venerdì 14 settembre 2012

Lusso e splendori di Bisanzio

Nel 324 dopo Cristo l’imperatore romano Costantino decise di fondare una “Nova Roma” – ora Istanbul -  sul sito dell’antica città di Bisanzio, in posizione strategica sullo stretto dei Dardanelli. Con questo gesto rivoluzionario, Costantino sanciva di fatto la separazione tra Impero romano d’Occidente e Impero romano d’Oriente, che sarebbe stata definitivamente ratificata dopo la morte di Teodosio I, nel 395. Costantino – per ragioni politiche molto più che morali – aveva stabilito che i cristiani godessero di libertà di culto. Con l’editto di Milano del 313, aveva definitivamente posto fine alle persecuzioni religiose e permesso la costruzione di luoghi pubblici dove celebrare le cerimonie; le prime, ampie basiliche, si ornarono con mosaici che rappresentavano scene della vita di Cristo, dando di fatto il via all’arte religiosa dell’Occidente e del medio Oriente.Costantino fu anche fautore e responsabile del Concilio ecumenico di Nicea, in cui si combatteva pubblicamente l’eresia, si proclamava il Credo e si affermava definitivamente il primato del Cristianesimo sulle religioni politeiste; in seguito, con l’editto di Tessalonica del 380, Teodosio il grande stabilì che il paganesimo era fuori legge e perseguitabile. Questi eventi storici furono determinanti per l’affermazione del nuovo costume dell’Alto Medioevo.
Verso la fine dell’Impero romano, gli abiti maschili e femminili erano andati incontro a una trasformazione radicale; le conquiste e la conoscenza di usanze totalmente diverse da quelle latine, avevano portato a una ridefinizione  del costume. Erano state introdotte le maniche, di origine orientale, e le brache, tipiche dell’Europa del nord, mentre si andava verso una decadenza definitiva della toga, il principale indumento maschile romano, sostituita da mantelli assai più comodi come il Pallium e la Clamide. Anche la donna, uniformandosi ai nuovi canoni estetici, appariva slanciata e sottile, con vesti accollate che coprivano il busto e un mantello leggero che ne proteggeva la pudicizia. Non estranei  a questo fenomeno erano i discorsi dei primi apologeti e dei padri della chiesa. Tertulliano in particolare, nel “De cultu foeminarum”, apriva una diatriba sulla vanità femminile, nella convinzione che “la donna è la porta del Diavolo”. San Girolamo ricorda i capelli posticci della vergine Demetriade, mentre Sant’Ambrogio si scagliava contro le pietre preziose che orlavano le vesti , affermando che “sarebbe meglio levigare la durezza del cuore”. Né erano risparmiati gli uomini: a questo proposito una curiosa diatriba su barba e capelli vedeva schierati due partiti opposti. Il primo, rifacendosi alla Bibbia, affermava che non bisognava distruggere i peli che Dio aveva creato; il secondo invitava a radersi per penitenza. Un esempio di abbigliamento del periodo è il famoso “Dittico di Stilicone” in cui il console e generale compare con la moglie Serena in atteggiamento rigido e frontale, indossando gli abiti di moda all’epoca.
La caduta dell’Impero romano nel 476 dopo Cristo, sancì definitivamente l’ascesa dell’Impero d’oriente. Nel 527 tuttavia, l’imperatore Giustiniano I cercò concretamente di riconquistare le regioni occidentali. Ne conseguì la creazione dell’Esarcato d’Italia, che aveva sede a Ravenna e che fu in seguito travolto dalle invasioni longobarde, lasciando alcune colonie in Emilia Romagna, Marche, Lazio, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna.

Bisanzio era considerata la più bella capitale del mondo conosciuto. Ereditate dall’impero romano lo splendore e le consuetudini, la città conobbe il suo acme sotto Giustiniano (462 – 565) e la moglie Teodora. L’imperatore, poi chiamato Basileus, era divinizzato e considerato il rappresentante di Dio in terra. Era rappresentato frontalmente e con l’aureola, in aspetto rigido, ieratico e disumano come si conveniva a una divinità. I suoi abiti in seta splendevano di ricami aurei. La luce, concetto metafisico alla base dell’arte bizantina, doveva emanare dalla sua persona e dalla consorte. A tal scopo erano fondamentali i tessuti serici coi loro riflessi e bagliori. La seta era stata importata fortunosamente dall’oriente: due monaci avevano infatti introdotto il bozzolo del baco nel cavo del loro bastone, e Giustiniano aveva dato il via ad un importante laboratorio manifatturiero annesso al suo palazzo e severamente protetto contro  qualsiasi tentativo di spionaggio. 
Determinante era l’uso del colore. La porpora, che poteva essere indossata solo dall’imperatore – detto Porfirogenito, ossia nato dalla porpora – era un colorante ottenuto da un mollusco gasteropode, che secerneva un liquido vischioso di colore violaceo, ma che poteva digradare dall’azzurro al rosso. La quantità di prodotto era minima e ci volevano migliaia di molluschi per tingere una veste: per questo motivo era rarissimo e molto costoso, e quindi adatto agli abiti di una divinità in terra. Avvolti nei loro tessuti preziosi, nel palazzo ricco di marmi e mosaici d’oro e  ricoperti di gioielli, Giustiniano e Teodora si presentavano al mondo nell’ineffabile luce del loro sfarzo. Il sovrano doveva rappresentare il “Typus Christi”, il simbolo vivente di Cristo e garante della sua Chiesa. Grazie a lui Bisanzio diventò un punto di riferimento fondamentale per l’abbigliamento.
Ravenna conserva ancora nei suoi mosaici l’immagine dell’imperatore e della sua corte. Nella basilica di San Vitale, sono conservati due importanti mosaici che ritraggono la coppia regale circondata dal loro seguito. Giustiniano, rappresentato mentre offre un pane, indossa una lunga clamide purpurea, una tunica di seta e panno aureo, brache e calzari rosso cupo. Il mantello semicircolare e di origine greca, reca una decorazione romboidale detta “tablion”, che sottolineava la differenza di ceto: mentre l’imperatore l’aveva color porpora e ricamata, i dignitari che l’affiancano esibiscono una maggiore semplicità. Anche la spilla che chiude il mantello è una prerogativa imperiale: i funzionari hanno una allacciatura molto più semplice.
A fronte di Giustiniano è raffigurata la moglie Teodora, donna di origini modestissime ma dal carattere di ferro,  che dal mondo del circo era riuscita a salire alla dignità imperiale e si era circondata di un’aureola soprannaturale. Divinizzata, assorta nella sua rigida posizione frontale, Teodora reca in mano una coppa che sta per offrire alla Chiesa, simboleggiata da una fontana d’acqua zampillante.
La basilissa indossa un mantello purpureo, decorato sul bordo con le immagini dei re Magi, e una tunica lunga. La ancelle del seguito portano invece un mantello più corto e chiuso, e un velo arrotolato in testa. I sovrani sono carichi di gioielli: entrambi portano la corona. Quella di Giustiniano è più piccola e a pendenti, mentre Teodora ha un diadema straordinario, decorato di perle e gemme, che fa pendant col maniakon, il collare che ricorda quello dell’aristocrazia egiziana. D’altro canto gli influssi della civiltà del Nilo, conquistata da Alessandro Magno, non potevano non essere presenti in Grecia e in Turchia, grazie anche agli stretti rapporti commerciali.
Un ulteriore esempio del costume bizantino – peraltro molto avaro di descrizioni storiche e letterarie – si può osservare nella basilica di Sant’Apollinare nuovo, sempre a Ravenna. Nella navata centrale, due teorie di Vergini e di Martiri si dirigono verso l’altare recando le loro corone sulle mani velate. Le donne indossano una tunica con la cintura sotto al seno, ripresa da un lato in modo da evidenziare l’orlo apparentemente tagliato obliquo. Gli uomini invece hanno tunica e il Pallium di colore bianco, ornato con una lettera dell’alfabeto greco; questo costume semplice, col mantello che scopre una spalla, si può vedere anche nei mosaici di Galla Placidia.
Alla fine della processione delle vergini, i re Magi offrono doni alla Madonna in trono; il loro costume, formato da brache, tunichetta e mantello, è corredato da scarpe a punta arricciata e berretto frigio. Definito costume palmireno, ossia proveniente dalla città romana di Palmira in Siria, l’abito è un tipico esempio dell’influenza mediorientale in occidente; il berretto frigio, rosso e con la punta rivoltata,  diventerà famoso in Europa durante la Rivoluzione francese come simbolo di libertà. La sua forma particolare nasce da una pelle di capretto aperta; migrato nel costume ellenistico, divenne poi uno degli attributi tipici del dio Mitra, il cui culto si estese all’antica Roma. In seguito fu donato dai padroni agli schiavi liberati. Da qui diventò simbolo di indipendenza.

Bibliografia:
Rosita Levi Pisetzky, Storia del costume in Italia, Istituto editoriale italiano, Milano, 1964

mercoledì 12 settembre 2012

Mussolini, il fascismo e la moda

Con la presa del potere da parte di Benito Mussolini, nel 1922, si inaugura un nuovo periodo per la moda italiana: per tutto il ventennio di dittatura il Duce condizionerà il vestiario delle donne imprimendo una particolare impronta fascista e cercando, molto spesso invano, di determinarne le scelte.
Negli anni Venti la Francia era il centro mondiale della raffinatezza e dello chic. Nonostante che da noi fiorissero, specie a Torino, importanti sartorie, i giornali di moda guardavano esclusivamente a Parigi dove si riforniva la clientela europea. Contemporaneamente il crollo di Wall Street del ’29 aveva causato un’ondata di crisi che si era abbattuta anche sul vecchio continente, facendo salire la disoccupazione, causando licenziamenti e riduzioni salariali, e mettendo sul lastrico migliaia di famiglie. Nonostante ciò in Italia la classe agiata continuava a vestirsi in modo elegante. I matrimoni principeschi e in particolare quello di Umberto II e Maria Josè del Belgio del 1930, i ricevimenti, le prime teatrali e le usanze del bel mondo, erano sulle prime pagine delle riviste che ignoravano completamente la vita e i problemi del resto della nazione.
Mussolini – probabilmente perché proveniva da una povera famiglia romagnola - non amava le ostentazioni, detestava gli eccessi e aveva ben chiaro il suo ideale femminile:  gli piacevano le contadine di stazza robusta e di fianchi prolifici e finché poté cerco di trasformare le ricalcitranti signore italiane in massaie rurali.  Attraverso “Il giornale della donna”, “Camerate a noi”, “il popolo d’Italia”, tentò quindi di instillare nelle donne il rifiuto dello stile parigino,  la disciplina, l’amore per i prodotti nostrani. Lo sport femminile fu incentivato e si lanciarono le “Olimpiadi della grazia”, che si svolsero a Firenze con la partecipazione di undici nazioni europee.
Nel 1935 fu fondato l’Ente Nazionale della Moda, con sede a Torino, che sostituiva quello precedente, sempre voluto dal fascismo, e che aveva come scopo la diffusione di una nuova moda nazionalista: il clima teso delle relazioni internazionali stava portando infatti verso una forma di autosufficienza economica che finì per coinvolgere tutti gli aspetti della vita nazionale e che fu chiamato “Autarchia”.  La causa principale dell’autarchia furono le sanzioni economiche imposte all’Italia dalla Società delle Nazioni per l’invasione dell’Etiopia. Vennero quindi a mancare rifornimenti e materie prime, e la conseguenza fu il lancio di un’accesissima campagna che invitava il popolo a rifiutare in blocco tutto quello che proveniva dall’estero, a meno che non si trattasse di prodotti delle nostre colonie. Si arrivò perfino a modificare la lingua escludendo qualsiasi parola straniera e invitando a parlare latino invece che inglese e francese.  La moda in particolare era sollecitata a inventare creazioni esclusivamente “italianissime”. Il primo articolo costitutivo dell’Ente obbligava a certificare la garanzia italiana di ogni creazione.
Negli anni Trenta i couturier parigini avevano lanciato una linea affusolata, estremamente femminile, con la vita segnata, la gonna al polpaccio, il corpo messo in evidenza da sete che catturavano la luce, con ampie scollature sulla schiena. Coco Chanel, Madeleine Vionnet, l’italiana Elsa Schiapparelli , erano al centro dell’attenzione internazionale. Fossero creazioni lineari e comode come quelle di Chanel, o decisamente sfacciate  come quelle di Schiapparelli, gli abiti si rivolgevano a una donna moderna ed emancipata, che non disdegnava il lavoro e non aveva paura di esibire la propria sessualità. 
Per il mare il corpo era molto scoperto e si cominciavano a indossare senza eccessive timidezze i primi pantaloni, copiando lo stile mascolino di Marlene Dietrich e Greta Garbo.
Erano di moda i vestiti stampati a fiori, il plissé, le arricciature, i merletti e i ricami. Le giacche e le mantelline si abbonavano a una gonna fantasia, i bottoni e le fibbie erano in forme curiose come acrobati o cagnetti, in materiale quale il legno, la pelle, l’osso, la madreperla. I guanti erano d’obbligo come i cappellini, e solo le donne del popolo uscivano a testa scoperta.   
Il fascismo si occupava invece di demografia ed era convinto che “l’eleganza è nettamente sfavorevole alla fecondità”. Tentando di riportare le donne tra le mura domestiche, cercava di convincerle a ingrassare. Guardava con orrore “le manichine”, ossia le indossatrici magre e feline, detestava i “gagà” e le “gagarine”, ossia le persone alla moda, suggeriva che la modella perfetta doveva essere alta 1,56/1,60, e pesare 55/60 chili.  I figurini e le fotografie di moda riproducevano belle ragazze robuste.
Il regime puntava inoltre su abiti che si rifacessero alla nostra tradizione popolare, al Medioevo e al Rinascimento, mentre con la conquista dell’Albania  ci si ispirò al suo folklore per costumi colorati e ricamati che furono propagandati per l’occasione da Maria Josè di Savoia. Si inventarono anche pudicissimi modelli di ispirazione religiosa, forse sull’onda della riconciliazione col Vaticano attraverso i Patti Lateranensi. Si lanciarono  violente campagne contro i pantaloni, contrari alla decenza e – chissà perché – alla maternità, e contro il trucco che – impiastricciando il volto - imitava sfacciatamente le dive di Hollywood, con le labbra arcuate e le sopracciglia rasate. Le signore continuarono comunque a inseguire la dieta, a copiare più o meno apertamente i modelli francesi, ad ossigenarsi, a guardare con estremo interesse le dive dei “Telefoni bianchi” che naturalmente si rifiutavano di uniformarsi al modello voluto dal regime.
L’autarchia stava creando notevoli problemi: alcune materia prime non potevano essere prodotte in Italia. Seta e lino si coltivavano facilmente nella penisola, mentre per il cotone – che sarebbe dovuto provenire dall’Etiopia – gli industriali italiani non erano stati capaci di ottenere quantità soddisfacenti; la lana delle pecore abruzzesi non poteva certo competere per qualità e abbondanza con quella inglese. Nelle more di queste difficoltà, il Duce affermò perentoriamente che bisognava sostituire le fibre mancanti con altre naturali e artificiali: la canapa, il fiocco di ginestra, l’ortica, il raion. La lana fu invece sostituita dal “Lanital”, una fibra derivata dalla caseina contenuta nei residui di latte di capra, con cui si ottenevano maglie che cedevano e che si ingrossavano se inumidite. Per le pellicce di volpi argentate, di astrakan, di ermellino, i cincillà, i visoni, le stole, le giacche, si dovette ricorrere ai nostrani conigli, magari ritinti.
La Seconda guerra mondiale  peggiorò la situazione in modo drammatico: dal 1941 entrarono in vigore le tessere per l’abbigliamento, mentre si dovette ricorrere sempre di più a materiali poveri. Fu obbligatorio risparmiare sui tessuti e sul cuoio, che servivano per le uniformi dei nostri soldati; gli abiti si accorciarono addirittura sopra al al ginocchio, scomparvero le calze e la riga fu dipinta su polpaccio; gli strascichi degli abiti e da sposa da sera furono aboliti, mentre i giornali sembravano ignorare il problema. Le riviste femminili propagandarono le direttive del regime: ci si scagliò contro la moda della vita di vespa, considerata antigienica, ci si oppose alle retine in stile romantico che raccoglievano i capelli lunghi, si suggerì di evitare il turbante, accusato di essere troppo orientale, si insistette sulla donna severa e littoria.
L’economia di guerra lanciò tuttavia alcune mode: tra queste i cappellini con la veletta e soprattutto le scarpe con le zeppe. La veletta, che dava al viso un’aria misteriosa, maliziosa e romantica, si era diffusa a partire dall’ottocento; dal momento che non era soggetta al tesseramento, durante l’autarchia fu utilizzata in pianta stabile per i piccoli copricapi femminili in materiale povero come la rafia e la paglia, appoggiati a coprire la fronte e svelare la nuca. La crisi e il divieto dell’uso del cuoio e dell’acciaio spinsero un calzolaio italiano, Salvatore Ferragamo, ad abolire il tacco e ad inventare la zeppa in sughero sardo, mentre rafia, cellophane, tela, fili metallici, legno e resine sintetiche, servirono per fabbricare la tomaia, caratterizzando la maggior parte delle scarpe degli anni Quaranta. La zeppa poteva avere anche tacco rientrante, ribattezzato ad “Effe” che fu brevettato.
Erano scarpe colorate, fantasiose, a volte visionarie, sempre divertenti, e piacquero molto. Ferragamo si era affermato ad Hollywood diventando “il calzolaio delle stelle” e calzando attori famosi come John Barrymore, Rodolfo Valentino, Lillian Gish o Mary Pickford. Insoddisfatto della manodopera americana, fece ritorno a Firenze dove esisteva da secoli un’importante tradizione manifatturiera del pellame, conoscendo tuttavia il successo mondiale solo alla fine degli anni ‘40.
Negli anni quaranta, incalzate dai bombardamenti, sfollate in campagna, le donne impararono a fabbricarsi un vestito nuovo e bicolore con due vecchi, a rivoltare il paletò del marito,  a farsi le mutande con le camicie vecchie. Ma nonostante la fantasia, l’arte di arrangiarsi, le tessere, i bombardamenti, la povertà, la difficoltà dei rifornimenti finirono per condurre quelle della classe medio/bassa al crollo e all’indifferenza totale verso qualsiasi tipo di moda: denutrite, senza pane, zucchero, uova o carne, a volte vestite di cenci, o perfino prive di calzature, con scarpe di carta, o coi soli calzini, le italiane si consegnarono in questo modo al dopoguerra.

Bibliografia:
Natalia Aspesi, Il lusso e l'autarchia, Rizzoli, Milano, 1962