sabato 31 ottobre 2015

Il nero: metamorfosi di un colore

Linea e stile ma anche portabilità e praticità: così Coco Chanel intendeva la sua moda, indirizzata in particolare alle donne che lavoravano fuori casa, fenomeno che si stava diffondendo proprio negli anni Venti del secolo scorso.  Sorretta da questa filosofia, nel 1926 lanciò un rivoluzionario abito nero stretto e corto, il Tubino o - alla francese - “Petite robe noire”, ispirandosi ai grembiali delle istitutrici dell’orfanotrofio in cui aveva trascorso la sua infanzia. Un abito comodo, che slanciava e poteva essere indossato da tutte, ma che suscitò scandalo perché dall’epoca della regina Vittoria non si riteneva opportuno indossare quel colore funereo al di fuori delle occasioni di lutto. Rompendo con la tradizione Chanel riportò in auge un colore (o come alcuni pensano, un non-colore) che aveva conosciuto in passato tempi di gloria senza essere necessariamente associato alla perdita di una persona cara. Il capo, nella sua versione da sera, diventerà poi popolarissimo negli anni Sessanta quando fu indossato con disinvoltura da Audrey Hepburn nel film "Colazione da Tiffany" mentre mangiava un croissant di fronte alla vetrina della celebre gioielleria.
Nell’antichità i colori degli abiti avevano un impatto simbolico molto più incisivo che in epoca moderna, ma potevano anche suggerire – come del resto oggi - significati ambivalenti che dipendevano dai contesti culturali e dalle variabili storiche, senza escludere aspetti di interpretazione personale. Così, per fermarsi solo alla triade bianco, rosso e nero,  il primo era simbolo di purezza e onestà, ma poteva anche segnalare la lugubre presenza del defunto (i sudari dei cadaveri e i mantelli dei fantasmi), il secondo era associato alla vitalità e all’esercizio del potere oltre che alle tentazioni della carne (tra i vizi capitali orgoglio e lussuria si tingevano di rosso), mentre l’ultimo era stigmatizzato come colore della morte e del diavolo, ma anche della dignità e della serietà. Un esempio dell’ambiguità del nero nel Medioevo fu la diatriba che oppose  San Bernardo di Chiaravalle e i suoi monaci cistercensi dalla tonaca bianca, a quelli dell’abbazia di Cluny, che indossavano il saio nero dei benedettini: il Santo scrisse all’abate cluniacense rimproverandolo di imporre ai suoi la tinta del demonio, e siccome all’epoca queste cose erano prese terribilmente sul serio, ne nacque un litigio che durò una ventina d’anni. 

Come indicazione funebre il nero ha, nell’abbigliamento europeo, una storia abbastanza recente: i primi a portare un abito scuro in segno di lutto furono i romani, che si mettevano per l’occasione la “toga pulla”, un mantello di colore grigio o marrone. Nel Medioevo l’usanza fu dimenticata anche per motivi tecnici ed economici: ricavare questo tipo di tintura per colorare i drappi era tutt’altro che facile in epoca preindustriale. Tutti i coloranti erano infatti ottenuti dalla manipolazione di vegetali, alghe, licheni, molluschi e insetti dai quali si ricavava un liquido in cui venivano immersi i tessuti e il cui costo variava a seconda della rarità e disponibilità della materia prima. 
Tra le tinte più difficili c’era il nero, che poteva essere ottenuto dalla limatura di ferro, ma che sbiadiva facilmente degenerando in scialbe tonalità grigie e marroni. Molto più stabile e pregiata era la galla, un’escrescenza che si forma su alcune piante in seguito all’attacco di parassiti; l’alto prezzo del prodotto derivava dall’enorme numero di galle che serviva per colorare una pezza intera e dal fatto che le migliori venivano importate dall’Oriente o dall’Africa.
La moda del medioevo e di parte del rinascimento fu illuminata da una festa vivacissima di colori che non si interruppe nemmeno durante la Grande Peste che colpì l’Europa tra il 1346 e il 1350: a quei tempi il lutto era infatti caratterizzato da tinte scure tendenti al grigio, al verde o all’azzurro cupi.  Per le cariche civiche come magistrati e giureconsulti il nero simboleggiava autorità morale e probità: a Venezia ad esempio era imposto per legge ai medici, mentre a Bologna era il colore degli scolari dello Studio.  Al contrario in alcune città era proibito alle persone di dubbia reputazione, come indica uno Statuto di Modena che lo vieta espressamente alle meretrici, obbligate a indossare tinte sgargianti per distinguerle dalle “donne oneste”. L’eleganza composta e austera del costoso nero di galla affascinò anche il patriziato urbano e le corti signorili, dal momento che  monarchi come il duca di Borgogna Filippo il Buono - e dopo di lui del figlio Carlo il Temerario - non mancarono di inserirlo nei loro guardaroba. Bisogna tuttavia aspettare il XVI secolo perché tutto l’abbigliamento maschile europeo si tinga d’inchiostro. 
E’ un dato assodato nella storia della moda che chi vince le guerre e arriva al potere detta il proprio stile agli sconfitti: così quando Carlo V d’Asburgo si trovò a dominare addirittura tre continenti, la sua corte impose i propri codici d’abbigliamento di cui faceva parte anche il nero assoluto, considerato dall’imperatore un colore degno del suo rango e altresì simbolo della virtù della Temperanza, di cui nei suoi comportamenti si faceva interprete. Dalla corte di Spagna il nero valicò le Alpi e si estese anche all’Italia, dove Baldassarre  Castiglione, nel suo “Libro del Cortegiano” lo consiglia agli uomini del bel mondo per esprimere gravità e sussiego. L’avanzamento delle tecniche tintorie, della sartoria e della tessitura, permetteva ormai di differenziare vari tipi di nero in un gioco raffinatissimo di opacità e lucentezze, e moltissimi artisti cinquecenteschi, da Tiziano a Giovan Battista Moroni, da Lorenzo Lotto al Parmigianino rappresentarono i loro committenti in nero totale, interrotto solo dal biancheggiare dei colletti e dallo sfavillio delle catene d’oro.
Nella seconda metà dello stesso secolo il Concilio di Trento dette avvio alla Controriforma che volle dare una potente stretta all’opposizione di luterani e calvinisti al papato di Roma. Entrambi gli schieramenti abbracciarono una religiosità severa e rigorosa che respingeva con fermezza ogni frivola e peccaminosa pratica mondana:  nei paesi dove aveva vinto la Riforma protestante, come l’Olanda, la Scandinavia e parte della Germania, si predicò la mortificazione del corpo e l’uso di vesti tenebrose, mentre nelle zone rimaste cattoliche dell’Europa un buon cristiano doveva rinunciare alla sua vanità evitando i colori vivaci e vestendosi di scuro o addirittura di nero. Ritornarono in auge anche le medievali credenze sul Diavolo, che ormai si sospettava essere dappertutto: dal 1550 e per lungo tempo quest’idea incrementò il fenomeno della caccia alle streghe. Le descrizioni delle povere donne che, sotto tortura, ammettevano di aver partecipato a un sabba, riferiscono che in queste cerimonie notturne il corpo doveva essere tinto di fuliggine mentre gli abiti erano neri come il Demonio che interveniva in forma di caprone. 
Ancora tinte fosche nel Seicento, secolo di guerre, conflitti religiosi, epidemie e pestilenze e – come se non bastasse – oppresso da un brusco abbassamento della temperatura media che causò una pesante carestia;  la grave crisi sociale stimolò la riflessione sulla caducità della vita e la miseria fisica e morale dell’uomo. La morte era onnipresente e con essa cominciarono a codificarsi le pratiche del lutto nelle forme vestiarie, nell’arredamento e addirittura nei gioielli, tra tutti il “Memento mori”, un ciondolo prezioso a forma di bara con un piccolo cadavere incapsulato. E’ in questo periodo che Charles de Lorme, medico di Luigi XIII di Francia, ideò per coloro che curavano gli appestati una veste idrorepellente in tela cerata nera lunga fino ai piedi, comprensiva di guanti, scarpe e cappello a tesa larga. Il lugubre abito era completato da una maschera a becco d’uccello dentro la quale erano inserite sostanze aromatiche e una spugna imbevuta d’aceto che si credeva proteggessero dal morbo. La maschera del medico della peste è poi passata ai costumi carnevaleschi di Venezia. 
Nel XVII secolo Isaac Newton dimostrò che la luce bianca del sole era composta da uno spettro di sette colori: la scoperta estromise in qualche modo il bianco - e soprattutto il nero - dal sistema cromatico e assegnò a quest’ultimo il ruolo di non-colore, questione in parte aperta anche al giorno d’oggi. 
Col secolo dei Lumi, anche grazie all’influenza degli scritti di Rousseau e degli enciclopedisti, si ritornò alla natura e gli abiti si accesero di note primaverili, azzurri, verdi, blu, bianco e rosa, con le uniche eccezioni della Spagna e dell’Italia dove persino a Venezia, durante il lunghissimo periodo di carnevale, ci si copriva il capo con un cappuccio di pizzo nero, la Bautta, che accoppiata a una maschera bianca detta Larva restituiva un’idea d’inquietante mistero. All’Illuminismo si contrappose ben presto il Romanticismo, coi suoi eroi angosciati, malaticci e malinconici. Al volgere dell’Ottocento i romanzi gotici proclamarono il trionfo della morte e della notte, loro compagna, assieme all’inevitabile colore nero che dominerà tutto il secolo in particolare nella moda maschile. La tendenza – che sarebbe durata fino agli anni venti del Novecento -  era sostenuta anche dall’ascesa della borghesia dopo la Rivoluzione francese: la nuova classe dominante rispolverò la simbologia medievale di questo colore cercando di dimostrare con frac, redingotes, cappotti monocolore e senza fronzoli, l'onestà del buon cittadino teso al lavoro, al guadagno, alla compattezza
del nucleo famigliare.
Da questo momento in poi in Occidente si richiese a dirigenti, banchieri e uomini politici e di legge di indossare abiti scuri per attestare al mondo la proprie – vere o presunte - sobrietà e professionalità; tuttora la frase “è gradito l’abito scuro” corrisponde all’invito a preferire un abbigliamento serio e formale.   Nel XIX secolo anche i ceti popolari furono contagiati dal fenomeno del nero, pur con motivi per del tutto diversi: si sperava infatti  che questa tetra tonalità nascondesse la povertà delle stoffe logore, e desse una parvenza di dignità a chi era in fondo alla scala sociale; quest’usanza era talmente diffusa che dal 1857 una ditta inglese cominciò a produrre un corredo interamente nero adatto agli emigranti. Alle signore invece i colori erano permessi eccezion fatta  per la morte di un famigliare o del coniuge, occasione in cui i codici vestiari variavano a seconda del grado di parentela con la persona scomparsa e del tempo trascorso dalla morte: lutto stretto nei primi mesi, poi mezzo lutto  e fine del lutto, periodi in cui ci si riappropriava gradualmente di tinte più vivaci e di gioielli via via più importanti. Lo sviluppo tecnologico e la nascita dei coloranti artificiali permettevano ormai di ottenere infinite nuance, e forse anche per questo dalla seconda metà del secolo si attivò la produzione specializzata di interi guardaroba adatti alle occasioni del cordoglio che comprendevano non solo vestiti ma anche borse, scarpe e cappelli e persino la biancheria, calze comprese.

A cavallo tra Ottocento e Novecento il tema della “Femme fatale”, la maliarda divoratrice di uomini e patrimoni ispirato dal Decadentismo, introdusse un nuovo utilizzo del nero in funzione erotica che non contagiò solo le ballerine di Can Can e le donne di facili costumi che - seducenti e ammiccanti – mostravano le gambe inguainate in sensualissime calze nere, ma anche le signore della borghesia bene, strette nell’abito da ballo color notte, che metteva in evidenza per contrasto l’avorio delle spalle, del seno e delle braccia. Il cinema appena nato diventò un vero e proprio veicolo di diffusione delle mode e lanciò a varie riprese attrici che impersonavano l’archetipo della seduttrice: dall’americana Theda Bara (anagramma dall’inglese arab death, ossia morte araba), la prima vamp dello schermo, a  Rita Hayworth, che nel film “Gilda” del 1946 esercitava il suo magnetico sex appeal completamente inguainata di nero. Durante gli anni Venti e Trenta il romanzo hard-boiled americano – che doveva il suo successo a scrittori come Dashiell Hammet e Raymond Chandler lanciò la figura della Dark lady  gelida e ingannatrice, di fronte alla cui oscura malvagità la vamp sembrava un giglio di campo;  nello stesso periodo questa visione pessimista e maschilista della femminilità fu ironicamente presa in giro sul quotidiano statunitense New Yorker dalle  vignette di Charles Addams, che prestò il suo cognome alle vicende della celeberrima famiglia, la quale assurse però a fama mondiale solo negli anni ’60, quando fu trasferita dalla carta al mezzo televisivo in una serie che sbeffeggiava comportamenti e fobie della borghesia americana di quei tempi. Tra tutti il personaggio di Morticia, altera, bizzarra ed elegante, anticipava di vent’anni la moda gotica vestendosi completamente di nero.
Nel dopoguerra irruppe sulla scena internazionale la protesta giovanile: nelle periferie, i ragazzi cominciarono ad aggregarsi in gruppi che cercavano la loro identità e autonomia rispetto al mondo degli adulti.  I segni di riconoscimento di queste band erano la passione per il rock’n’ roll, le moto  potenti e l’abbigliamento non convenzionale: fu ancora una volta il cinema ad appropriarsi del fenomeno e proporre – pur tra pesanti polemiche - la figura del ribelle Johnny “il selvaggio”, un Marlon Brando a cavallo di una Triumph Thunderbird 6T, in jeans e giubbotto di pelle nera, mitico capo mutuato dalla divisa degli aviatori americani. Da allora in poi il colore nero - contrassegno di un’estetica nichilista - fu adottato come manifestazione di opposizione alla società e rottura dalla tradizione: dagli Esistenzialisti, ai Punk degli anni Settanta col loro motto “no future”, ai Goth inglesi degli Ottanta – conosciuti in Italia come Dark - che introdussero la moda gotica ed erano portatori di uno stile assai più radicale che escluse qualsiasi tipo di colore, mentre il nero debordava dall’abito fino ai capelli, agli accessori, allo smalto per le unghie. 
Come contropartita la TV statunitense cercò di proporre una versione edulcorata degli insofferenti giovani delle periferie urbane, introducendo nella fortunata sitcom Happy days il personaggio di Fonzie,  un meccanico e latin lover anticonformista e venuto dalla strada – e per questo munito di regolamentare giubbotto nero - ma pur sempre legato da amicizia leale con un gruppo di studenti che provenivano da famiglie-bene. 

La ribellione è nera anche nel colore della pelle: nel 1968 durante i giochi olimpici di Città del Messico, due velocisti afroamericani - Tommie Smith e John Carlos – salirono sul podio per ritirare l'oro e il bronzo dei 200 metri, alzando il pugno calzato da un guanto nero, gesto che voleva portare all'attenzione del pubblico mondiale, il movimento statunitense delle Pantere nere, che lottava per i diritti dei loro connazionali emarginati.
Dal secolo scorso al giorno d’oggi il nero ha mantenuto l’ambivalenza che lo ha caratterizzato in passato: simbolo di mistero, malinconia, rifiuto e depressione, viene considerato demoniaco e mortifero se associato al conte Dracula, alle camicie nere dei fascisti, alle divise dei nazisti, all’attuale bandiera dello Stato islamico, ma diventa emblema di giustizia nel costume degli eroi della letteratura, del cinema e del fumetto come Zorro, Batman e Diabolik. Tinta positiva della decisione – si dice infatti “mettere nero su bianco” – attualmente ha perso
completamente la connotazione legata al lusso, pur se rimane indice di sobrietà, contegno e raffinatezza e per questo è a volte riproposto dagli stilisti: memorabile le collezioni di  Dolce & Gabbana - che alla fine degli anni Ottanta imposero il look della donna siciliana tradizionale e nerovestita ispirandosi a Monica Vitti ne:”La ragazza con la pistola” o del giapponese Yohji Yamamoto la cui scelta del nero è motivata dalla ricerca dell’essenza dell’abito. 
Fonti:
Michel Pastoureau, Nero. Storia di un colore, Ponte alle grazie
Bianco e nero, a cura di Grazietta Buttazzi e Alessandra Mottola Molfino, Ed. De Agostini


mercoledì 20 maggio 2015

La cosmesi egizia tra religione ed estetica


Una delle cause del fascino sempreverde dell'antico Egitto, è lo stato cristallizzato di bellezza - immune da vecchiaia, brutture e malattie - con cui i Faraoni, i notabili e le loro consorti hanno consegnato ai posteri le loro immagini dipinte e scolpite. Il dono dell'eterna giovinezza faceva parte delle delizie dell'aldilà: come nella loro vita terrena il defunto e la defunta non si facevano mancare la loro fornitura perenne di cosmetici contenuti in meravigliosi e raffinati beauty case che custodivano lo specchio in metallo lucidato, i vasetti, i balsamari e i cucchiai per le creme, le pinzette per depilarsi le sopracciglia e i bastoncini per il trucco.L'uso di questi prodotti è attestato nel paese fin dai tempi più antichi: nata come fenomeno religioso, la cosmesi si esprimeva negli interventi estetici sul corpo del Faraone, nei riti di iniziazione, nelle operazioni di imbalsamazione, nella decorazione giornaliera delle statue degli dei accompagnati sempre da formule e preghiere. Come è noto gli egiziani adoravano animali e piante che collegavano alla creazione, alla morte e alla resurrezione: truccarsi per loro non era un
semplice atto di abbellimento ma la premessa per l'invenzione di un corpo incorruttibile. la cosmesi era spesso associata alla medicina e alla magia, per cui non meraviglia che gli ingredienti per queste pratiche fossero spesso i medesimi, mentre le varie ricette - parzialmente giunte fino a noi grazie ai cosiddetti "papiri medici" - venivano elaborate salmodiando formule scaramantiche per propiziarsi l'aiuto degli dei e allontanare gli spiriti maligni.
Dobbiamo ad Erodoto la descrizione della fertilità del terra inondata dal Nilo da cui gli egizi traevano senza fatica piante e frutti: tra le moltissime specie a disposizione, particolarmente apprezzate per uso cosmetico erano quelle oleose e resinose ricavate da alcuni tipi di palma, e quelle intensamente profumate come l’incenso, la mirra, il cinnamomo, il ginepro e il coriandolo. Per le classi povere c’era invece l’olio di ricino, che – racconta Erodoto – era usato per le lampade e per ungere il corpo ed emetteva “un odore nauseabondo”. 
Nelle fantasiose ricette  rientrano anche animali magici: per prevenire i capelli bianchi una di queste suggerisce di “spalmarsi con un unguento fatto con la vertebra di un uccello mescolata a puro laudano, poi stendere la mano sul dorso di un nibbio vivo e appoggiare la testa su una rondine viva”. Il significato simbolico che gli egizi attribuivano a questo grazioso migratore, che spariva per luoghi misteriosi e puntualmente  ricompariva ogni anno, era collegato all’idea che portasse via con sé il male e la negatività. Tra le varie forme di magia, molto praticata era quella di tipo “simpatico”, secondo la credenza, arrivata fino a noi tramite l’omeopatia, che il simile cura il simile: così una curiosa ricetta per scurire le chiome mescola preparati ricavati da animali rigorosamente neri: sangue del corno di un bue, fegato d’asino, un girino e un topo.
 Nella vita di tutti i giorni la cura del corpo era fondamentale: in una popolazione che non superava un livello medio di vita di quarant’anni, si cercava a tutti i costi di combattere la vecchiaia e mantenere  il fisico in forma e in buona salute. Le sostanze cosmetiche e aromatiche e in generale tutto ciò che serviva ad abbellire erano talmente importanti che, per chi vi lavorava all’interno del  palazzo reale, erano perfino previste cariche onorifiche come quella di “soprastante e distributore di unguenti”. La bellezza  inoltre, era legata come oggi alla capacità di conquistare amore e avere rapporti sessuali soddisfacenti. Dal momento che la sessualità non era considerata un tabù ma semmai una promessa di rinascita, la seduzione femminile si concentrava oltre che sugli occhi, sui fianchi e il seno, le due zone del corpo collegate con la maternità; la donna ideale infatti era slanciata ma aveva i fianchi arrotondati e il ventre leggermente sporgente.
Gli egiziani abbienti e beneducati si detergevano al risveglio e prima e dopo i pasti principali; al posto del  sapone, ancora sconosciuto, si usava una pasta a base di cenere e di argilla, calcite, sale, miele, natron, un carbonato di sodio idrato che si estraeva in varie zone del paese. Lo si adoperava anche per l’igiene orale, sfregandoselo sui denti  con un ramoscello sfilacciato. Nonostante la cura della bocca e l’abitudine di masticare preparati dall’aroma molto intenso, l’alito degli egizi doveva essere piuttosto pesante visto che in molte mummie – come quella del novantenne  Ramesse II – si sono scoperti carie ed ascessi dentali. Poiché la pelle liscia era un importante elemento di seduzione, uomini e donne proseguivano la toilette rasandosi il corpo: il papiro Ebers riporta una curiosa ricetta depilatoria che consiste nel bollire e applicare sulla parte ossa di corvo carbonizzate, escrementi di mosca, olio, succo di sicomoro, gomma, melone. Dopo questi trattamenti ci si frizionava con prodotti a base di incenso o altre pomate odorose. Nel clima torrido e assolato dell’Egitto ci si ungeva la pelle per evitare rughe, screpolature o dolorose scottature. Questa pratica non era limitata alla sola classe agiata, ma estesa a tutta la popolazione: prova ne sia che sotto Ramesse III vi fu uno sciopero degli operai addetti alla necropoli di Tebe, perché non venivano consegnate le derrate alimentari, la birra e le scorte di oli solari.
Per le signore esistevano numerose maschere di bellezza, descritte dai papiri con termini miracolistici: l’olio di mandorle serviva “per trasformare un vecchio in giovane”, mentre per altre ricette analoghe si utilizzavano miele, natron rosso e sale marino mescolati in una massa omogenea; per schiarire l’epidermide e renderla perfetta era invece opportuno aggiungere polvere d’alabastro. L’invecchiamento era temutissimo e combattuto con preparati specifici contro le rughe a base di resine aromatiche, cera, olio ottenuto dall’albero di moringa e dal calamo, una pianta palustre le cui foglie profumano di limone. Un’altra formula per ringiovanire contiene: “fiele di bue, olio, gomma, uovo di struzzo in polvere, olio di pino, miele, farina di alabastro, latte materno, fritta egizia (un pigmento ottenuto mescolando tra loro rame e ossido di calcio). Resine, mucillagini, sostanze animali e vegetali venivano macinati in casa, pestati con cura in un mortaio e applicati sul viso ogni giorno. Per debellare la concorrenza di altre donne e distruggerne la bellezza si ricorreva alla magia nera: per far perdere i capelli a una rivale bisognava cuocere nel grasso un verme, una salamandra e una foglia di loto e spalmarle il tutto in testa, sempre che la malcapitata se lo lasciasse fare. Tra i cosmetici propriamente detti vi erano quelli per il viso e per il corpo, le labbra, le unghie e gli occhi. L’uso di sottolinearli era collegato al mito di Horus, il cui occhio era un potente amuleto che simboleggiava tra l’altro buona salute e prosperità. Questo tipo di trucco era adoperato fin dall’infanzia sia come protezione dalle malattie oftalmiche molto diffuse a causa del clima, del vento secco e degli insetti, sia contro le influenze negative del malocchio. Il nero del contorno – che con voce araba chiamiamo kohl - era ricavato da sostanze oggi considerate tossiche, come la galena e l’antimonio mescolate a grasso animale, resine e linfa di sicomoro, mentre il verde dell’ombretto era ottenuto dalla malachite polverizzata.
Per il trucco del resto del corpo si adoperavano altri coloranti: le guance e la bocca erano dipinte con ocra rossa, le unghie con l’henné. Il tutto era posto sotto la protezione di varie divinità tra cui  il brutto e deforme nano Bes – rappresentato su oggetti di uso domestico e sui vasi per cosmetici – incaricato di proteggere madri e neonati dagli spiriti maligni che lui scacciava facendo smorfie e mostrando la lingua.

Fonti:
Giuliano Imperiali, L’antica medicina egizia, Xenia, 1995
Enrichetta Leospo, Mario Tosi, La donna nell’antico Egitto, Giunti, 1997
Paolo Rovesti, alla ricerca dei cosmetici perduti, Blow-up, Venezia, 1975

mercoledì 15 aprile 2015

Abito alla costituzione, fibbie alla Bastiglia, orecchini alla ghigliottina

Quando il marchese di Dreux-Brézé, gran cerimoniere di Luigi XVI di Francia, organizzò per
 il 5 maggio 1789 l’apertura degli Stati Generali – assemblea che rappresentava i tre ceti sociali del paese – escogitò l’idea di rimarcare le differenze di classe tra aristocratici, clero e cittadini comuni obbligando questi ultimi ad indossare un semplice abito nero, senza spada e senza ornamenti, a fronte delle sete, delle fodere dorate, dei gioielli, dei mantelli e dei pennacchi permessi agli altri. Il drammatico contrasto, voluto per far pesare ai cittadini la loro condizione di inferiorità, era lo specchio del sistema feudale a cui era sottoposto il paese: il 14 luglio dello stesso anno con la presa della Bastiglia ebbe inizio la Rivoluzione che, sul piano della moda, costituì una rottura radicale con l’Antico regime vestimentario.
Alla base del cambiamento di gusto ci fu il rigetto da parte della popolazione per tutto ciò che poteva anche lontanamente ricordare l’odiata aristocrazia: cipria e parrucche, busti e  sottogonne rigide sparirono dalla circolazione, mentre gli uomini adottarono calzoni lunghi al posto delle culottes, ossia le braghe sotto al ginocchio usate dalla nobiltà (il nome dei famosi sanculotti, i patrioti più radicali, derivava appunto dall’epiteto sans-culottes). Chi si azzardava a indossarle o ad ostentare sete, gioielli e sfarzose decorazioni, correva il rischio di essere identificato a vista come filo-monarchico e finire sotto la lama della ghigliottina.
Sembrerebbe ovvio che in un periodo così drammatico una questione frivola come il guardaroba dovesse essere messa nel dimenticatoio, ma ciò avvenne solo in parte, e anche nella situazione convulsa della Francia l’interesse per l’abbigliamento non si spense del tutto. Alcuni giornali di moda resistettero eroicamente e, pur evitando del tutto di menzionare le circostanze politiche, pubblicarono modelli femminili e maschili che vi si riferivano: abiti e cappelli patriottici coi colori di Parigi, il blu e il rosso, che sarebbero poi entrati nella bandiera francese e che ostentavano la coccarda “Alla nazione”; oppure vestiti “à la Constitution”, “à la Démocrate”, ai “Tre ordini” con evidente attinenza ai gruppi componenti gli Stati generali. Dopo la presa della Bastiglia, la riproduzione dell’antica fortezza che simboleggiava l’oppressione assolutista diventò un motivo ricorrente nella decorazione dei mobili, delle maniglie delle porte, e perfino dei bottoni e delle fibbie per scarpe, mentre si crearono gioielli in ferro con incastonati frammenti delle sue pietre. Le follie modaiole non si spensero nemmeno sotto il Terrore quando le signore à la page esibirono orecchini in ferro “alla ghigliottina” e ventagli decorati col funereo strumento di morte.
La ventata di libertà che travolse la Francia fece decadere gli odiosi regolamenti censori – allora diffusi in tutta Europa -  che vietavano alla gente di indossare ciò che desiderava, e le vesti non poterono più essere considerate uno spartiacque sociale. Di conseguenza l’8 Brumaio anno II, corrispondente al 29 ottobre 1793, la Convenzione emanò il seguente decreto: "Nessuna persona dell'uno o dell'altro sesso, potrà costringere alcun cittadino o cittadina a vestirsi in modo particolare, sotto pena di essere trattata come sospetta, o perseguita come perturbatrice della pubblica quiete; ognuno è libero di portare l'abito o gli accessori che preferisce”.
Un anno dopo, la caduta di Robespierre e la fine del Terrore, permisero alla cittadinanza entusiasta di mettere in pratica il suo desiderio di emancipazione modaiola e le vetrine dei negozi tornarono a riempirsi di merci. I francesi usciti di prigione o di ritorno dall’esilio si abbandonarono ai piaceri della vita; a costoro furono anche restituiti i beni confiscati dal governo rivoluzionario: approfittando del giro di fortuna gli scampati istituirono “I balli delle vittime”, riunioni danzanti a cui potevano intervenire solo coloro che avessero avuto almeno un parente ghigliottinato. Sebbene queste feste fossero disapprovate da molti, per coloro che intervennero dovettero costituire un momento di catarsi collettiva: i partecipanti erano abbigliati con emblemi luttuosi, mentre le signore, che avevano la testa rasata come le condannate a morte, indossavano un nastro rosso intrecciato sulla schiena, detto “Croisures à la victime” che doveva ricordare il taglio della testa.
La linea degli abiti si era andata modificando dall’inizio della Rivoluzione con l’affermazione di una moda che cercava la semplificazione e la leggerezza: ridotte in larghezza, le vesti  femminili non avevano più busti né armature interne ma solo una breve arricciatura ai fianchi, mentre cominciarono a preferirsi leggeri e chiari tessuti di mussola su cui portare una giacca o una redingote. Il nuovo stile sobrio e verticale è da collegarsi anche con la scoperta di Pompei ed Ercolano i cui scavi, iniziati a partire dal 1748, causarono in Europa una vera e propria mania per l'arte greco-romana e per la linearità delle vesti antiche, che si credevano bianche senza sapere che i colori con cui erano state dipinte le statue si erano completamente dilavati nei secoli.
In Francia, che dai tempi del re Sole era il centro mondiale di ogni tendenza, pioniere del nuovo gusto furono Juliette Recamier e Madame Tallien (detta nostra signora del Termidoro), tra le maggiori esponenti del jet - set parigino. Come loro, le donne che si vestivano "a l'antique" erano chiamate "Merveilleuse", mentre i loro azzimati compagni erano detti “Incroyable”; questi ultimi erano riconoscibili per i vestiti strapazzati dai colletti enormi, per i cravattoni che coprivano il mento come una sorta di “collare ortopedico”, per le calze colorate e attorcigliate alle caviglie, per i capelli lunghi che creavano un effetto – come si diceva allora – “a orecchie di cane”.
Tornando alla moda femminile, tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento si portò l’interpretazione dello stile greco fino agli estremi; forse a causa del processo di laicizzazione totale avviatosi con la Rivoluzione, o forse per un comprensibile bisogno di libertà dopo che il corpo era stato ingabbiato per secoli dal metallo, dal vimini e dalle stecche di balena, le donne iniziarono a spogliarsi indossando vesti trasparentissime sotto cui al massimo mettevano una calzamaglia color carne. Per un certo periodo per la signora alla moda fu un punto d’onore di non avere addosso più di due etti di indumenti, scarpe comprese. Tuttavia braccia scoperte, glutei in evidenza, scollature abissali anche d’inverno, promettevano raffreddori e polmoniti e diventarono il bersaglio dei caricaturisti e dei monelli in strada; la cosa andò avanti fino a quando Napoleone Bonaparte, ormai insediatosi, convinse la moglie Giuseppina di Beauharnais – il cui abbigliamento era ammirato e copiato dalla popolazione femminile - a indossare grandi e caldi scialli di cachemire indiano, cui seguì a breve il ritorno dei soprabiti. Cessata l’ondata rivoluzionaria, il corpo delle donne tornò a coprirsi in vista di una nuova definizione delle regole di moda, ormai dettate non dall’aristocrazia, ma dalla borghesia, nuova classe emergente dal conflitto.

Bibliografia:

domenica 22 febbraio 2015

Nobiltà e miseria negli abiti veneziani del Rinascimento

In un periodo compreso tra il 1558 e il 1562, Paolo Veronese fu chiamato ad affrescare la villa dei Barbaro - una delle più importanti famiglie patrizie di Venezia – da poco costruita da Palladio sulle colline trevigiane.  All’interno della sala dell’Olimpo il pittore rappresentò Giustiniana Giustinian, moglie di Marcantonio Barbaro, con la vecchia nutrice, entrambe affacciate a un finto balcone secondo il gusto rinascimentale della prospettiva pittorica. Due donne, due classi sociali diverse, seppur unite nello stesso riquadro forse per il rapporto affettivo che legava la nobildonna all’anziana domestica; ma l’abbinamento nobiltà - servitù, fa altresì risaltare la sontuosa bellezza perlacea della Giustinian in confronto alla scura e grinzosa semplicità della sua compagna, più bassa di statura e piegata verso la padrona mentre l’altra, eretta, si presenta in tutta la sua maestà in una sala, forse non a caso, intitolata agli dei. L’analisi dei vestiti e delle sembianze ci consegna non solo la moda veneziana della seconda metà del Cinquecento, ma anche il divario che contrassegnava l’Italia delle classi privilegiate e popolari.
L’indipendenza di Venezia  e i suoi traffici mercantili con l’Oriente avevano permesso da molto tempo l’arrivo in città di merci o usanze sconosciute altrove, come quella di forarsi le orecchie per inserire orecchini a pendente, assoluta novità per quel tempo, e biasimati perché – osserva un cronista – bucavano i lobi “a guisa di more”. La Repubblica esprimeva inoltre una sua propria identità in fatto di moda femminile resistendo al contagio, proveniente dai territori confinanti dominati dalla Spagna, degli abiti irrigiditi e tesi sulla sottogonna a cerchi – la faldiglia -  chiusi alla gola dal collo a lattughe o gorgiera: i ritratti di Tiziano, del Veronese e del Tintoretto mostrano infatti signore in vesti talmente scollate che solo un velo o una reticella sembrano nascondere il seno. E’ questo il caso di Giustiniana Giustinian rappresentata dal Veronese con una veste azzurra dalla vita a punta, col busto aperto su un vasto décolleté e con la pancia leggermente sporgente secondo la moda del “panceron” o “falso ventre”proveniente dalla Francia.
Il tenore di vita dei veneziani del periodo era probabilmente il più elevato di tutta l’Europa, come si può notare dalle leggi Suntuarie emesse dal Senato che, con provvedimenti estremamente minuziosi, tentavano di limitare il lusso eccezion fatta per il Doge e la sua famiglia: vietati i drappi in oro e argento, i guanti ricamati in oro, limitate le pellicce di pregio e i gioielli. Concessi invece i tessuti in seta, purché in tinta unita.  Il controllo era effettuato da “Uffiziali” incaricati alla bisogna che ispezionavano le case e persino le camere delle partorienti, accoglievano e  incoraggiavano le denunce della servitù promettendo loro in cambio di incassare metà della multa. I divieti potevano essere infranti solo in occasioni particolari come la visita di sovrani stranieri: quando Enrico III di Valois visitò Venezia nel 1574, la Serenissima deliberò appunto la sospensione delle regole vestimentarie e il re fu accolto, con sua piacevole sorpresa, da duecento gentildonne in abito bianco  ricoperte di gioielli.

Importantissimi per la documentazione relativa al costume veneto del tardo Rinascimento sono le incisioni e le stampe contemporanee, spesso corredate dal testo. 
Tra queste opere la più ricca e completa è certamente costituita dal volume di Cesare Vecellio, pittore e cugino di Tiziano, edito nel 1590 col titolo “De gli habiti antichi et moderni di diverse parti del mondo”, una sorta di storia del costume completa di circa 400 incisioni xilografiche di abiti europei, africani e asiatici, con la descrizione e l’evoluzione nel tempo di ogni vestito senza escludere categorie, età e classi sociali. Riguardo gli abiti delle donne del popolo la loro forma era spesso dovuta sia all’intervento della legge sia alla pratica del lavoro: così sappiamo che in alcune città italiane si tentava di obbligarle all’uso di tessuti scuri che non raccolgono sporco. Non si deve dimenticare inoltre che i colori delle vesti antiche erano naturali e che il loro costo variava a seconda della rarità della materia prima e della simbologia che implicava: per fare un esempio non sarebbe stato possibile vedere addosso a una popolana lo scarlatto, tinta preziosa e adatta ai panni dei potenti.
Nelle incisioni del Vecellio le contadine portano comode gonne che mostrano la caviglia laddove le signore hanno lo strascico, la cui lunghezza poteva variare a seconda delle disponibilità di spesa: il Vecellio riserva  quello corto e meno costoso alle signore attempate e a quelle che lui chiama “dismesse”, ossia le patrizie decadute. L’artista non manca di documentare popolane coi cappelli di paglia a larghe tese, indispensabili per tutti coloro che stavano parecchio all’aperto; altro segno di divario sociale  tra umili e benestanti era costituito dalle scarpe prive di tacco, fossero pianelle, zoccoli o completamente chiuse. 
Sembra infatti che Venezia sia stata la città di nascita della pericolosa moda femminile dei “calcagnini”, detti in Francia “chopines”, un paio di calzature munite di suola altissima – fino a un braccio – che costringevano le signore rette su quei trampoli ad appoggiarsi a un paio di inservienti per non cadere. Non è chiara l’origine di queste curiose scarpe: secondo alcuni la strana foggia serviva per attraversare le calli e i campielli invasi  dall’acqua alta, mentre per altri erano state introdotte dai mariti gelosi per  costringere le mogli fedifraghe a stare in casa. Certo è che i calcagnini furono adottati con entusiasmo dalle meretrici, come testimoniano un’incisione de gli “Habiti” e una eseguita da Pietro Bertelli, autore di un altro testo sui costumi delle varie nazioni; curiosamente quest’ultimo ha nascosto la parte sottostante della figura di prostituta  sotto a un foglietto applicato sulla veste che alzandosi, mostra sia i calcagnini sia un paio di braghesse – o calzoni alla galeota – un indumento mascolino di moda a quell’epoca tra le signore italiane e ancor di più tra le cortigiane che li ritenevano uno strumento di seduzione.
Non sappiamo se Giustinana Giustinian indossasse il calcagnini, anche se non si può escludere che fosse calzata con un paio di pianelle con le zeppe, ma tornando all’affresco del Veronese ed esaminando gli abiti delle due donne, si può sottolineare il contrasto tra la veste di seta azzurra con lumeggiature in oro della patrizia e quella di lana scura della nutrice, la cui scollatura è coperta da un fazzoletto – detto a Venezia “fazuolo” – uno degli accessori caratteristici del vestire popolare femminile, che non poteva certo essere arricchito coi sontuosi colli di merletto di Burano, altra importante specialità lagunare. 
Ma oltre la ricchezza dell’abito, l’elemento che contrassegna maggiormente la differenza sociale dei personaggi è il colore della pelle e dei capelli: fin dall’epoca degli antichi egizi infatti le donne benestanti e non obbligate al lavoro all’aria aperta vennero rappresentate con pelle bianchissima, labbra rosse e guance rosate ad indicare lo stato privilegiato delle dame facoltose rispetto alle donne scure e abbronzate delle classi povere. La pelle candida spesso non era un dono di natura ma un artificio ottenuto coi cosmetici: in particolare ci si spalmava viso e scollatura con la biacca, un prodotto venefico composto di carbonato basico di piombo, utilizzato come fondo tinta fino alle soglie del XX secolo senza conoscerne bene gli effetti tossici. Celebri prototipi di bellezza femminile, le veneziane erano famose anche per i loro capelli biondo-rossi, che ottenevano esponendoli al sole per ore  e bagnandoli con la cosiddetta “bionda”, un preparato a base di acqua e cenere (la stessa liscivia con cui si lavavano i panni) guscio d’uovo, scorza d’arancio e zolfo, minerale che causava  l’ondulazione permanente dei capelli. Tuttavia la cosmesi antica non era solo tossica, ma ricorreva anche a rudimentali preparati a base di prodotti naturali: Giustiniana probabilmente dormiva come le sue concittadine applicandosi sul viso fettine crude di carne di vitella bagnate nel latte. Una maschera nutriente che certamente la grinzosa nutrice non usava. 


BibliografiaRosita levi Pizetsky: Il costume in Italia, Istituto editoriale italiano

http://venetocultura.org/la_moda_ai_tempi_della_serenissima.php



domenica 2 marzo 2014

Le ricette di Caterina Sforza tra cosmesi e superstizione

Prima della nascita delle moderne industrie cosmetiche dell’Ottocento e dell’apertura di negozi e grandi magazzini,  i prodotti di bellezza femminili erano pazientemente preparati in casa. Se durante il Medioevo le officine dei monasteri erano le depositarie di tradizioni  ereditate sia dal passato, sia dalla cultura araba, nel Rinascimento ogni famiglia abbiente conservava presso di sé libretti di “Secreti”, detti anche “Tesori” o “Tesoretti”,  in cui venivano trascritte non solo ricette per fare cosmetici tramandate di madre in figlia, ma anche per preparare medicine o prodotti per uso domestico come ravvivanti di colore dei tessuti, candele, antiparassitari e così via.  
Ne è un esempio il ricettario di Caterina Sforza (1463-1509) intitolato "Gli experimenti della excellentissima signora Caterina da Forlì". Questa donna straordinaria fu a lungo contessa di Imola e Forlì, che governò con pugno definito "virile" dai suoi contemporanei. La cura del governo nell'Italia turbolenta del Rinascimento, non le impedì di occuparsi della sua bellezza, di pratiche erboristiche, farmaceutiche e alchemiche, che appuntò in un manoscritto stilato parte in latino parte in volgare, scomparso alla sua morte, e poi ritrovato, ricopiato e dato alle stampe solo nel XIX secolo. 
Composto da 454 ricette sperimentate dalla contessa in laboratorio, molte con la dicitura "è provato", il documento è uno specchio dello stato delle conoscenze scientifiche alla fine del XV secolo: certamente pieno di retaggi di superstizioni medievali, presenta tuttavia intuizioni e rimedi che costituiscono il fondamento della moderna omeopatia, sulla base della formula "similia similibu curantur", il simile cura il simile.
La raccolta comprende varie categorie di preparati: una parte, quella che riguarda i veleni e gli inchiostri simpatici, rispecchia lo spirito rinascimentale di sospettosa rivalità fra i principi italiani e le loro crudeli lotte per il potere; ci sono poi gli studi alchemici sulla trasformazione dei metalli per il raggiungimento della pietra filosofale. Il gruppo più cospicuo è composto da ricette di medicina con le rispettive e lunghissime metodologie di preparazione, non solo per curare le malattie, ma anche per favorire la gravidanza e procurare l'aborto, aiutare il sonno, guarire dalla "melanconia", curare l'impotenza maschile, "far devenire strettissima la natura", aumentare il piacere sessuale. 
Tra i precetti spicca un anestetico, ricetta notevole se si pensa che all'epoca si operava senza tanti riguardi per il dolore del paziente, ma non nuova nella medicina europea, che utilizzava già prima del Mille "spugne soporifere" da far annusare all'ammalato prima dell'intervento. La composizione che Caterina riporta contine ingredienti antalgici - peraltro molto pericolosi - già dettati dalla famosa Scuola Medica Salernitana: oppio, succo di more acerbe, di foglie di mandragola, di edera, di cicuta, e altre piante.
Seguono poi 66 ricette per esaltare e preservare la bellezza del viso e del corpo divise in cosmetici, lozioni, creme, belletti, lisci, elisir e pomate; quest'ultimo gruppo doveva stare molto a cuore alla contessa, di cui non abbiamo un ritratto certo, ma che era descritta dai contemporanei come donna bellissima e che considerava il culto della propria estetica come un ideale di vita per cui valeva la pena spendere tempo e denaro. Caterina Sforza si dedicò ai suoi "experimenti" con costanza tutta la vita, intrattenendo una fitta corrispondenza con medici, speziali, studiosi, nobildonne e fattucchiere, ossia coloro che in epoca pre-scientifica erano preposti alla preparazione dei rimedi curativi.
Molti preparati servivano per "fare la faccia bianchissima et bella et colorita", per "far crescere li capelli", per "far venire li capelli rizzi", per "far li capelli biondi de colore de oro, per "far le mani bianche et belle tanto che pareranno de avorio"; il motivo dell’attenzione verso la pelle chiara e splendente che si ritrova in tutte le ricette cosmetiche antiche, è dovuto al desiderio di aderire a una schematizzazione estetica per cui una donna per essere bella doveva avere carnagione bianchissima,  labbra e guance rosse e figura dalle linee arrotondate, caratteristiche che, in una società fortemente classista, diversificavano le donne facoltose da quelle scure e magre delle classi povere.
Parecchie formulazioni sono legate per analogia cromatica: così il bianco ha il potere di schiarire la pelle grazie al bulbo del giglio, guscio d'uovo, piccione bianco distillato, raschiatura d'avorio. Altre giocano sull'etimologia: così la radice di celidonia, il cui nome deriva dalla parola greca "chelidon", che indica anche la rondine, produce un latte caustico che fa cadere i capelli, mentre per raggiungere lo stesso scopo Caterina propone una ricetta a base di rondini distillate. Del medesimo genere etimologico è l'uso del finocchio che rende acuta la vista (occhio fino). Per fare ricrescere le chiome la contessa suggerisce polvere di rane, lucertole e api essiccate al forno o, per una depilazione duratura della parte anteriore del cranio, come voleva la moda dell'epoca, l'applicazione sulla fronte di mastici vegetali, una lastra di piombo e pezze bagnate nel sangue di pistrello.
Più ragionevoli i prodotti per nutrire la pelle, che presentano un vero e proprio campionario di proteine: albume, olio, sego di agnello, di vitello e di maiale, olio di mandorle, farine vegetali. La signora di Forlì conosceva anche i segreti per fare pezzette "de Levante" con le quali le donne si arrossavano le guance. La tintura era costituita da allume di rocca, calce viva e brasile, ossia il legno di "Caesalpinia echinata", detto anche Pernambuco, che si usava anche per tingere i tessuti; nel testo si raccomanda di togliere la calce quando la pelle comincia ad arrossarsi senza rendersi conto che il fenomeno costituisce l'inizio di una pericolosa infiammazione. Non c'è da meravigliarsi, stante le conoscenze scientifiche dell'epoca, dell'uso cosmetico di altri prodotti come la cerussa e il litargirio, chiamato da Dioscoride Pedanio (medico e farmacista greco, 40-90 d.C.) "spuma d'argento", derivati dal piombo ed usati fin dall'antichità per schiarire la carnagione. Che fossero pericolosi lo si sapeva, ma solo se ingeriti; non ci si rendeva conto delle problematiche tossiche relative all'assorbimento attraverso gli strati cutanei.
La più famosa tra le ricette di Caterina è l'Acqua celeste che, come dice l'autrice,"è de tanta virtù che li vecchi fa devenir giovani et se fosse in età di 85 anni lo farà devenir de aparentia de anni 35, fa de morto vivo cioè se al infermo morente metti in bocca un gozzo de dicta aqua, pur che inghiottisce, in spazio di 3 pater noster, ripiglierà fortezza et con l'aiuto de Dio guarirà." L'acqua celeste era una sorta di tonico che conteneva decine di ingredienti che venivano distillati e lavorati: ne facevano parte anche salvia, basilico, rosmarino, garofano, menta, noce moscata, sambuco, rose bianche e rosse, incenso, anice. Essa non è il primo caso di "acqua miracolosa": già alla fine del XIV secolo era stata distillata quella di Elisabetta Regina di Ungheria che, secondo quanto testimonia lei stessa, la fece guarir dalla gotta e le procurò alla veneranda età di 72 anni, una richiesta di matrimonio da parte del venticinquenne re di Polonia. Questi rimedi rispecchiano la ricerca plurisecolare dell'elisir di lunga vita, una leggendaria pozione capace di dare immortalità su cui vertevano gli studi degli alchimisti medievali, e che si riflette anche nell'uso da parte di Caterina della Teriaca, un farmaco a base di carne di vipera già noto nell'antica Grecia, contenente oltre a ciò decine di ingredienti, e che si pensava dotato di virtù magiche e capace di debellare qualsiasi malanno.
Si danno di seguito tre ricette di bellezza:
A far la facia alle donne bellissima et chiara
Piglia radice de yreos et radice de cucumeri asinini(1) lupini, circer biancho, fava, orzo, seme de melone, ancora polverizza sottilmente e impasta con aqua de melone, o vero aqua de orzo ben cotta et impastala in piccola forma et ponilo a seccare a lo aere, o vero al vento et come è secca polveriza de novo et piglia de quella polvere et con albume de ovo fa un linimento sopra la faccia et lassa star per un hora et poi lavala con semola et aqua tepida, che è mirabilissima.”
A fare li denti bianchissimi netti et belli et consolidar gengive perfettamente
Piglia osso de seppia, marmo bianco, passato de ciascuno da essi con una polvere de coralli once 3. Allume de rocco(2) brusato, mastice e canella once 1, e fa de queste cose sottilmente piste polvere poi componi con mele rosato quanto a te p’are bastante, che sia a modo de ontione, et con questo fregati benissimo li denti che veneranno bellissimi et eccelenti, et se incarnano et se conserva le gengive optimamente.(3) 
A fare le mammelle piccole et dure alle donne
piglia zusverde tanta quantità che faccia una scodella de succo, et aceto bianco più forte tu puoi et componi lo succo con aceto, poi bagna ditte pezze di canovaccio in ditta aqua et siano beni bagnati et poni sopra el petto et abbi doi tazzette di vetrio sopra le pezze che vadano sopra alle tecte, et muta spesso poi lega con una fascia longa, più stretto che poi sofferire, et cusì farai piccole dure et el petto bello, mentre tu fai questo la domina sia casta.
1 - "Ecballium elaterium", cucurbitacea endemica nel bacino del Mediterraneo
2 - Allume di rocca, solfato doppio di alluminio e potassi, anticamente usato per fissare la tintura dei colori per tessuti e per fabbricare cosmetici.
3 - La ricetta farebbe inorridire qualsiasi dentista del giorno d'oggi, perchè a base di polveri abrasive dannosissime per lo smalto, anticamente utilizzate per rendere candidi i denti.

Bibliografia:
Elio Caruso, Ricette d'amore e di bellezza di Caterina Sforza. Signora di Forlì e di Imola, Società editrice il Ponte Vecchio, Cesena, 2009
Paolo Rovesti, Alla ricerca dei cosmetici perduti, Marsilio editore, Venezia, 1975
Roberto Salvadori, Il dolore, cenni storici, Hyroniche edizioni telematiche

martedì 11 giugno 2013

Conquistatori e conquistati: le guerre e la moda

"Grecia capta ferum victorem cepit",  "La Grecia conquistata conquistò il feroce vincitore": l'allocuzione delle Epistole di Orazio può ben designare i rapporti che esistono tra le guerre di conquista e gli scambi culturali. Continua infatti il poeta: "E le arti portò nel Lazio agreste". Dal 146 a.C. anno della conquista romana della Grecia, iniziò un flusso inarrestabile di opere d'arte, che affascinarono Roma fino al punto che possederne una collezione si trasformò in  una vera e propria malattia. Il gusto greco influenzò il severo gusto latino e cambiò radicalmente usanze e costumi: mentre molte professioni come precettori, fornai, barbieri furono esercitate da greci, gli abiti, specie quelli femminili, si adeguarono al gusto ellenistico e diventarono più leggeri, drappeggiati e sbuffanti, ad imitazione del chitone. Né quella della Grecia fu l'unica guerra di conquista che determinò una mutazione radicale della moda: dai Galli i romani presero le braghe, mentre dai Persiani mutuarono le maniche e le coloratissime sete, particolarmente invise presso i più conservatori, perché espressione di effeminata eleganza contraria al rude spirito della Roma arcaica. 
Durante tutto il Medioevo, il costume militare influenzò quello civile: nel guardaroba maschile e in parte anche in quello femminile, si affermarono giubbetti imbottiti e cotte, ossia abiti coloratissimi privi di maniche, che in battaglia venivano indossati sopra la maglia di ferro. 
La guerra è sempre stata veicolo di informazioni trasmesse da popoli ad altri popoli, con la conseguente imitazione di usi e costumi della potenza dominata o dominante, e la sparizione o quanto meno l'attenuazione di tradizioni secolari e identità nazionali. Facendo un salto di diversi secoli rispetto ai tempi dei latini, la conquista dell'Italia da parte di Carlo V d'Asburgo, determinò una vera e propria colonizzazione culturale del paese. Nel 1521 Carlo occupò Milano, nel 1525 sconfisse l'alleanza dei Francesi, della Serenissima, di Genova, di Firenze e dello Stato pontificio; nel 1527 fece saccheggiare Roma dai lanzichenecchi. Erano costoro soldati mercenari, addobbati con vesti coloratissime tagliate a strisce: la curiosa moda, che rovinava metri e metri di tessuto, passò al vestito civile sia maschile che femminile. La corte dell'imperatore invece, aveva adottato per l'uomo il nero totale, interrotto solo dalla gorgiera e dai polsini  bianchi. 
L'austerità spagnola, si manifestò anche nell'irrigidimento ieratico delle forme, delle gonne a campana tese sul verdugale, nei busti appuntiti sul davanti, nei colli a gorgiera che isolavano la testa come se fosse appoggiata su un grande piatto. Queste mode passarono in Lombardia e da lì nel resto d'Italia, con eccezione forse della Repubblica di Venezia. 
Dal 1618 al 1648, l'Europa fu dilaniata dalla Guerra dei trent'anni, che si risolse col rafforzamento della Francia e il predominio della Svezia sulle nazioni del mar Baltico. Il lunghissimo conflitto ebbe effetti anche sulla moda: il costume militare influenzò quello civile con fogge che a volte cadevano nel ridicolo: in Italia, dove non si era combattuta alcuna guerra, si videro per strada gentiluomini che si vestivano come soldati e bravacci, e ne assumevano le pose spavalde. Giustacuori attraversati da una larga fusciacca, spadoni che penzolavano dal fianco tintinnando ad ogni passo, e grandi stivali di cuoio pesante col tacco. 
Dopo la metà del secolo la Francia diventò la potenza più importante d'Europa trasformando Parigi nella capitale dello stile internazionale. La corte del re Sole dettò legge in fatto di moda. Ogni evento, anche bellico, si trasformò in occasione per sfoggiare capi d'abbigliamento che nulla avevano a che fare con esso, se non alla lontana: nel 1692 durante la battaglia di Steinkerque, gli ufficiali francesi convocati in gran fretta, non ebbero tempo di annodare le loro cravatte a fiocco, ma ne infilarono le estremità dentro l'asola della giacca. La vittoria del maresciallo di Luxemburg sul principe d'Orange, fu commemorata a corte con questo nuovo modo di indossare la lunga sciarpa di batista bianca, che passò poi al resto d'Europa. In Italia, la cravatta fu chiamata col nome storpiato di "Stiricherche".
Nel XVIII secolo altre guerre influenzarono il costume aristocratico: alla corte di Francia le gentildonne indossarono "vesti alla Turca" che di turco avevano solo il nome, che richiamavano appunto la guerra tra Turchia e Russia. Il matrimonio della principessa polacca Maria Leszczynska con Luigi XV, e la guerra di secessione polacca, determinarono la moda della "Polonaise", in Italia "veste alla polacca", un abito rialzato sul dietro con cordoni nascosti e che mostrava la gonna sottostante.
Il predominio della Francia sulla moda continuò anche nell'Ottocento. Le signore della borghesia italiana, mentre il paese era impegnato nelle guerre risorgimentali, copiavano i figurini parigini che venivano proposti nei giornali illustrati. Unico tra le altre testate, il Corriere delle dame, pubblicato con enorme successo a Milano a partire dal 1804, adottò coraggiosamente un'impronta patriottica che non era eguagliata da nessuna rivista femminile, e oltre ai figurini di moda, inserì anche brevi resoconti degli avvenimenti politici. La crescente insofferenza verso il dominio austriaco, causò l'introduzione di piccole simbologie liberali applicate al costume, come il "cappello alla calabrese" , il "cappello all'italiana" o il "cappello alla puritana" ispirato all'Ernani, opera di Verdi di chiaro significato liberale. La polizia austriaca cercò con scarso successo di reprimere il fenomeno: un decreto del barone Torresani Lanzelfeld, comminava l'arresto immediato per tutti coloro che avessero indossato gli accessori incriminati.  Dopo alcuni tentativi di lanciare un "costume italiano" per ambo i sessi, a partire dal 1847, e sull'onda dell'effimera cacciata degli Austriaci dal Lombardo-Veneto, si dichiarò l'ostracismo alle stoffe germaniche in favore del velluto prodotto  dei telai di Genova e Vaprio, di solida tradizione rinascimentale . Nell'aprile del 1848, il Corriere delle dame pubblica una tavola che illustra l'"abbigliamento patriottico con sciarpa tricolore", dotato di un giacchino verde con profilature bianche e rosse, ed una sciarpa in vita del colore della bandiera. 
Il XX secolo è stato attraversato dalle guerre più sanguinose della storia dell'umanità. Gli effetti immediati sulla moda sono stati il razionamento di materiali come lana e cuoio, che venivano utilizzati per fabbricare le divise dei soldati al fronte.  I Futuristi erano favorevoli alla guerra "sola igiene del mondo" e nel 1914 Giacomo Balla pubblicò perfino un manifesto dell'Abito futurista antineutrale: "aggressivo, semplice e comodo, igienico,  gioioso, illuminante, volitivo, asimmetrico, di breve durata, variabile". Nel 1919 Thayath, che faceva parte del gruppo, inventò la tuta, un abito da uomo da indossare tutti i giorni e a un solo pezzo, munito di tasche e cintura. La tuta non riscosse un grande successo, e dovranno arrivare gli anni Settanta per vederla indossata dai giovani; tuttavia fu adottata con favore in campo militare, e fu realizzata in tecnobile e materiali sintetici. 
La seconda Guerra mondiale, dette un notevole impulso alla produzione di abiti e accessori militari che sarebbero poi passati ai civili. La britannica Royal Navy introdusse nelle dotazioni dei marinai il Montgomery, un  cappotto di buon panno pesante a mezza coscia, dotato di cappuccio e alamari, chiamato così perchè era regolarmente indossato dal generale Bernard Law Montgomery. Nello stesso periodo, anche il generale Dwight David "Ike" Eisenhower, dette il suo particolare contributo al costume civile con un comodo giubbetto in panno che terminava in vita con una fascia.
Tuttavia, il più famoso elemento innovativo introdotto nelle operazioni belliche, furono i Ray-ban, gli occhiali nati nel 1920 su impulso del luogotenente John Arthur Mac Cready, il quale voleva proteggersi gli occhi dopo una traversata dell'Atlantico in pallone aereostatico, che gli aveva causato molti problemi. La ditta Bausch & Lomb, fu incaricata di inventare un modello altamente protettivo, panoramico ed elegante: nacque così l'occhiale a goccia, che copriva interamente l'incavo dell'occhio, e che fu depositato nel 1937 dopo anni di sperimentazioni. Il prototipo fu inizialmente chiamato "Ray-ban anti-glare", ossia antiriflesso. Era dotato di una montatura leggerissima, in lega placcata in oro e plastica trasparente, e due lenti di vetro minerale. Adottato dall'United states air force, l'occhiale venne poi ribattezzato "ray-ban aviator". In seguito arrivarono alcune modifiche: il ponte parasole e un cerchietto al centro delle lenti che veniva usato come porta sigaretta, mentre negli anni Quaranta fu anche brevettata la "gradient mirror lens", una lente sfumata che abbinava la protezione dalla luce e con una maggiore messa a fuoco degli oggetti.
Dopo la seconda guerra mondiale, grazie alla partecipazione dell'America alle operazioni belliche, irruppero in Europa le novità statunitensi, dirette principalmente ai giovani: i teen - agers  frequentavano posti di ritrovo come sale da ballo e coffee bar, dove si radunavano attorno al juke box, ballando il rock'n roll, che richiedeva abiti sciolti e facili da portare come blue jeans, maglioni, sneakers, ossia scarpe da ginnastica, e giubbotti, tra cui il chiodo in pelle usato dai motociclisti,  e successivamente il bomber. Proprio quest'ultimo capo, proveniente dalle divise militari, invase il mercato, perchè disponibile a poco prezzo sulle bancarelle dell'usato. Il bomber è un giubbotto impermeabile, evoluzione della giacca a vento dei piloti dei Royal Flying Corps; adoperato già durante la prima guerra mondiale per riscaldarsi nell'abitacolo aperto. Diventò di moda soprattutto durante gli anni Settanta e Ottanta, entrando a far parte dell'abbigliamento delle subculture giovanili. E' corto alla vita, piuttosto largo e con maniche abbondanti fermate al polso da un elastico, dotato di cerniera lampo e spesso di colore verde. 
Gli anni della contestazione videro un vero boom dell'abbigliamento militaresco per ragazzi e ragazze, che non esitarono ad indossare indumenti fino ad allora considerati esclusivamente maschili.  Inventato negli anni Dieci, il "Bulldog boots" era uno scarpone anfibio pesante con suola molto spessa e chiodata,  chiuso con dieci buchi per i lacci. In seguito fu ripreso da un medico tedesco, Klaus Maertens, che si era rotto un piede mentre sciava e desiderava calzature adeguate alla guarigione. Prodotti col marchio "Dr. Martens", gli anfibi avevano la suola ammortizzata con un ciuscinetto d'aria. 
Portati inizialmente dalle casalinghe tedesche per la loro comodità, si diffusero a tal punto che fu necessario vendere la licenza al mercato internazionale. Negli anni Cinquanta, la guerra di Corea contribuì alla loro diffusione con alcune varianti: la suola arrotondata, la fettuccia posteriore,  il motto "With Bouncing soles", a volte il color rosso ciliegia. Negli anni Sessanta i  Dr. Martens diventarono una componente fondamentale dell'abbigliamento dei gruppi giovanili, che indossandoli rivendicavano  la loro appartenenza al proletariato. Furono adottati dai mod prima, dagli Skinhead poi, che sceglievano modelli molto alti, con la punta rinforzata in acciaio, a volte perfino di misure più grandi del piede; cominciando a gettare una pubblicità negativa sull'impresa produttrice, specie dopo che era apparso un manifesto con un'anziana signora  sulla cui faccia era sovraimpressa la suola di uno stivale. Negli anni Novanta  i Dr. Martens furono indossati anche dai gruppi musicali "grunge", mentre i modelli finirono poi per diversificarsi a seconda dell'appartenenza politica

Bibliografia: 
Rosita levi Pizetsky: Storia del costume in Italia, volumi IV e V, Istituto editoriale italiano, Milano, 1966

Link:
http://it.wikipedia.org/wiki/Bomber
http://it.wikipedia.org/wiki/Ray-Ban