sabato 28 novembre 2015

Tacchi alti, gioie e dolori

Prima del tacco era la zeppa. Il proverbio “altezza è mezza bellezza” doveva essere condiviso anche dai popoli antichi che – molto prima delle moderne indagini statistiche – avevano capito come le persone alte fossero dotate di un sex-appeal maggiore di quelle di statura medio-bassa. Non sappiamo quale antico artigiano abbia inventato i rialzi sotto la suola delle scarpe, ma già nella Grecia classica facevano parte del guardaroba degli attori e delle etere: i costosi trampoli colorati e dorati di queste ultime erano a volte muniti di suole chiodate che imprimevano sul terreno scritte provocanti del tipo: “seguimi”. L’andatura traballante che le donne assumevano in cima a queste scarpe costituiva già da allora un richiamo erotico, al punto che verso la fine dell’Impero romano San Girolamo condannò le zeppe delle matrone non solo per la loro frivolezza estetica, ma anche per la loro peccaminosa capacità di attrazione fatale. 
Dopo un’eclisse che durò per tutto il medioevo, le zeppe risorsero nella Venezia del rinascimento come vertiginose pantofole alte fino a un braccio, costringendo le signore a camminare appoggiandosi a due cameriere per non volare per terra o ancor peggio in un canale; di probabile origine medio orientale, queste pianelle derivavano forse dagli altissimi zoccoli usati dalle donne per non scottarsi i piedi nei bagni turchi. 
Inutile dire che le europee li adottarono in massa, prima fra tutte la piccolissima Caterina de’ Medici, che per il suo matrimonio con Enrico II di Francia ne sfoggiò un paio ben nascosti sotto le vesti lunghe.
Il passaggio dalla zeppa al tacco nacque però da un’iniziativa maschile. Calzature da uomo di questo tipo erano note da secoli in Medio Oriente, dove erano usate dagli arcieri a cavallo perché permettevano di ancorare meglio il corpo alle staffe, girarsi agevolmente e scoccare la freccia in modo efficace. I tacchi alti vennero introdotti in Occidente attraverso i rapporti diplomatici e mercantili con l’Europa, ma chi li promosse definitivamente fu Luigi XIV di Francia che per rimediare alla bassa statura non solo li volle indossare, ma li impose ai membri della sua corte tingendoli di rosso e decorandoli con scene di battaglie. 
Le scarpe col tacco facevano molto macho e davano all’uomo un’aria marziale; dal momento che per la loro scomodità non potevano essere portate da lavoratori e contadini, diventarono simbolo di status sociale, dimostrando in modo visibile che chi li indossava apparteneva alla classe privilegiata dei ricchi nulla-facenti. Le signore dell’aristocrazia non vollero essere da meno dei loro compagni e se ne appropriarono, mostrando un eccitante piedino da fata che spuntava dalla gonna: le estremità piccole piacevano, come dimostra anche la fiaba di Cenerentola importata in Europa dalla Cina proprio in questo periodo. 

Nel Settecento,  secolo di Cagliostro, Casanova e De Sade, nacque il termine “feticismo”, l’attrazione sessuale per una parte del corpo del partner o per un oggetto di sua proprietà: fu descritto per la prima volta da Restif de la Bretonne che si innamorò delle estremità di Franchette, moglie del suo capo, masturbandosi nelle scarpe alte di lei. Una volta entrato nell’immaginario erotico maschile il tacco da donna ci rimase: nell’Ottocento le nuove tecnologie ne aiutarono la diffusione attraverso le fotografie osé  che ritraevano prostitute vittoriane in mutandoni bianchi ma con calze e stivaletti neri abbottonati fino al polpaccio.
Col Novecento le sottane si accorciarono e il tacco alto ora visibile diventò ancor più espressione di femminilità condita da una punta di trasgressione: dalla garçonne degli anni Venti con le gonne cortissime e i tacchetti audaci, si passò alla pin-up procace degli anni Trenta-Quaranta, vestita il minimo indispensabile ma con le inevitabili scarpe col tacco; dal dopoguerra si volatilizzarono  anche gli ultimi scampoli di tessuto e giornali come Playboy fecero entrare nella cultura di massa immagini di belle ragazze nude con provocanti scarpe vertiginose. Restava però un problema tecnico: i tacchi antichi erano fatti in legno e la loro struttura massiccia non poteva essere né rialzata né assottigliata più di tanto perché avrebbero corso il rischio di spezzarsi. Il lampo di genio risolutore  venne a Roger Vivier, un raffinato artigiano che collaborava con Christian Dior, e che introdusse nel tacco una sottile asta d’acciaio aumentandone la tenuta e la resistenza e permettendo di portarlo fino a 12 centimetri: erano nati i tacchi a spillo, ribattezzati “stiletto” dalla rivista Vogue.  
Oltre a Vivier altri artisti della calzatura cercarono di renderla più alta e leggera utilizzando materiali ultramoderni come la plastica e l’alluminio: André Perugia – che durante la prima guerra mondiale aveva lavorato presso una fabbrica di aerei, cercò di trovare un’equazione “perfetta e adeguata al millimetro come un pezzo di motore” tra scarpe, tacco e peso del corpo, inventando originalissimi modelli con tacchi sferici o a spirale. Un’altra instancabile sperimentatrice di forme e materiali fu l’americana Beth Levine. A lei si deve il perfezionamento delle ciabattine con tacco a spillo, particolarmente difficili da portare perché, non essendo assicurate al piede da una stringa, volavano via con molta facilità: nacque così il modello “Topless”, un’alta suola imbottita che veniva fissata alla pianta con una colla speciale in modo che il tacco sembrasse un’estensione del tallone.
Negli anni Sessanta e Settanta la rivoluzione giovanile e il movimento di liberazione della donna misero in crisi i tacchi alti; il ritorno alla natura degli Hippy muniti di sandali o addirittura coi piedi scalzi o e il rifiuto della donna oggetto da parte del movimento femminista, non potevano accordarsi con l’ ideale maschilista della ragazza piena di curve e inibita dai trampoli. 
Avanzava lo “street style”, il look che veniva creato in strada, che ha definitivamente rivoluzionato  il concetto stesso di moda come fenomeno controllato esclusivamente dall’alto. Il tacco fu affiancato dalle ballerine, dalle sneakers, perfino dai sandali unisex Birkenstok; il gusto della gente poté liberarsi e la scarpa – alta o bassa - diventò l’espressione della personalità di chi la indossa. Dagli anni Ottanta fino ad oggi il tacco alto ha comunque mantenuto il suo status di oggetto erotico, pur arricchendosi di ulteriori significati. Dall’America si impose la nuova cultura urbana del giovane professionista rampante, lo Yuppie, il cui abito doveva essere tagliato per il successo. 

Per sembrare aggressive e sicure le ragazze si vestirono con sobri completi mascolini inalberando vertiginosi tacchi a spillo da predatrice senza complessi. Nel frattempo si è scoperto che i tacchi rialzano il posteriore in modo provocante, aumentandone la curvatura del 25 %. Stilisti come Manolo Blahnik e Christian Louboutin hanno fatto diventare il tacco 12 un’icona di culto. La fortunata serie televisiva “Sex and the City” affermò una volta per tutte che i tacchi stratosferici sono un simbolo vincente di sessualità esibita senza problemi e in definitiva di potere. Sparita la donna- oggetto si è affermata la donna dominatrice.
Oggi il tacco a spillo ha superato sé stesso arrivando anche i venti centimetri delle Armadillo di Alexander McQueen. Le ricerche scientifiche affermano che i trampoli hanno un effetto negativo sulla salute fisiologica: male ai piedi, calli, dita a martello, dolori lombari, e ovviamente il rischio di cadute e storte fanno parte degli inconvenienti collegati al loro uso. Sul web non è difficile rintracciare immagini di indossatrici e rockstar lunghe distese per terra come Lady Gaga, immortalata in uno spettacolare scivolone grazie alle scarpe-feticcio di Kermit Tesoro, un giovane stilista filippino che ha inventato per lei le "zeppe al contrario", appoggiate solo sul davanti e prive di tacco. 

Da qualche anno in America sono comparsi anche i tacchi alti da uomo, riservati alle serate in discoteca. Come racconta un amante del genere sembra che aumentino la visibilità e ingigantiscano il senso di onnipotenza: "La sera non esco mai con meno di 20 centimetri di tacco, li aiutano a vedere al di sopra della mandria..."
Fonti:

Giorgio Riello, Peter MCNell, Scarpe, Angelo Colla Editore

sabato 31 ottobre 2015

Il nero: metamorfosi di un colore

Linea e stile ma anche portabilità e praticità: così Coco Chanel intendeva la sua moda, indirizzata in particolare alle donne che lavoravano fuori casa, fenomeno che si stava diffondendo proprio negli anni Venti del secolo scorso.  Sorretta da questa filosofia, nel 1926 lanciò un rivoluzionario abito nero stretto e corto, il Tubino o - alla francese - “Petite robe noire”, ispirandosi ai grembiali delle istitutrici dell’orfanotrofio in cui aveva trascorso la sua infanzia. Un abito comodo, che slanciava e poteva essere indossato da tutte, ma che suscitò scandalo perché dall’epoca della regina Vittoria non si riteneva opportuno indossare quel colore funereo al di fuori delle occasioni di lutto. Rompendo con la tradizione Chanel riportò in auge un colore (o come alcuni pensano, un non-colore) che aveva conosciuto in passato tempi di gloria senza essere necessariamente associato alla perdita di una persona cara. Il capo, nella sua versione da sera, diventerà poi popolarissimo negli anni Sessanta quando fu indossato con disinvoltura da Audrey Hepburn nel film "Colazione da Tiffany" mentre mangiava un croissant di fronte alla vetrina della celebre gioielleria.
Nell’antichità i colori degli abiti avevano un impatto simbolico molto più incisivo che in epoca moderna, ma potevano anche suggerire – come del resto oggi - significati ambivalenti che dipendevano dai contesti culturali e dalle variabili storiche, senza escludere aspetti di interpretazione personale. Così, per fermarsi solo alla triade bianco, rosso e nero,  il primo era simbolo di purezza e onestà, ma poteva anche segnalare la lugubre presenza del defunto (i sudari dei cadaveri e i mantelli dei fantasmi), il secondo era associato alla vitalità e all’esercizio del potere oltre che alle tentazioni della carne (tra i vizi capitali orgoglio e lussuria si tingevano di rosso), mentre l’ultimo era stigmatizzato come colore della morte e del diavolo, ma anche della dignità e della serietà. Un esempio dell’ambiguità del nero nel Medioevo fu la diatriba che oppose  San Bernardo di Chiaravalle e i suoi monaci cistercensi dalla tonaca bianca, a quelli dell’abbazia di Cluny, che indossavano il saio nero dei benedettini: il Santo scrisse all’abate cluniacense rimproverandolo di imporre ai suoi la tinta del demonio, e siccome all’epoca queste cose erano prese terribilmente sul serio, ne nacque un litigio che durò una ventina d’anni. 

Come indicazione funebre il nero ha, nell’abbigliamento europeo, una storia abbastanza recente: i primi a portare un abito scuro in segno di lutto furono i romani, che si mettevano per l’occasione la “toga pulla”, un mantello di colore grigio o marrone. Nel Medioevo l’usanza fu dimenticata anche per motivi tecnici ed economici: ricavare questo tipo di tintura per colorare i drappi era tutt’altro che facile in epoca preindustriale. Tutti i coloranti erano infatti ottenuti dalla manipolazione di vegetali, alghe, licheni, molluschi e insetti dai quali si ricavava un liquido in cui venivano immersi i tessuti e il cui costo variava a seconda della rarità e disponibilità della materia prima. 
Tra le tinte più difficili c’era il nero, che poteva essere ottenuto dalla limatura di ferro, ma che sbiadiva facilmente degenerando in scialbe tonalità grigie e marroni. Molto più stabile e pregiata era la galla, un’escrescenza che si forma su alcune piante in seguito all’attacco di parassiti; l’alto prezzo del prodotto derivava dall’enorme numero di galle che serviva per colorare una pezza intera e dal fatto che le migliori venivano importate dall’Oriente o dall’Africa.
La moda del medioevo e di parte del rinascimento fu illuminata da una festa vivacissima di colori che non si interruppe nemmeno durante la Grande Peste che colpì l’Europa tra il 1346 e il 1350: a quei tempi il lutto era infatti caratterizzato da tinte scure tendenti al grigio, al verde o all’azzurro cupi.  Per le cariche civiche come magistrati e giureconsulti il nero simboleggiava autorità morale e probità: a Venezia ad esempio era imposto per legge ai medici, mentre a Bologna era il colore degli scolari dello Studio.  Al contrario in alcune città era proibito alle persone di dubbia reputazione, come indica uno Statuto di Modena che lo vieta espressamente alle meretrici, obbligate a indossare tinte sgargianti per distinguerle dalle “donne oneste”. L’eleganza composta e austera del costoso nero di galla affascinò anche il patriziato urbano e le corti signorili, dal momento che  monarchi come il duca di Borgogna Filippo il Buono - e dopo di lui del figlio Carlo il Temerario - non mancarono di inserirlo nei loro guardaroba. Bisogna tuttavia aspettare il XVI secolo perché tutto l’abbigliamento maschile europeo si tinga d’inchiostro. 
E’ un dato assodato nella storia della moda che chi vince le guerre e arriva al potere detta il proprio stile agli sconfitti: così quando Carlo V d’Asburgo si trovò a dominare addirittura tre continenti, la sua corte impose i propri codici d’abbigliamento di cui faceva parte anche il nero assoluto, considerato dall’imperatore un colore degno del suo rango e altresì simbolo della virtù della Temperanza, di cui nei suoi comportamenti si faceva interprete. Dalla corte di Spagna il nero valicò le Alpi e si estese anche all’Italia, dove Baldassarre  Castiglione, nel suo “Libro del Cortegiano” lo consiglia agli uomini del bel mondo per esprimere gravità e sussiego. L’avanzamento delle tecniche tintorie, della sartoria e della tessitura, permetteva ormai di differenziare vari tipi di nero in un gioco raffinatissimo di opacità e lucentezze, e moltissimi artisti cinquecenteschi, da Tiziano a Giovan Battista Moroni, da Lorenzo Lotto al Parmigianino rappresentarono i loro committenti in nero totale, interrotto solo dal biancheggiare dei colletti e dallo sfavillio delle catene d’oro.
Nella seconda metà dello stesso secolo il Concilio di Trento dette avvio alla Controriforma che volle dare una potente stretta all’opposizione di luterani e calvinisti al papato di Roma. Entrambi gli schieramenti abbracciarono una religiosità severa e rigorosa che respingeva con fermezza ogni frivola e peccaminosa pratica mondana:  nei paesi dove aveva vinto la Riforma protestante, come l’Olanda, la Scandinavia e parte della Germania, si predicò la mortificazione del corpo e l’uso di vesti tenebrose, mentre nelle zone rimaste cattoliche dell’Europa un buon cristiano doveva rinunciare alla sua vanità evitando i colori vivaci e vestendosi di scuro o addirittura di nero. Ritornarono in auge anche le medievali credenze sul Diavolo, che ormai si sospettava essere dappertutto: dal 1550 e per lungo tempo quest’idea incrementò il fenomeno della caccia alle streghe. Le descrizioni delle povere donne che, sotto tortura, ammettevano di aver partecipato a un sabba, riferiscono che in queste cerimonie notturne il corpo doveva essere tinto di fuliggine mentre gli abiti erano neri come il Demonio che interveniva in forma di caprone. 
Ancora tinte fosche nel Seicento, secolo di guerre, conflitti religiosi, epidemie e pestilenze e – come se non bastasse – oppresso da un brusco abbassamento della temperatura media che causò una pesante carestia;  la grave crisi sociale stimolò la riflessione sulla caducità della vita e la miseria fisica e morale dell’uomo. La morte era onnipresente e con essa cominciarono a codificarsi le pratiche del lutto nelle forme vestiarie, nell’arredamento e addirittura nei gioielli, tra tutti il “Memento mori”, un ciondolo prezioso a forma di bara con un piccolo cadavere incapsulato. E’ in questo periodo che Charles de Lorme, medico di Luigi XIII di Francia, ideò per coloro che curavano gli appestati una veste idrorepellente in tela cerata nera lunga fino ai piedi, comprensiva di guanti, scarpe e cappello a tesa larga. Il lugubre abito era completato da una maschera a becco d’uccello dentro la quale erano inserite sostanze aromatiche e una spugna imbevuta d’aceto che si credeva proteggessero dal morbo. La maschera del medico della peste è poi passata ai costumi carnevaleschi di Venezia. 
Nel XVII secolo Isaac Newton dimostrò che la luce bianca del sole era composta da uno spettro di sette colori: la scoperta estromise in qualche modo il bianco - e soprattutto il nero - dal sistema cromatico e assegnò a quest’ultimo il ruolo di non-colore, questione in parte aperta anche al giorno d’oggi. 
Col secolo dei Lumi, anche grazie all’influenza degli scritti di Rousseau e degli enciclopedisti, si ritornò alla natura e gli abiti si accesero di note primaverili, azzurri, verdi, blu, bianco e rosa, con le uniche eccezioni della Spagna e dell’Italia dove persino a Venezia, durante il lunghissimo periodo di carnevale, ci si copriva il capo con un cappuccio di pizzo nero, la Bautta, che accoppiata a una maschera bianca detta Larva restituiva un’idea d’inquietante mistero. All’Illuminismo si contrappose ben presto il Romanticismo, coi suoi eroi angosciati, malaticci e malinconici. Al volgere dell’Ottocento i romanzi gotici proclamarono il trionfo della morte e della notte, loro compagna, assieme all’inevitabile colore nero che dominerà tutto il secolo in particolare nella moda maschile. La tendenza – che sarebbe durata fino agli anni venti del Novecento -  era sostenuta anche dall’ascesa della borghesia dopo la Rivoluzione francese: la nuova classe dominante rispolverò la simbologia medievale di questo colore cercando di dimostrare con frac, redingotes, cappotti monocolore e senza fronzoli, l'onestà del buon cittadino teso al lavoro, al guadagno, alla compattezza
del nucleo famigliare.
Da questo momento in poi in Occidente si richiese a dirigenti, banchieri e uomini politici e di legge di indossare abiti scuri per attestare al mondo la proprie – vere o presunte - sobrietà e professionalità; tuttora la frase “è gradito l’abito scuro” corrisponde all’invito a preferire un abbigliamento serio e formale.   Nel XIX secolo anche i ceti popolari furono contagiati dal fenomeno del nero, pur con motivi per del tutto diversi: si sperava infatti  che questa tetra tonalità nascondesse la povertà delle stoffe logore, e desse una parvenza di dignità a chi era in fondo alla scala sociale; quest’usanza era talmente diffusa che dal 1857 una ditta inglese cominciò a produrre un corredo interamente nero adatto agli emigranti. Alle signore invece i colori erano permessi eccezion fatta  per la morte di un famigliare o del coniuge, occasione in cui i codici vestiari variavano a seconda del grado di parentela con la persona scomparsa e del tempo trascorso dalla morte: lutto stretto nei primi mesi, poi mezzo lutto  e fine del lutto, periodi in cui ci si riappropriava gradualmente di tinte più vivaci e di gioielli via via più importanti. Lo sviluppo tecnologico e la nascita dei coloranti artificiali permettevano ormai di ottenere infinite nuance, e forse anche per questo dalla seconda metà del secolo si attivò la produzione specializzata di interi guardaroba adatti alle occasioni del cordoglio che comprendevano non solo vestiti ma anche borse, scarpe e cappelli e persino la biancheria, calze comprese.

A cavallo tra Ottocento e Novecento il tema della “Femme fatale”, la maliarda divoratrice di uomini e patrimoni ispirato dal Decadentismo, introdusse un nuovo utilizzo del nero in funzione erotica che non contagiò solo le ballerine di Can Can e le donne di facili costumi che - seducenti e ammiccanti – mostravano le gambe inguainate in sensualissime calze nere, ma anche le signore della borghesia bene, strette nell’abito da ballo color notte, che metteva in evidenza per contrasto l’avorio delle spalle, del seno e delle braccia. Il cinema appena nato diventò un vero e proprio veicolo di diffusione delle mode e lanciò a varie riprese attrici che impersonavano l’archetipo della seduttrice: dall’americana Theda Bara (anagramma dall’inglese arab death, ossia morte araba), la prima vamp dello schermo, a  Rita Hayworth, che nel film “Gilda” del 1946 esercitava il suo magnetico sex appeal completamente inguainata di nero. Durante gli anni Venti e Trenta il romanzo hard-boiled americano – che doveva il suo successo a scrittori come Dashiell Hammet e Raymond Chandler lanciò la figura della Dark lady  gelida e ingannatrice, di fronte alla cui oscura malvagità la vamp sembrava un giglio di campo;  nello stesso periodo questa visione pessimista e maschilista della femminilità fu ironicamente presa in giro sul quotidiano statunitense New Yorker dalle  vignette di Charles Addams, che prestò il suo cognome alle vicende della celeberrima famiglia, la quale assurse però a fama mondiale solo negli anni ’60, quando fu trasferita dalla carta al mezzo televisivo in una serie che sbeffeggiava comportamenti e fobie della borghesia americana di quei tempi. Tra tutti il personaggio di Morticia, altera, bizzarra ed elegante, anticipava di vent’anni la moda gotica vestendosi completamente di nero.
Nel dopoguerra irruppe sulla scena internazionale la protesta giovanile: nelle periferie, i ragazzi cominciarono ad aggregarsi in gruppi che cercavano la loro identità e autonomia rispetto al mondo degli adulti.  I segni di riconoscimento di queste band erano la passione per il rock’n’ roll, le moto  potenti e l’abbigliamento non convenzionale: fu ancora una volta il cinema ad appropriarsi del fenomeno e proporre – pur tra pesanti polemiche - la figura del ribelle Johnny “il selvaggio”, un Marlon Brando a cavallo di una Triumph Thunderbird 6T, in jeans e giubbotto di pelle nera, mitico capo mutuato dalla divisa degli aviatori americani. Da allora in poi il colore nero - contrassegno di un’estetica nichilista - fu adottato come manifestazione di opposizione alla società e rottura dalla tradizione: dagli Esistenzialisti, ai Punk degli anni Settanta col loro motto “no future”, ai Goth inglesi degli Ottanta – conosciuti in Italia come Dark - che introdussero la moda gotica ed erano portatori di uno stile assai più radicale che escluse qualsiasi tipo di colore, mentre il nero debordava dall’abito fino ai capelli, agli accessori, allo smalto per le unghie. 
Come contropartita la TV statunitense cercò di proporre una versione edulcorata degli insofferenti giovani delle periferie urbane, introducendo nella fortunata sitcom Happy days il personaggio di Fonzie,  un meccanico e latin lover anticonformista e venuto dalla strada – e per questo munito di regolamentare giubbotto nero - ma pur sempre legato da amicizia leale con un gruppo di studenti che provenivano da famiglie-bene. 

La ribellione è nera anche nel colore della pelle: nel 1968 durante i giochi olimpici di Città del Messico, due velocisti afroamericani - Tommie Smith e John Carlos – salirono sul podio per ritirare l'oro e il bronzo dei 200 metri, alzando il pugno calzato da un guanto nero, gesto che voleva portare all'attenzione del pubblico mondiale, il movimento statunitense delle Pantere nere, che lottava per i diritti dei loro connazionali emarginati.
Dal secolo scorso al giorno d’oggi il nero ha mantenuto l’ambivalenza che lo ha caratterizzato in passato: simbolo di mistero, malinconia, rifiuto e depressione, viene considerato demoniaco e mortifero se associato al conte Dracula, alle camicie nere dei fascisti, alle divise dei nazisti, all’attuale bandiera dello Stato islamico, ma diventa emblema di giustizia nel costume degli eroi della letteratura, del cinema e del fumetto come Zorro, Batman e Diabolik. Tinta positiva della decisione – si dice infatti “mettere nero su bianco” – attualmente ha perso
completamente la connotazione legata al lusso, pur se rimane indice di sobrietà, contegno e raffinatezza e per questo è a volte riproposto dagli stilisti: memorabile le collezioni di  Dolce & Gabbana - che alla fine degli anni Ottanta imposero il look della donna siciliana tradizionale e nerovestita ispirandosi a Monica Vitti ne:”La ragazza con la pistola” o del giapponese Yohji Yamamoto la cui scelta del nero è motivata dalla ricerca dell’essenza dell’abito. 
Fonti:
Michel Pastoureau, Nero. Storia di un colore, Ponte alle grazie
Bianco e nero, a cura di Grazietta Buttazzi e Alessandra Mottola Molfino, Ed. De Agostini


mercoledì 20 maggio 2015

La cosmesi egizia tra religione ed estetica


Una delle cause del fascino sempreverde dell'antico Egitto, è lo stato cristallizzato di bellezza - immune da vecchiaia, brutture e malattie - con cui i Faraoni, i notabili e le loro consorti hanno consegnato ai posteri le loro immagini dipinte e scolpite. Il dono dell'eterna giovinezza faceva parte delle delizie dell'aldilà: come nella loro vita terrena il defunto e la defunta non si facevano mancare la loro fornitura perenne di cosmetici contenuti in meravigliosi e raffinati beauty case che custodivano lo specchio in metallo lucidato, i vasetti, i balsamari e i cucchiai per le creme, le pinzette per depilarsi le sopracciglia e i bastoncini per il trucco.L'uso di questi prodotti è attestato nel paese fin dai tempi più antichi: nata come fenomeno religioso, la cosmesi si esprimeva negli interventi estetici sul corpo del Faraone, nei riti di iniziazione, nelle operazioni di imbalsamazione, nella decorazione giornaliera delle statue degli dei accompagnati sempre da formule e preghiere. Come è noto gli egiziani adoravano animali e piante che collegavano alla creazione, alla morte e alla resurrezione: truccarsi per loro non era un
semplice atto di abbellimento ma la premessa per l'invenzione di un corpo incorruttibile. la cosmesi era spesso associata alla medicina e alla magia, per cui non meraviglia che gli ingredienti per queste pratiche fossero spesso i medesimi, mentre le varie ricette - parzialmente giunte fino a noi grazie ai cosiddetti "papiri medici" - venivano elaborate salmodiando formule scaramantiche per propiziarsi l'aiuto degli dei e allontanare gli spiriti maligni.
Dobbiamo ad Erodoto la descrizione della fertilità del terra inondata dal Nilo da cui gli egizi traevano senza fatica piante e frutti: tra le moltissime specie a disposizione, particolarmente apprezzate per uso cosmetico erano quelle oleose e resinose ricavate da alcuni tipi di palma, e quelle intensamente profumate come l’incenso, la mirra, il cinnamomo, il ginepro e il coriandolo. Per le classi povere c’era invece l’olio di ricino, che – racconta Erodoto – era usato per le lampade e per ungere il corpo ed emetteva “un odore nauseabondo”. 
Nelle fantasiose ricette  rientrano anche animali magici: per prevenire i capelli bianchi una di queste suggerisce di “spalmarsi con un unguento fatto con la vertebra di un uccello mescolata a puro laudano, poi stendere la mano sul dorso di un nibbio vivo e appoggiare la testa su una rondine viva”. Il significato simbolico che gli egizi attribuivano a questo grazioso migratore, che spariva per luoghi misteriosi e puntualmente  ricompariva ogni anno, era collegato all’idea che portasse via con sé il male e la negatività. Tra le varie forme di magia, molto praticata era quella di tipo “simpatico”, secondo la credenza, arrivata fino a noi tramite l’omeopatia, che il simile cura il simile: così una curiosa ricetta per scurire le chiome mescola preparati ricavati da animali rigorosamente neri: sangue del corno di un bue, fegato d’asino, un girino e un topo.
 Nella vita di tutti i giorni la cura del corpo era fondamentale: in una popolazione che non superava un livello medio di vita di quarant’anni, si cercava a tutti i costi di combattere la vecchiaia e mantenere  il fisico in forma e in buona salute. Le sostanze cosmetiche e aromatiche e in generale tutto ciò che serviva ad abbellire erano talmente importanti che, per chi vi lavorava all’interno del  palazzo reale, erano perfino previste cariche onorifiche come quella di “soprastante e distributore di unguenti”. La bellezza  inoltre, era legata come oggi alla capacità di conquistare amore e avere rapporti sessuali soddisfacenti. Dal momento che la sessualità non era considerata un tabù ma semmai una promessa di rinascita, la seduzione femminile si concentrava oltre che sugli occhi, sui fianchi e il seno, le due zone del corpo collegate con la maternità; la donna ideale infatti era slanciata ma aveva i fianchi arrotondati e il ventre leggermente sporgente.
Gli egiziani abbienti e beneducati si detergevano al risveglio e prima e dopo i pasti principali; al posto del  sapone, ancora sconosciuto, si usava una pasta a base di cenere e di argilla, calcite, sale, miele, natron, un carbonato di sodio idrato che si estraeva in varie zone del paese. Lo si adoperava anche per l’igiene orale, sfregandoselo sui denti  con un ramoscello sfilacciato. Nonostante la cura della bocca e l’abitudine di masticare preparati dall’aroma molto intenso, l’alito degli egizi doveva essere piuttosto pesante visto che in molte mummie – come quella del novantenne  Ramesse II – si sono scoperti carie ed ascessi dentali. Poiché la pelle liscia era un importante elemento di seduzione, uomini e donne proseguivano la toilette rasandosi il corpo: il papiro Ebers riporta una curiosa ricetta depilatoria che consiste nel bollire e applicare sulla parte ossa di corvo carbonizzate, escrementi di mosca, olio, succo di sicomoro, gomma, melone. Dopo questi trattamenti ci si frizionava con prodotti a base di incenso o altre pomate odorose. Nel clima torrido e assolato dell’Egitto ci si ungeva la pelle per evitare rughe, screpolature o dolorose scottature. Questa pratica non era limitata alla sola classe agiata, ma estesa a tutta la popolazione: prova ne sia che sotto Ramesse III vi fu uno sciopero degli operai addetti alla necropoli di Tebe, perché non venivano consegnate le derrate alimentari, la birra e le scorte di oli solari.
Per le signore esistevano numerose maschere di bellezza, descritte dai papiri con termini miracolistici: l’olio di mandorle serviva “per trasformare un vecchio in giovane”, mentre per altre ricette analoghe si utilizzavano miele, natron rosso e sale marino mescolati in una massa omogenea; per schiarire l’epidermide e renderla perfetta era invece opportuno aggiungere polvere d’alabastro. L’invecchiamento era temutissimo e combattuto con preparati specifici contro le rughe a base di resine aromatiche, cera, olio ottenuto dall’albero di moringa e dal calamo, una pianta palustre le cui foglie profumano di limone. Un’altra formula per ringiovanire contiene: “fiele di bue, olio, gomma, uovo di struzzo in polvere, olio di pino, miele, farina di alabastro, latte materno, fritta egizia (un pigmento ottenuto mescolando tra loro rame e ossido di calcio). Resine, mucillagini, sostanze animali e vegetali venivano macinati in casa, pestati con cura in un mortaio e applicati sul viso ogni giorno. Per debellare la concorrenza di altre donne e distruggerne la bellezza si ricorreva alla magia nera: per far perdere i capelli a una rivale bisognava cuocere nel grasso un verme, una salamandra e una foglia di loto e spalmarle il tutto in testa, sempre che la malcapitata se lo lasciasse fare. Tra i cosmetici propriamente detti vi erano quelli per il viso e per il corpo, le labbra, le unghie e gli occhi. L’uso di sottolinearli era collegato al mito di Horus, il cui occhio era un potente amuleto che simboleggiava tra l’altro buona salute e prosperità. Questo tipo di trucco era adoperato fin dall’infanzia sia come protezione dalle malattie oftalmiche molto diffuse a causa del clima, del vento secco e degli insetti, sia contro le influenze negative del malocchio. Il nero del contorno – che con voce araba chiamiamo kohl - era ricavato da sostanze oggi considerate tossiche, come la galena e l’antimonio mescolate a grasso animale, resine e linfa di sicomoro, mentre il verde dell’ombretto era ottenuto dalla malachite polverizzata.
Per il trucco del resto del corpo si adoperavano altri coloranti: le guance e la bocca erano dipinte con ocra rossa, le unghie con l’henné. Il tutto era posto sotto la protezione di varie divinità tra cui  il brutto e deforme nano Bes – rappresentato su oggetti di uso domestico e sui vasi per cosmetici – incaricato di proteggere madri e neonati dagli spiriti maligni che lui scacciava facendo smorfie e mostrando la lingua.

Fonti:
Giuliano Imperiali, L’antica medicina egizia, Xenia, 1995
Enrichetta Leospo, Mario Tosi, La donna nell’antico Egitto, Giunti, 1997
Paolo Rovesti, alla ricerca dei cosmetici perduti, Blow-up, Venezia, 1975

mercoledì 15 aprile 2015

Abito alla costituzione, fibbie alla Bastiglia, orecchini alla ghigliottina

Quando il marchese di Dreux-Brézé, gran cerimoniere di Luigi XVI di Francia, organizzò per
 il 5 maggio 1789 l’apertura degli Stati Generali – assemblea che rappresentava i tre ceti sociali del paese – escogitò l’idea di rimarcare le differenze di classe tra aristocratici, clero e cittadini comuni obbligando questi ultimi ad indossare un semplice abito nero, senza spada e senza ornamenti, a fronte delle sete, delle fodere dorate, dei gioielli, dei mantelli e dei pennacchi permessi agli altri. Il drammatico contrasto, voluto per far pesare ai cittadini la loro condizione di inferiorità, era lo specchio del sistema feudale a cui era sottoposto il paese: il 14 luglio dello stesso anno con la presa della Bastiglia ebbe inizio la Rivoluzione che, sul piano della moda, costituì una rottura radicale con l’Antico regime vestimentario.
Alla base del cambiamento di gusto ci fu il rigetto da parte della popolazione per tutto ciò che poteva anche lontanamente ricordare l’odiata aristocrazia: cipria e parrucche, busti e  sottogonne rigide sparirono dalla circolazione, mentre gli uomini adottarono calzoni lunghi al posto delle culottes, ossia le braghe sotto al ginocchio usate dalla nobiltà (il nome dei famosi sanculotti, i patrioti più radicali, derivava appunto dall’epiteto sans-culottes). Chi si azzardava a indossarle o ad ostentare sete, gioielli e sfarzose decorazioni, correva il rischio di essere identificato a vista come filo-monarchico e finire sotto la lama della ghigliottina.
Sembrerebbe ovvio che in un periodo così drammatico una questione frivola come il guardaroba dovesse essere messa nel dimenticatoio, ma ciò avvenne solo in parte, e anche nella situazione convulsa della Francia l’interesse per l’abbigliamento non si spense del tutto. Alcuni giornali di moda resistettero eroicamente e, pur evitando del tutto di menzionare le circostanze politiche, pubblicarono modelli femminili e maschili che vi si riferivano: abiti e cappelli patriottici coi colori di Parigi, il blu e il rosso, che sarebbero poi entrati nella bandiera francese e che ostentavano la coccarda “Alla nazione”; oppure vestiti “à la Constitution”, “à la Démocrate”, ai “Tre ordini” con evidente attinenza ai gruppi componenti gli Stati generali. Dopo la presa della Bastiglia, la riproduzione dell’antica fortezza che simboleggiava l’oppressione assolutista diventò un motivo ricorrente nella decorazione dei mobili, delle maniglie delle porte, e perfino dei bottoni e delle fibbie per scarpe, mentre si crearono gioielli in ferro con incastonati frammenti delle sue pietre. Le follie modaiole non si spensero nemmeno sotto il Terrore quando le signore à la page esibirono orecchini in ferro “alla ghigliottina” e ventagli decorati col funereo strumento di morte.
La ventata di libertà che travolse la Francia fece decadere gli odiosi regolamenti censori – allora diffusi in tutta Europa -  che vietavano alla gente di indossare ciò che desiderava, e le vesti non poterono più essere considerate uno spartiacque sociale. Di conseguenza l’8 Brumaio anno II, corrispondente al 29 ottobre 1793, la Convenzione emanò il seguente decreto: "Nessuna persona dell'uno o dell'altro sesso, potrà costringere alcun cittadino o cittadina a vestirsi in modo particolare, sotto pena di essere trattata come sospetta, o perseguita come perturbatrice della pubblica quiete; ognuno è libero di portare l'abito o gli accessori che preferisce”.
Un anno dopo, la caduta di Robespierre e la fine del Terrore, permisero alla cittadinanza entusiasta di mettere in pratica il suo desiderio di emancipazione modaiola e le vetrine dei negozi tornarono a riempirsi di merci. I francesi usciti di prigione o di ritorno dall’esilio si abbandonarono ai piaceri della vita; a costoro furono anche restituiti i beni confiscati dal governo rivoluzionario: approfittando del giro di fortuna gli scampati istituirono “I balli delle vittime”, riunioni danzanti a cui potevano intervenire solo coloro che avessero avuto almeno un parente ghigliottinato. Sebbene queste feste fossero disapprovate da molti, per coloro che intervennero dovettero costituire un momento di catarsi collettiva: i partecipanti erano abbigliati con emblemi luttuosi, mentre le signore, che avevano la testa rasata come le condannate a morte, indossavano un nastro rosso intrecciato sulla schiena, detto “Croisures à la victime” che doveva ricordare il taglio della testa.
La linea degli abiti si era andata modificando dall’inizio della Rivoluzione con l’affermazione di una moda che cercava la semplificazione e la leggerezza: ridotte in larghezza, le vesti  femminili non avevano più busti né armature interne ma solo una breve arricciatura ai fianchi, mentre cominciarono a preferirsi leggeri e chiari tessuti di mussola su cui portare una giacca o una redingote. Il nuovo stile sobrio e verticale è da collegarsi anche con la scoperta di Pompei ed Ercolano i cui scavi, iniziati a partire dal 1748, causarono in Europa una vera e propria mania per l'arte greco-romana e per la linearità delle vesti antiche, che si credevano bianche senza sapere che i colori con cui erano state dipinte le statue si erano completamente dilavati nei secoli.
In Francia, che dai tempi del re Sole era il centro mondiale di ogni tendenza, pioniere del nuovo gusto furono Juliette Recamier e Madame Tallien (detta nostra signora del Termidoro), tra le maggiori esponenti del jet - set parigino. Come loro, le donne che si vestivano "a l'antique" erano chiamate "Merveilleuse", mentre i loro azzimati compagni erano detti “Incroyable”; questi ultimi erano riconoscibili per i vestiti strapazzati dai colletti enormi, per i cravattoni che coprivano il mento come una sorta di “collare ortopedico”, per le calze colorate e attorcigliate alle caviglie, per i capelli lunghi che creavano un effetto – come si diceva allora – “a orecchie di cane”.
Tornando alla moda femminile, tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento si portò l’interpretazione dello stile greco fino agli estremi; forse a causa del processo di laicizzazione totale avviatosi con la Rivoluzione, o forse per un comprensibile bisogno di libertà dopo che il corpo era stato ingabbiato per secoli dal metallo, dal vimini e dalle stecche di balena, le donne iniziarono a spogliarsi indossando vesti trasparentissime sotto cui al massimo mettevano una calzamaglia color carne. Per un certo periodo per la signora alla moda fu un punto d’onore di non avere addosso più di due etti di indumenti, scarpe comprese. Tuttavia braccia scoperte, glutei in evidenza, scollature abissali anche d’inverno, promettevano raffreddori e polmoniti e diventarono il bersaglio dei caricaturisti e dei monelli in strada; la cosa andò avanti fino a quando Napoleone Bonaparte, ormai insediatosi, convinse la moglie Giuseppina di Beauharnais – il cui abbigliamento era ammirato e copiato dalla popolazione femminile - a indossare grandi e caldi scialli di cachemire indiano, cui seguì a breve il ritorno dei soprabiti. Cessata l’ondata rivoluzionaria, il corpo delle donne tornò a coprirsi in vista di una nuova definizione delle regole di moda, ormai dettate non dall’aristocrazia, ma dalla borghesia, nuova classe emergente dal conflitto.

Bibliografia:

domenica 22 febbraio 2015

Nobiltà e miseria negli abiti veneziani del Rinascimento

In un periodo compreso tra il 1558 e il 1562, Paolo Veronese fu chiamato ad affrescare la villa dei Barbaro - una delle più importanti famiglie patrizie di Venezia – da poco costruita da Palladio sulle colline trevigiane.  All’interno della sala dell’Olimpo il pittore rappresentò Giustiniana Giustinian, moglie di Marcantonio Barbaro, con la vecchia nutrice, entrambe affacciate a un finto balcone secondo il gusto rinascimentale della prospettiva pittorica. Due donne, due classi sociali diverse, seppur unite nello stesso riquadro forse per il rapporto affettivo che legava la nobildonna all’anziana domestica; ma l’abbinamento nobiltà - servitù, fa altresì risaltare la sontuosa bellezza perlacea della Giustinian in confronto alla scura e grinzosa semplicità della sua compagna, più bassa di statura e piegata verso la padrona mentre l’altra, eretta, si presenta in tutta la sua maestà in una sala, forse non a caso, intitolata agli dei. L’analisi dei vestiti e delle sembianze ci consegna non solo la moda veneziana della seconda metà del Cinquecento, ma anche il divario che contrassegnava l’Italia delle classi privilegiate e popolari.
L’indipendenza di Venezia  e i suoi traffici mercantili con l’Oriente avevano permesso da molto tempo l’arrivo in città di merci o usanze sconosciute altrove, come quella di forarsi le orecchie per inserire orecchini a pendente, assoluta novità per quel tempo, e biasimati perché – osserva un cronista – bucavano i lobi “a guisa di more”. La Repubblica esprimeva inoltre una sua propria identità in fatto di moda femminile resistendo al contagio, proveniente dai territori confinanti dominati dalla Spagna, degli abiti irrigiditi e tesi sulla sottogonna a cerchi – la faldiglia -  chiusi alla gola dal collo a lattughe o gorgiera: i ritratti di Tiziano, del Veronese e del Tintoretto mostrano infatti signore in vesti talmente scollate che solo un velo o una reticella sembrano nascondere il seno. E’ questo il caso di Giustiniana Giustinian rappresentata dal Veronese con una veste azzurra dalla vita a punta, col busto aperto su un vasto décolleté e con la pancia leggermente sporgente secondo la moda del “panceron” o “falso ventre”proveniente dalla Francia.
Il tenore di vita dei veneziani del periodo era probabilmente il più elevato di tutta l’Europa, come si può notare dalle leggi Suntuarie emesse dal Senato che, con provvedimenti estremamente minuziosi, tentavano di limitare il lusso eccezion fatta per il Doge e la sua famiglia: vietati i drappi in oro e argento, i guanti ricamati in oro, limitate le pellicce di pregio e i gioielli. Concessi invece i tessuti in seta, purché in tinta unita.  Il controllo era effettuato da “Uffiziali” incaricati alla bisogna che ispezionavano le case e persino le camere delle partorienti, accoglievano e  incoraggiavano le denunce della servitù promettendo loro in cambio di incassare metà della multa. I divieti potevano essere infranti solo in occasioni particolari come la visita di sovrani stranieri: quando Enrico III di Valois visitò Venezia nel 1574, la Serenissima deliberò appunto la sospensione delle regole vestimentarie e il re fu accolto, con sua piacevole sorpresa, da duecento gentildonne in abito bianco  ricoperte di gioielli.

Importantissimi per la documentazione relativa al costume veneto del tardo Rinascimento sono le incisioni e le stampe contemporanee, spesso corredate dal testo. 
Tra queste opere la più ricca e completa è certamente costituita dal volume di Cesare Vecellio, pittore e cugino di Tiziano, edito nel 1590 col titolo “De gli habiti antichi et moderni di diverse parti del mondo”, una sorta di storia del costume completa di circa 400 incisioni xilografiche di abiti europei, africani e asiatici, con la descrizione e l’evoluzione nel tempo di ogni vestito senza escludere categorie, età e classi sociali. Riguardo gli abiti delle donne del popolo la loro forma era spesso dovuta sia all’intervento della legge sia alla pratica del lavoro: così sappiamo che in alcune città italiane si tentava di obbligarle all’uso di tessuti scuri che non raccolgono sporco. Non si deve dimenticare inoltre che i colori delle vesti antiche erano naturali e che il loro costo variava a seconda della rarità della materia prima e della simbologia che implicava: per fare un esempio non sarebbe stato possibile vedere addosso a una popolana lo scarlatto, tinta preziosa e adatta ai panni dei potenti.
Nelle incisioni del Vecellio le contadine portano comode gonne che mostrano la caviglia laddove le signore hanno lo strascico, la cui lunghezza poteva variare a seconda delle disponibilità di spesa: il Vecellio riserva  quello corto e meno costoso alle signore attempate e a quelle che lui chiama “dismesse”, ossia le patrizie decadute. L’artista non manca di documentare popolane coi cappelli di paglia a larghe tese, indispensabili per tutti coloro che stavano parecchio all’aperto; altro segno di divario sociale  tra umili e benestanti era costituito dalle scarpe prive di tacco, fossero pianelle, zoccoli o completamente chiuse. 
Sembra infatti che Venezia sia stata la città di nascita della pericolosa moda femminile dei “calcagnini”, detti in Francia “chopines”, un paio di calzature munite di suola altissima – fino a un braccio – che costringevano le signore rette su quei trampoli ad appoggiarsi a un paio di inservienti per non cadere. Non è chiara l’origine di queste curiose scarpe: secondo alcuni la strana foggia serviva per attraversare le calli e i campielli invasi  dall’acqua alta, mentre per altri erano state introdotte dai mariti gelosi per  costringere le mogli fedifraghe a stare in casa. Certo è che i calcagnini furono adottati con entusiasmo dalle meretrici, come testimoniano un’incisione de gli “Habiti” e una eseguita da Pietro Bertelli, autore di un altro testo sui costumi delle varie nazioni; curiosamente quest’ultimo ha nascosto la parte sottostante della figura di prostituta  sotto a un foglietto applicato sulla veste che alzandosi, mostra sia i calcagnini sia un paio di braghesse – o calzoni alla galeota – un indumento mascolino di moda a quell’epoca tra le signore italiane e ancor di più tra le cortigiane che li ritenevano uno strumento di seduzione.
Non sappiamo se Giustinana Giustinian indossasse il calcagnini, anche se non si può escludere che fosse calzata con un paio di pianelle con le zeppe, ma tornando all’affresco del Veronese ed esaminando gli abiti delle due donne, si può sottolineare il contrasto tra la veste di seta azzurra con lumeggiature in oro della patrizia e quella di lana scura della nutrice, la cui scollatura è coperta da un fazzoletto – detto a Venezia “fazuolo” – uno degli accessori caratteristici del vestire popolare femminile, che non poteva certo essere arricchito coi sontuosi colli di merletto di Burano, altra importante specialità lagunare. 
Ma oltre la ricchezza dell’abito, l’elemento che contrassegna maggiormente la differenza sociale dei personaggi è il colore della pelle e dei capelli: fin dall’epoca degli antichi egizi infatti le donne benestanti e non obbligate al lavoro all’aria aperta vennero rappresentate con pelle bianchissima, labbra rosse e guance rosate ad indicare lo stato privilegiato delle dame facoltose rispetto alle donne scure e abbronzate delle classi povere. La pelle candida spesso non era un dono di natura ma un artificio ottenuto coi cosmetici: in particolare ci si spalmava viso e scollatura con la biacca, un prodotto venefico composto di carbonato basico di piombo, utilizzato come fondo tinta fino alle soglie del XX secolo senza conoscerne bene gli effetti tossici. Celebri prototipi di bellezza femminile, le veneziane erano famose anche per i loro capelli biondo-rossi, che ottenevano esponendoli al sole per ore  e bagnandoli con la cosiddetta “bionda”, un preparato a base di acqua e cenere (la stessa liscivia con cui si lavavano i panni) guscio d’uovo, scorza d’arancio e zolfo, minerale che causava  l’ondulazione permanente dei capelli. Tuttavia la cosmesi antica non era solo tossica, ma ricorreva anche a rudimentali preparati a base di prodotti naturali: Giustiniana probabilmente dormiva come le sue concittadine applicandosi sul viso fettine crude di carne di vitella bagnate nel latte. Una maschera nutriente che certamente la grinzosa nutrice non usava. 


BibliografiaRosita levi Pizetsky: Il costume in Italia, Istituto editoriale italiano

http://venetocultura.org/la_moda_ai_tempi_della_serenissima.php