti signorili: nel 1462 Francesco Sforza, duca di Milano, ne ordina a Firenze tre dozzine, “da novene, sia convenienti ad la vistecolo.a curta, zoè de vechy”, il che fa pensare all’epoca che si fosse già intuita l’importanza delle lenti correttive. Essi ebbero anche una Santa patrona, Ottilia (660-720) una badessa nata cieca che aveva recuperato miracolosamente la vista dopo il battesimo.
Anche i cinesi conoscevano lenti d’ingrandimento di cristallo di rocca o quarzo, il cui uso è documentato dal XII secolo.
In Europa gli studi sulla meccanica della vista avanzarono con molta lentezza, anche a causa di disquisizioni teologiche su quale dei cinque sensi fosse più importante degli altri. I pregiudizi sull'occhiale  si accesero durante la Riforma protestante, quando fu associato a concetti come follia, stoltezza o addirittura connivenza col demonio: così nelle incisioni tedesche monaci cattolici leggevano invano i loro manoscritti mentre le spesse lenti correttive diventavano il simbolo della loro cecità intellettuale. La cosa era peggiorata anche dalla mancanza di conoscenza reale sull'occhio, pur studiato anatomicamente da Leonardo. Sulle lenti si faceva anche una certa confusione: un oftalmologo tedesco, Alexander Bartish, dichiarava che: "un buon purgante che pulisca il corpo dagli umori superflui rischiarava di più. E' invece a Keplero (1671 - 1630) che dobbiamo l'intuizione dell'importanza della retina e l'invenzione delle lenti incurvate come il globo oculare.
Si doveva inoltre superare il problema della scomoda montatura, perché quella a compasso non era sufficiente a dare stabilità: la prima conquista fu l'invenzione della montatura a ponte che avrà un successo duraturo. Le prime forme di ancoraggio risalgono al '600: lacci di cuoio fissati alle lenti e passati dietro alla testa. Nel Settecento, con la moda delle imponenti parrucche, furono inventati buffi occhiali muniti di un'unica stanghetta centrale ad arco che attraversava il cranio.
Nel 1730 un ottico inglese, Edward Scarlett, inventò gli occhiali "templari", con due corte stanghette che non superavano le tempie; poco più tardi il sostegno si allungò passando dietro le orecchie. E' in questo secolo maniaco degli accessori, che finalmente gli occhiali abbandonano la forma severa per erudito, e diventano oggetti alla moda, indossati anche dalle signore che prima li rifiutavano. Con tipica grazia rococò, le montature in oro e argento si arricchirono di decorazioni a volute e smalti, a volte con pietre preziose; l'occhialetto, non proprio comodo, era retto a mano da una stanghetta laterale oppure aveva forma di forbice allacciata con una catenella.

Gli occhiali non servivano solo per leggere, ma anche per contemplare uno spettacolo, guardare furtivamente i propri vicini o comunicare: Giacomo Casanova racconta che una vivace monaca di Murano mandava segnali in codice al suo amante attraverso gli occhiali: se usava il manico d'oro significava "ti amo"; quello d'argento "mi sei indifferente", mentre quello in tartaruga segnalava che qualcuno sorvegliava i due innamorati. Nello stesso secolo Benjamin Franklin inventò le prime lenti bifocali.
Ai primi dell'Ottocento nacque il pince - nez, di fatto derivante dai primi occhiali medievali, ma costruito con materiali più leggeri e con il ponte che si stringeva sul naso. Il conte di Cavour li indossa in un notissimo ritratto di Francesco Hayez. I progressi della tecnica e l'impiego dell'acciaio, permisero di fabbricare oggetti sempre più leggeri, con o senza stanghette. 
Ciò nonostante si continuavano ad usare occhiali scomodi come il monocolo, detto da noi "caramella", il cui uso era tornato di moda con l'arrivo del  dandysmo: si incastrava in un occhio ed era sorretto da un cordino che si agganciava all'abito, e dava un'aria snob. Durante i primi decenni del Novecento fu sporadicamente usato anche dalle donne. Accanto alle forme semplici, verso cui correva l'industria, continuarono a inventarsi forme elaborate o bizzarre come occhialetti con un orologino inserito nel manico, o addirittura incastonati in un bastone da passeggio. Con lo sviluppo dei viaggi e soprattutto l'invenzione dell'automobile, si scoprì l'utilità degli occhiali come protezione dalla polvere: comparvero buffi copricapi muniti di occhialoni, con cui ci si bardava completando il tutto con un lungo spolverino. Verso la fine del secolo, l'invenzione della celluloide, della galalite e della bakelite, aprirono la porta all'uso di resine polimeriche malleabili con cui si potevano creare occhiali di ogni forma.
Durante la seconda Guerra mondiale furono inventati i famosi Ray - Ban, occhiali da sole e da vista per aviatori, con lenti a goccia  per proteggere l'incavo dell'occhio, fatte in vetro che filtrava i raggi ultravioletti. Inoltre, dagli anni Trenta il cinema Hollywoodiano contribuì a lanciare mode sempre più elaborate e curiose, anche se per molti anni era vivissimo il pregiudizio che gli occhiali contribuissero a imbruttire la donna. Famosissimi gli occhialoni scuri di Greta Garbo, che cominciò a indossarli quando si ritirò dalle scene nel 1941. 
Negli anni Cinquanta un disegnatore parigino, Pierre Marly, rivoluzionò la linea degli occhiali inventando forme umoristiche e fantasiose e utilizzando una vastissima gamma cromatica: nacquero così occhiali "a bicicletta" o formati da una coppia di cigni uniti col becco, oppure muniti di elementi orizzontali frangisole, forse scomodi ma ricchi di glamour. 


Marly diventò fornitore di dive internazionali come Audrey Hepburn e Sophia Loren, restando attivo per tutti gli anni Settanta. Attualmente un museo parigino raccoglie i suoi modelli assieme a moltissimi altri, compresi quelli di Marlene Dietrich ed Elton John, in una raccolta di circa 3000 esemplari.
Sulla sua scia nacquero alcune stranezze di scarso successo, come gli occhiali - cannocchiale o quelli muniti di piccoli tergicristalli. I pregiudizi nei riguardi di questo accessorio cominciavano però a cadere.
I pregiudizi nei riguardi di questo accessorio cominciavano però a cadere: nel 1953  nel film "Come sposare un milionario", Marilyn Monroe recita la parte di una ragazza "cieca come una talpa" che si rifiuta di usare gli occhiali sbattendo da tutte le parti, finché non si innamora di un uomo miope come lei. Gli anni Sessanta spazzarono via tutti tabù: il mondo giovanile stava affermando la libertà di portare capelli lunghi, abiti psichedelici, pantaloni per le ragazze, mentre band come i Beatrle o i Rolling Stones diventarono il modello da imitare. Nel 1962 ad esempio, la protagonista di "Lolita" di Stanley Kubrick, seduce il professor Humbert con un paio di occhiali rosa a forma di cuore. La sartoria tradizionale europea, spiazzata dalle nuove mode che venivano dalla strada, non seppe adeguarsi subito, mentre dall'Inghilterra Mary Quant  lanciava la minigonna, che sarebbe stata una divisa per le ragazze di mezzo mondo.
A Parigi André Courrèges inventò la moda spaziale e lanciò occhiali a fessura o muniti di enormi ciglia finte. Victor Vasarely fondò il movimento artistico dell' Op art, basandosi sulla contrapposizione di elementi geometrici bianchi e neri e sull'illusione ottica, influenzando la moda e naturalmente gli occhiali.  Dagli anni Ottanta molti giovani adottarono gli occhiali scuri, che avevano una valenza protettiva e isolante e sotto cui si celavano le emozioni, ma che rappresentavano anche il distacco da una società che veniva rifiutata in toto: così i Punk e soprattutto il movimento Dark, che guardava alla letteratura gotica, si vestirono completamente di nero, occhialetti a buon mercato compresi. In Italia, la figura dello iettatore vestito di nero, munito di ombrello e di pesanti occhiali scuri, magitralmente interpretata da Totò nel film "Cos' è la vita", diventò patrimonio di un'ormai superata tradizione del nostro meridione


Bibliografia:
A. Conforti, M. Schiaffino: Occhiali sul naso, Idea libri, Milano, 1990; Chiara Frugoni: Medioevo sul naso, Laterza, Bari, 2001; Rosita Levi Pisetzky: Storia del costume in Italia, Istituto editoriale italiano, Milano; Jean Claude Margolin, Paul Bièrent; Occhiali e occhilaini, Ulisse edizioni, Torino, 1989.