giovedì 16 maggio 2013

Paco Rabanne

Negli anni Sessanta, un vasto movimento di studenti e operai in Europa e negli Stati Uniti,  si schierò contro l'ideologia della società dei consumi, e del mondo borghese; in America in particolare quella che fu chiamata "controcultura" si oppose alla guerra del Vietnam legandosi alla battaglia per i diritti civili e all’ostilità verso il Capitale.  Anche la famiglia tradizionale fu scossa dal rifiuto dell'autorità dei genitori e del conformismo dei ruoli, mentre furono messe in discussione le discriminazioni in base al sesso e alla razza. Con la contestazione cominciò a diffondersi l’idea di un vestire più comodo, informale e meno elitario, e quindi contrario ai principi di distinzione, di stile e di lusso che avevano caratterizzato le creazioni dei grandi sarti. La moda  stava diventando un fenomeno di massa che  interessava i mercati internazionali e solo in piccola parte era riservata ad una élite ricca ed esclusiva. Lavorazione a catena, capi di taglio semplice e tessuti sintetici o misti permettevano alle industrie di tenere i prezzi bassi, facendo sgretolare  il primato della haute couture e il mito di Parigi.
Gli anni Sessanta registrarono anche un mutamento dell’ideale estetico femminile e maschile. Non più le donne formose e sofisticate degli anni Cinquanta ma ragazze giovanissime, pallide e molto magre. Su questo nuovo modello si sviluppò lo stile sartoriale ormai dedicato ai giovani, che case di moda e industrie avevano intuito potessero essere una nuova e promettente classe di consumatori. 
In questa nuova atmosfera si inserì il lavoro di Paco Rabanne (San Sebastian, 1934) al secolo Francisco Rabaneda Cuervo: era figlio della direttrice di un laboratorio di Balenciaga, ed entrambi erano scappati dalla Spagna durante la Guerra civile.  A Parigi si laureò in architettura: era affascinato dalla Pop Art, dal Dadaismo e dalle sculture in materiali innovativi come il neon, la plastica, il ferro e iniziò il suo percorso stilistico allontanandosi dalla tradizione, sulla scia di altri creatori di moda anticonformisti come Courrèges, Saint Laurent, Cardin, Ungaro.
Cominciò a inserirsi nel mondo della moda creando accessori per il pellettiere Roger Model, poi il calzaturiere Charles Jourdan e giungendo infine a grande sarto spagnolo Balenciaga. I suoi accessori stravaganti attirarono l' attenzione delle riviste di moda: orecchini oversize e cinture erano realizzati in rhodoïd, un materiale plastico rigido e a basso costo, colorabile e facilmente tagliabile. Mentre le vendite si impennavano e "Le figaro" gridava allo scandalo, Rabanne allargò le sue creazioni al bolero, capo tipicamente spagnolo reinterpretato con elementi sintetici.

Nel 1966 presentò all'Hotel Georges V la sua prima collezione composta da "dodici vestiti importabili in materiali contemporanei" e indossati da modelle scalze. La sfilata fu un fulmine a ciel sereno nel mondo della moda e fu ripresa dalla stampa internazionale, mentre Coco Chane gridava: "Questo non è un sarto, ma un metallurgico!" Nello stesso anno aprì anche il suo piccolo laboratorio a conduzione familiare.

Convinto che la creatività non è seduzione ma choc, nell'inverno 1966/67 fece sfilare le ballerine del Crazy Horse, che sul palcoscenico del locale, eseguirono coi suoi abiti un vero e proprio strip-tease, cui i suoi vestiti ben si  adattavano.  In seguito, anche grazie ai progressi tecnologici, il sarto sbrigliò ancor di più la sua scatenata fantasia: nel 1967 lanciò una linea piena di accostamenti irriverenti: in carta, tessuti assieme a una trama di nylon e legati con bande adesive, in jersey di alluminio, in piume incollate a nastri. Per gli abiti da sera scelse sottilissimi tubi di plastica, mentre immaginò le sue spose vestite in rettangoli di rhodoïd opalescente. I pezzetti erano tenuti assieme da anelli metallici: non più ago e filo dunque, ma strumenti sartoriali quali pinze e ganci. Altro elemento scioccante: le modelle erano di colore,  mai viste prima nell’alta moda.
L’idea alla base della creazioni di Rabanne stava in una precisa volontà di democratizzazione della moda, unita certamente a un forte gusto per la provocazione. I suoi abiti erano adatti a silhouette sottili, a donne coraggiose che non temevano né il caldo, né il freddo, né la scomodità: “i miei modelli sono come delle armi” dichiarò a Marie Claire “Quando sono chiusi si ha come l’impressione di udire il grilletto di un revolver”. Con questo spirito affrontò il campo della pellicceria affiancando pelli pregiate al metallo: partendo da striscioline ottenute da avanzi di pelliccia  e tessuto, cominciò a lavorarli a maglia, ottenendo un "tessuto" caldissimo e molto leggero.
Reinterpretò anche il merletto, traducendolo in plastica e alluminio, e il ricamo, utilizzando piccolissimi chiodi cuciti sul tessuto. Ispirandosi al medioevo lanciò la cotta di maglia al femminile.
Sempre con tecniche artigianali realizzò tra il 1970 e il 1976 abiti in bottoni, vestiti composti di fazzoletti, maniche costruite con calzini, modelli in fasce di caucciù. In quanto agli accessori non erano meno stravaganti dei vestiti: caschetti in metallo, turbanti iridati, antenne e zampilli in plexiglass e alluminio.
Dopo lo sbarco sulla luna si era in pieno boom spaziale e molti couturier si ispirarono, come Rabanne, ad abiti siderali che mandavano bagliori luminescenti. Anche il mondo dello spettacolo richiese le sue creazioni: una delle prime attrici che lo seguì fu Audrey Hepburn nel film “Due per la strada”, nel 1968 fece indossare alla cantante Françoise Hardy un abito in lamine d’oro con incrostazioni di diamanti e infine mise addosso a Jane Fonda, nel film Barbarella, un cortissimo e sensuale abitino in stile medievale fatto in maglia di metallo.
La parabola di Rabanne terminò con l’ipotesi di abiti biodegradabili, in accordo con le nuove idee che predicavano il salvataggio della natura. Chiusa definitivamente la sua maison, si ritirò dalla moda nel 1999.

Bibliografia:
Lydia Kamitsis, Paco Rabanne, ed. Franco Cantini, Firenze, 1998; Guido Vergani, Dizionario della moda, ed. Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2010; Gabriella D’Amato, Moda e design, ed. Bruno Mondadori, Milano, 2007.
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