martedì 11 giugno 2013

Conquistatori e conquistati: le guerre e la moda

"Grecia capta ferum victorem cepit",  "La Grecia conquistata conquistò il feroce vincitore": l'allocuzione delle Epistole di Orazio può ben designare i rapporti che esistono tra le guerre di conquista e gli scambi culturali. Continua infatti il poeta: "E le arti portò nel Lazio agreste". Dal 146 a.C. anno della conquista romana della Grecia, iniziò un flusso inarrestabile di opere d'arte, che affascinarono Roma fino al punto che possederne una collezione si trasformò in  una vera e propria malattia. Il gusto greco influenzò il severo gusto latino e cambiò radicalmente usanze e costumi: mentre molte professioni come precettori, fornai, barbieri furono esercitate da greci, gli abiti, specie quelli femminili, si adeguarono al gusto ellenistico e diventarono più leggeri, drappeggiati e sbuffanti, ad imitazione del chitone. Né quella della Grecia fu l'unica guerra di conquista che determinò una mutazione radicale della moda: dai Galli i romani presero le braghe, mentre dai Persiani mutuarono le maniche e le coloratissime sete, particolarmente invise presso i più conservatori, perché espressione di effeminata eleganza contraria al rude spirito della Roma arcaica. 
Durante tutto il Medioevo, il costume militare influenzò quello civile: nel guardaroba maschile e in parte anche in quello femminile, si affermarono giubbetti imbottiti e cotte, ossia abiti coloratissimi privi di maniche, che in battaglia venivano indossati sopra la maglia di ferro. 
La guerra è sempre stata veicolo di informazioni trasmesse da popoli ad altri popoli, con la conseguente imitazione di usi e costumi della potenza dominata o dominante, e la sparizione o quanto meno l'attenuazione di tradizioni secolari e identità nazionali. Facendo un salto di diversi secoli rispetto ai tempi dei latini, la conquista dell'Italia da parte di Carlo V d'Asburgo, determinò una vera e propria colonizzazione culturale del paese. Nel 1521 Carlo occupò Milano, nel 1525 sconfisse l'alleanza dei Francesi, della Serenissima, di Genova, di Firenze e dello Stato pontificio; nel 1527 fece saccheggiare Roma dai lanzichenecchi. Erano costoro soldati mercenari, addobbati con vesti coloratissime tagliate a strisce: la curiosa moda, che rovinava metri e metri di tessuto, passò al vestito civile sia maschile che femminile. La corte dell'imperatore invece, aveva adottato per l'uomo il nero totale, interrotto solo dalla gorgiera e dai polsini  bianchi. 
L'austerità spagnola, si manifestò anche nell'irrigidimento ieratico delle forme, delle gonne a campana tese sul verdugale, nei busti appuntiti sul davanti, nei colli a gorgiera che isolavano la testa come se fosse appoggiata su un grande piatto. Queste mode passarono in Lombardia e da lì nel resto d'Italia, con eccezione forse della Repubblica di Venezia. 
Dal 1618 al 1648, l'Europa fu dilaniata dalla Guerra dei trent'anni, che si risolse col rafforzamento della Francia e il predominio della Svezia sulle nazioni del mar Baltico. Il lunghissimo conflitto ebbe effetti anche sulla moda: il costume militare influenzò quello civile con fogge che a volte cadevano nel ridicolo: in Italia, dove non si era combattuta alcuna guerra, si videro per strada gentiluomini che si vestivano come soldati e bravacci, e ne assumevano le pose spavalde. Giustacuori attraversati da una larga fusciacca, spadoni che penzolavano dal fianco tintinnando ad ogni passo, e grandi stivali di cuoio pesante col tacco. 
Dopo la metà del secolo la Francia diventò la potenza più importante d'Europa trasformando Parigi nella capitale dello stile internazionale. La corte del re Sole dettò legge in fatto di moda. Ogni evento, anche bellico, si trasformò in occasione per sfoggiare capi d'abbigliamento che nulla avevano a che fare con esso, se non alla lontana: nel 1692 durante la battaglia di Steinkerque, gli ufficiali francesi convocati in gran fretta, non ebbero tempo di annodare le loro cravatte a fiocco, ma ne infilarono le estremità dentro l'asola della giacca. La vittoria del maresciallo di Luxemburg sul principe d'Orange, fu commemorata a corte con questo nuovo modo di indossare la lunga sciarpa di batista bianca, che passò poi al resto d'Europa. In Italia, la cravatta fu chiamata col nome storpiato di "Stiricherche".
Nel XVIII secolo altre guerre influenzarono il costume aristocratico: alla corte di Francia le gentildonne indossarono "vesti alla Turca" che di turco avevano solo il nome, che richiamavano appunto la guerra tra Turchia e Russia. Il matrimonio della principessa polacca Maria Leszczynska con Luigi XV, e la guerra di secessione polacca, determinarono la moda della "Polonaise", in Italia "veste alla polacca", un abito rialzato sul dietro con cordoni nascosti e che mostrava la gonna sottostante.
Il predominio della Francia sulla moda continuò anche nell'Ottocento. Le signore della borghesia italiana, mentre il paese era impegnato nelle guerre risorgimentali, copiavano i figurini parigini che venivano proposti nei giornali illustrati. Unico tra le altre testate, il Corriere delle dame, pubblicato con enorme successo a Milano a partire dal 1804, adottò coraggiosamente un'impronta patriottica che non era eguagliata da nessuna rivista femminile, e oltre ai figurini di moda, inserì anche brevi resoconti degli avvenimenti politici. La crescente insofferenza verso il dominio austriaco, causò l'introduzione di piccole simbologie liberali applicate al costume, come il "cappello alla calabrese" , il "cappello all'italiana" o il "cappello alla puritana" ispirato all'Ernani, opera di Verdi di chiaro significato liberale. La polizia austriaca cercò con scarso successo di reprimere il fenomeno: un decreto del barone Torresani Lanzelfeld, comminava l'arresto immediato per tutti coloro che avessero indossato gli accessori incriminati.  Dopo alcuni tentativi di lanciare un "costume italiano" per ambo i sessi, a partire dal 1847, e sull'onda dell'effimera cacciata degli Austriaci dal Lombardo-Veneto, si dichiarò l'ostracismo alle stoffe germaniche in favore del velluto prodotto  dei telai di Genova e Vaprio, di solida tradizione rinascimentale . Nell'aprile del 1848, il Corriere delle dame pubblica una tavola che illustra l'"abbigliamento patriottico con sciarpa tricolore", dotato di un giacchino verde con profilature bianche e rosse, ed una sciarpa in vita del colore della bandiera. 
Il XX secolo è stato attraversato dalle guerre più sanguinose della storia dell'umanità. Gli effetti immediati sulla moda sono stati il razionamento di materiali come lana e cuoio, che venivano utilizzati per fabbricare le divise dei soldati al fronte.  I Futuristi erano favorevoli alla guerra "sola igiene del mondo" e nel 1914 Giacomo Balla pubblicò perfino un manifesto dell'Abito futurista antineutrale: "aggressivo, semplice e comodo, igienico,  gioioso, illuminante, volitivo, asimmetrico, di breve durata, variabile". Nel 1919 Thayath, che faceva parte del gruppo, inventò la tuta, un abito da uomo da indossare tutti i giorni e a un solo pezzo, munito di tasche e cintura. La tuta non riscosse un grande successo, e dovranno arrivare gli anni Settanta per vederla indossata dai giovani; tuttavia fu adottata con favore in campo militare, e fu realizzata in tecnobile e materiali sintetici. 
La seconda Guerra mondiale, dette un notevole impulso alla produzione di abiti e accessori militari che sarebbero poi passati ai civili. La britannica Royal Navy introdusse nelle dotazioni dei marinai il Montgomery, un  cappotto di buon panno pesante a mezza coscia, dotato di cappuccio e alamari, chiamato così perchè era regolarmente indossato dal generale Bernard Law Montgomery. Nello stesso periodo, anche il generale Dwight David "Ike" Eisenhower, dette il suo particolare contributo al costume civile con un comodo giubbetto in panno che terminava in vita con una fascia.
Tuttavia, il più famoso elemento innovativo introdotto nelle operazioni belliche, furono i Ray-ban, gli occhiali nati nel 1920 su impulso del luogotenente John Arthur Mac Cready, il quale voleva proteggersi gli occhi dopo una traversata dell'Atlantico in pallone aereostatico, che gli aveva causato molti problemi. La ditta Bausch & Lomb, fu incaricata di inventare un modello altamente protettivo, panoramico ed elegante: nacque così l'occhiale a goccia, che copriva interamente l'incavo dell'occhio, e che fu depositato nel 1937 dopo anni di sperimentazioni. Il prototipo fu inizialmente chiamato "Ray-ban anti-glare", ossia antiriflesso. Era dotato di una montatura leggerissima, in lega placcata in oro e plastica trasparente, e due lenti di vetro minerale. Adottato dall'United states air force, l'occhiale venne poi ribattezzato "ray-ban aviator". In seguito arrivarono alcune modifiche: il ponte parasole e un cerchietto al centro delle lenti che veniva usato come porta sigaretta, mentre negli anni Quaranta fu anche brevettata la "gradient mirror lens", una lente sfumata che abbinava la protezione dalla luce e con una maggiore messa a fuoco degli oggetti.
Dopo la seconda guerra mondiale, grazie alla partecipazione dell'America alle operazioni belliche, irruppero in Europa le novità statunitensi, dirette principalmente ai giovani: i teen - agers  frequentavano posti di ritrovo come sale da ballo e coffee bar, dove si radunavano attorno al juke box, ballando il rock'n roll, che richiedeva abiti sciolti e facili da portare come blue jeans, maglioni, sneakers, ossia scarpe da ginnastica, e giubbotti, tra cui il chiodo in pelle usato dai motociclisti,  e successivamente il bomber. Proprio quest'ultimo capo, proveniente dalle divise militari, invase il mercato, perchè disponibile a poco prezzo sulle bancarelle dell'usato. Il bomber è un giubbotto impermeabile, evoluzione della giacca a vento dei piloti dei Royal Flying Corps; adoperato già durante la prima guerra mondiale per riscaldarsi nell'abitacolo aperto. Diventò di moda soprattutto durante gli anni Settanta e Ottanta, entrando a far parte dell'abbigliamento delle subculture giovanili. E' corto alla vita, piuttosto largo e con maniche abbondanti fermate al polso da un elastico, dotato di cerniera lampo e spesso di colore verde. 
Gli anni della contestazione videro un vero boom dell'abbigliamento militaresco per ragazzi e ragazze, che non esitarono ad indossare indumenti fino ad allora considerati esclusivamente maschili.  Inventato negli anni Dieci, il "Bulldog boots" era uno scarpone anfibio pesante con suola molto spessa e chiodata,  chiuso con dieci buchi per i lacci. In seguito fu ripreso da un medico tedesco, Klaus Maertens, che si era rotto un piede mentre sciava e desiderava calzature adeguate alla guarigione. Prodotti col marchio "Dr. Martens", gli anfibi avevano la suola ammortizzata con un ciuscinetto d'aria. 
Portati inizialmente dalle casalinghe tedesche per la loro comodità, si diffusero a tal punto che fu necessario vendere la licenza al mercato internazionale. Negli anni Cinquanta, la guerra di Corea contribuì alla loro diffusione con alcune varianti: la suola arrotondata, la fettuccia posteriore,  il motto "With Bouncing soles", a volte il color rosso ciliegia. Negli anni Sessanta i  Dr. Martens diventarono una componente fondamentale dell'abbigliamento dei gruppi giovanili, che indossandoli rivendicavano  la loro appartenenza al proletariato. Furono adottati dai mod prima, dagli Skinhead poi, che sceglievano modelli molto alti, con la punta rinforzata in acciaio, a volte perfino di misure più grandi del piede; cominciando a gettare una pubblicità negativa sull'impresa produttrice, specie dopo che era apparso un manifesto con un'anziana signora  sulla cui faccia era sovraimpressa la suola di uno stivale. Negli anni Novanta  i Dr. Martens furono indossati anche dai gruppi musicali "grunge", mentre i modelli finirono poi per diversificarsi a seconda dell'appartenenza politica

Bibliografia: 
Rosita levi Pizetsky: Storia del costume in Italia, volumi IV e V, Istituto editoriale italiano, Milano, 1966

Link:
http://it.wikipedia.org/wiki/Bomber
http://it.wikipedia.org/wiki/Ray-Ban

lunedì 3 giugno 2013

Christian Dior

La Seconda guerra mondiale aveva fermato l’haute couture. Nella Parigi invasa dai tedeschi molte case di moda avevano chiuso, mentre le esigenze del conflitto richiedevano di utilizzare il materiale tessile, la lana, il cotone,  il cuoio, il metallo per le uniformi dei soldati al fronte.  La moda degli anni Quaranta si era quindi fossilizzata su una linea molto semplice e quasi mascolina, con gonne al ginocchio, spalle quadrate e tessuti sintetici. Prima del conflitto la Francia era al centro della moda, ma approfittando della difficile situazione, industrie di abbigliamento britanniche e americane avevano dato sensibili segnali d'indipendenza. Alla fine della guerra bisognava recuperare il terreno perduto, e fu sempre da Parigi che venne l’idea di una nuova linea che doveva rompere radicalmente col passato. 
Nato nel 1905, Christian Dior veniva da una famiglia agiata che aveva subito un crollo economico: per sbarcare il lunario, il giovane aveva aperto un piccolo negozio di antiquariato, disegnando poi suoi schizzi di moda per il settimanale "Le Figaro illustré"; in seguito lavorò con Robert Piguet e, dopo la guerra, con Lucien Lelong e, più occasionalmente, con Pierre Balmain.
Era innamorato dell'arte e frequentava regolarmente musei e pinacoteche. Nel 1946 si mise in proprio, aiutato dall’industriale tessile Marcel Boussac che vedeva nelle idee del coutourier un ottimo affare per le sue aziende tessili; Dior infatti aveva in mente un’immagine di donna raffinata e romantica, ispirata ai periodi della “grandeur” francese. Puntò quindi per la sua prima collezione sulla perfezione del taglio, sul lusso e la quantità dei tessuti, sull’accurata rifinitura dei particolari e soprattutto sul rimodellamento della figura femminile. 
Per la sua prima sfilata, il coutourier mandò una sua emissaria a New York, per annunciare l'apertura della sua casa di moda, ma la donna fu respinta dai compratori che le dissero che ormai avevano i loro disegnatori. Lei tornò da Dior dicendogli che gli americani non sarebbero venuti.  Ma il sarto non si scoraggiò: gli abiti furono preparati in gran segreto e sotto una tensione crescente: il giorno dell’apertura, fissato il 12 febbraio del 1947, fu presentata agli invitati una linea battezzata “Corolla”. Alla fine dell'evento, Dior dovette affacciarsi al balcone del suo atelier per mostrarsi ad una folla di donne osannanti. Quel giorno i quotidiani parigini erano in sciopero, e la notizia rimbalzò immediatamente negli Stati Uniti, dove la sfilata fu considerata talmente innovativa, che i 18 giornalisti americani presenti, si affrettarono a definirla “New look”. 
Aboliti d’un colpo le spalline, le gonne corte, le scarpe ortopediche, i vestiti esibivano un corpino attillassimo dalla vita molto sottile, le spalle rotonde e il seno modellato; dai fianchi,
diventati importanti, partiva una gonna tagliata a ruota oppure talmente larga da sembrare l’immensa corolla di un fiore, e lunga fino al polpaccio. Marcel Boussac era stato accontentato: le gonne Dior, dall'ampia crinolina in tulle, avevano bisogno di 15 metri di stoffa, mentre per gli abiti da sera ne occorrevano almeno 25. Come per gli vestiti delle bisnonne, Dior non aveva lesinato in accorgimenti nascosti per ottenere la forma voluta, inserendo un bustino detto guepière, piccoli pouf sui fianchi e telette rigide, così che la linea apparentemente morbida dei suoi vestiti era invece frutto di una sapiente costruzione architettonica. Né trascurava la stiratura dei vestiti che erano modellati con cura a colpi di ferro caldo. Aveva insomma recuperato l'antica perizia sartoriale del lavoro fatto interamente a mano. 
Mentre gli abiti da giorno erano accollati e con maniche tre quarti, quelli da sera erano romantici e al tempo stesso provocanti: ampia scollatura senza spalline e schiena scoperta, gonna immensa lunga fino ai piedi, e sulle spalle  nude una stola o un soprabito a mantello. I tessuti erano confezionati con un misto di fibre naturali e sintetiche, spesso nei prediletti colori bianco e nero. Dior si preoccupò anche degli accessori, che diventarono dettagli obbligatori per la sua nuova moda: guanti lunghi, cappello, borsetta e scarpe col tacco alto a "spillo", sciarpe portate in cintura, cravatte a fiocco annodate sotto al colletto. In quanto ai gioielli il couturier riportò in auge i fili di perle, che davano ai suoi vestiti un tocco di altera raffinatezza. 
Il New look fu accolto contemporaneamente da ovazioni e acerbe critiche: i suoi detrattori lo accusarono di aver inventato un modo di vestire antiquato, costoso e anacronistico. Infatti quando Dior si recò in America fu accolto da una folla di donne infuriate che recavano cartelli con scritte del tipo : “Bruciate Dior!” “Christian Dior vai a casa”. Tuttavia le accoglienze positive furono più delle proteste e il coutourier continuò imperterrito nel suo stile, diventando il vero nume della moda degli anni Cinquanta. Pur facendo abiti decisamente elitari, non perse di vista mercati più vasti, e nel 1949 aprì a New York una casa per la vendita di modelli all’ingrosso; aveva intuito che davanti alla moda si aprivano le immense prospettive economiche della produzione di serie. Vogue potè dichiarare che le collezioni parigine avevano aumentato il traffico attraverso l'Atlantico, con 250.000 persone che sbarcavano in Francia in una sola estate.
Dior aveva capito che per sostenere la propria immagine, la haute couture doveva essa stessa farsi spettacolo e creare una forte sensazione di attesa:  così, pur restando sostanzialmente fedele al suo stile, giocò sul clamore che aveva provocato l’allungamento degli orli delle gonne, sulla sorpresa del pubblico e sui dettagli della sfilata, provata e riprovata fin nei minimi particolari. 
Ogni anno fino alla sua morte, lanciò due collezioni stagionali, ognuna delle quali rendevano completamente superato il guardaroba femminile di qualche mese prima. Le sfilate presentavano poco meno di 200 modelli, attentamente calibrati tra capi facilmente vestibili e altri più spettacolari. Le aspettative del pubblico crescevano e le pagine sui giornali di moda si riempivano di notizie sulla lunghezza delle sottane. Per immaginare la tensione dell’epoca, bisogna dimenticare che oggi viviamo di abiti industriali, che l’esercito degli stilisti si è ormai allargato oltre i confini dell’Europa, che negli anni Cinquanta i magazzini d’abbigliamento non erano diffusi in modo capillare,  e infine che la moda giovane non si era ancora imposta alle masse. Le ragazze si vestivano ancora come le loro mamme e, modello in mano, si recavano dalla sartina per copiare le ultime tendenze.
Nel 1948 Dior lanciò le linee “Envol” e “zig–zag” disegnate con un’architettura decisamente asimmetrica. Impose inoltre l’ombrello e le ghette. Le giacche erano enormi piramidi, di lana per il giorno, di faille per la sera. Per l'autunno i cappotti erano abbottonati dietro, e le tasche erano spostate sui fianchi. Nello stesso anno realizzò il suo primo profumo al mughetto, "Diorissimo", che spruzzava generosamente sulle poltrone e la moquette del suo atelier. Nel 1949, ormai annoverato tra i cinque uomini più famosi del mondo, attirava a Parigi circa 25.000 visitatori ad ogni sua collezione: per quell’anno inventò la linee “Trompe l’oeil” a pannelli intercambiabili, con l'abito che dava la sensazione di movimento senza però avere volume. La linea “Mezzo secolo” invece, puntava su completi morbidi composti da una giacca blusante stretta in vita e da una gonna a matita, così stretta che che aveva bisogno di una taglio dietro perchè le signore potessero camminare.  I cappelli sembravano sfidare le leggi della natura, ed erano appoggiati a lato della testa, mentre l'ombrello era indispensabile per bilanciare le modelle che facevano fatica a sfilare in passerella. 
Nel 1950 nacque la linea “Verticale” in cui impose gonne strettissime o plissettate, anche per non scontentare i fabbricanti di tessuti: dal momento che si trattava di una collezione estiva, Vogue uscì con un articolo in cui dava consigli su come avere belle braccia:"nude come un piatto d'argento o come il muro di una chiesa". La rivista raccomandavano inoltre molta ginnastica e l'uso di fondotinta. Nello stesso autunno Dior presentò la linea “Obliqua”, con corsetti asimmetrici. Il 1951 fu l’anno delle linee “Ovale” con le spalle arrotondate e le maniche a raglan: la collezione fu un capolavoro di madame Margherita, prima sarta dell'atelier soprannominata "scultore in miniatura", perché sapeva usare magistralmente il ferro caldo per modellare il tessuto ed armonizzarlo col corpo umano.  Le maniche erano del tipo a raglan, mentre per i colletti e cappellini il coutourier si ispirò agli abiti cinesi, imitando i copricapo dei coolie. 
Per l'autunno fu la volta della linea “Princesse” con la vita che stava al suo posto senza essere enfatizzata dalla cintura, ma con una costruzione che dava l’illusione che fosse appoggiata sotto al seno. 
Negli anni Cinquanta la Maison Dior si espanse ulteriormente ed egli stesso si trovò a capo di un impero: dalla sessantina di dipendenti di cui disponeva nella sua prima casa di moda in rue Montaigne, aveva ormai più di mille collaboratori. Nel frattempo, la speranza che dopo la guerra si potesse vivere in un mondo migliore stava svanendo: il conflitto in Corea, la guerra fredda, la Cortina di ferro, stavano preoccupando l'opinione pubblica, mentre l’entusiasmo  che aveva portato alla creazione del New look si andava stemperando, al punto che gli abiti di lusso di Dior sembrarono anacronistici. Probabilmente per questo, le linee successive furono più sobrie e disciplinate, ed egli stesso affermò che la moda doveva acquistare più discrezione. 
Nel 1952, rimanendo fedele alle idee base del new look, Dior accorciò gli orli della gonna di 40/45 centimetri da terra: per quei tempi era un evento da prima pagina, che fece discutere tutti gli appassionati di moda. La nuova linea era a cupola, ossia con la gonna a barile, che per la sera spostava la parte rigonfia sul retro, con un evidente richiamo alla moda ottocentesca della tournoure. Nell'autunno del 1954 presentò la controversa linea H ispirandosi ai corsetti Tudor che spingevano in alto il seno. Si stava intanto aprendo un vivace dibattito con Coco Chanel che aveva appena riaperto la sua Maison e di lui diceva caustica: “addobba delle poltrone, non veste delle donne: l’eleganza è ridurre il tutto alla più chic, costosa, raffinata povertà”; e ancora: “La moda è diventata assurda, i couturier hanno dimenticato che ci sono delle donne dentro ai vestiti. 
La maggior parte delle donne si veste per gli uomini e desidera essere ammirata. Ma devono anche sapersi muovere, salire su un’automobile senza strappare le cuciture!”. I due sarti erano agli antipodi tuttavia Chanel non aveva torto. Dior ne prese atto e sempre ispirandosi alle lettere dell’alfabeto, inventò nel 1955 le linee A ed Y. La prima, che rivoluzionò la moda anticipando la linea a Sacco, aveva giacche tagliate sotto l’attaccatura della coscia o vestiti disegnati in modo da dare l’idea della prima lettera dell’alfabeto. Uno dei motivi dominanti di quel periodo, furono i grandi colli a V e le stole immense. Nelle ultime collezioni il couturier si andò staccando dai modelli molto attillati e non a caso le sue ultime proposte, basate sulla ricerca tematica del caftano e sull’abito-camicia morbidamente appoggiato ai fianchi, furono soprannominate “Libere” o a “Fuseau”.
Nel 1957, anno della sua ultima sfilata, Dior morì improvvisamente al Gran Hotel La pace di Montecatini dopo una partita di canasta. Nel 1958 Yves Saint Laurent, che da tre anni ne era diventato l’aiutante, prese in mano l’attività della Maison lanciando la linea Trapezio, che ebbe enorme successo. Dopo Saint Laurent, l’attività fu continuata da Marc Bohan, Gianfranco Ferrè e John Galliano.

Bibliografia: 
B. Keenan, Dior in Vogue, Condé Nast ed. 1981
E. Morini, Storia della moda.  XVIII – XX secolo, Skira, Milano, 2006
Guido Vergani, Dizionario della moda, Baldini Castoldi Dali, milano, 2010


I blue jeans

I blue jeans iniziarono la loro lunga storia nella zona di Genova, dove un'antica e consolidata tradizione tessile,che si basava sull'esportazione di manufatti liguri, costituiva una voce importante dell'economia locale. La parola jean deriva probabilmente dal francese Jean, e sta per "serge de Nimes", un tessuto pesante creato nel XVIII secolo. Blue jeans invece, è termine inglese che fa riferimento al "bleu de Genes", ossia blu di Genova. Gia nel XVI secolo tuttavia, nella città piemontese di Chieri, si produceva un fustagno blu che serviva a confezionare sacchi che dovevano coprire le merci portuali. I mercanti inglesi che facevano sosta nel porto, apprezzarono in modo particolare questa stoffa ligure, di discreta qualità e di modico prezzo. Il tessuto era colorato in blu  con la pianta dell'indaco, conosciuta volgarmente col nome di guado.
Nel 1853, un commerciante ebreo di origine bavarese, Levi Strauss, aprì a San Francisco un emporio che vendeva oggetti utili agli avventurieri impegnati nella corsa all'oro. Cominciò a confezionare anche abiti da lavoro, utilizzando tessuto per tende, che tuttavia si dimostrò poco resistente. 
Alla ricerca di un materiale più idoneo e robusto, Strauss iniziò a utilizzare il denim, con l'idea di approfittare della sempre maggior richiesta di abiti da lavoro nelle miniere, di coperture per i conestoga, ossia i carri dei pionieri, nonché di vele. Uno dei suoi clienti, il sarto Jacob Davis, diventò suo socio: i due idearono insieme  il primo vestito in jeans denim, inventando anche con grande successo la salopette. Gli abiti da loro creati avevano le doppie cuciture e molte tasche rinforzate da rivetti di rame, che ne diventeranno uno degli elementi caratteristici. Nel 1873 Strauss e Davis decisero di brevettare il loro tessuto.
I "genovesi" piacquero anche a Giuseppe Garibaldi, che li indossò assieme a molti dei suoi garibaldini durante lo sbarco dei Mille a Marsala. Oggi quei pantaloni sono conservati al Museo centrale del Risorgimento al Vittoriano.
Negli anni Cinquanta i jeans fecero il loro ingresso dirompente sugli schermi di Hollywood: nel film "Il selvaggio", Marlon Brando li accompagnava a un giubbotto di pelle nera, noto da noi come "chiodo". A cavallo di una  Triumph  Thunerbird 6T, l'attore impersonava il malessere giovanile di quegli anni, che si sfogava con comportamenti spacconi e aggressivi. Nel film "La valle dell'Eden" James Dean portava camicia denim e jeans, traducendo la frustrazione e al contempo la voglia di arrivare dei ragazzi americani. 
Grazie a questi film, i jeans cominciarono ad essere conosciuti oltre oceano, anche se in Europa chi li portava veniva vituperato come un pericoloso teppistello. Il successo mondiale arrivò negli anni Sessanta con la musica rock, quando le band che affollavano stadi e piazze li adottarono assieme a t-shirt coloratissime. Nel 1969 a Woodstock, si tenne il primo festival "di pace, musica e amore", a cui parteciparono migliaia di giovani che indossavano i mitici pantaloni blu; per loro il jeans era una sorta di seconda pelle alternativa alla nudità.Durante la contestazione giovanile degli stessi anni, i manifestanti del Maggio francese portavano i jeans. 
L'indumento era in piena contraddizione con le idee comuniste che provenivano dai paesi del Soviet, in cui questi pantaloni erano proibiti e contrabbandati e dove i componenti di un gruppo rock, furono addirittura messi in carcere, perché i jeans esprimevano sentimenti "antirivoluzionari". Oltre la cortina di ferro non si scherzava, ma non per questo il potere riuscì a fermare il successo dei jeans. Chi andava in Russia negli stessi anni, scambiava jeans in cambio di oggetti d'arte infinitamente più preziosi come le icone bizantine. 
Nella Cina di Mao, era stata invece imposta la grigia uniforme del regime, mentre durante la Rivoluzione culturale, era molto pericoloso indossare i pantaloni che tanto successo avevano avuto nei paesi dei bianchi.
Per la Russia, i jeans erano talmente innovativi e rivoluzionari, che si può dire che la loro diffusione abbia fatto molto, dal punto di vista culturale, per la caduta del muro di Berlino. Finito il comunismo infatti, i pantaloni occidentali si affermarono alla luce del sole, e fu addirittura inventato il modello Perestroika in onore di MIchail Gorbiaciof.
Nel 1923 in Turchia, il generale e dittatore Ataturk, aveva imposto una radicale modernizzazione, introducendo leggi laiche che si ispiravano addirittura a quelle svizzere. Ataturk abolì qualsiasi abito tradizionale, vietò il velo islamico, introdusse perfino la parità dei sessi, il suffragio universale, e il calendario gregoriano. La Turchia si trasformò quindi in un paese moderno permettendo così la diffusione dei jeans occidentali; alla fine degli anni Novanta tuttavia, le spinte integraliste hanno portato al ritorno del burka e della veste lunga per le donne, accusate di scoprirsi troppo e di indossare abiti maschili.
Intanto, sull'onda delle aspirazioni spirituali e della voglia di misticismo dei "figli dei fiori", nacquero marchi il cui nome si rifaceva provocatoriamente al Vangelo: il primo jeans italiano, prodotto a partire dal 1971,  si chiamava infatti Jesus. Protagonista di dirompenti campagne pubblicitarie affidate a Oliviero Toscani ed Emanuele Pirella, Jesus comparve sui manifesti con un'immagine che raffigurava un personaggio dal sesso dubbio, che esibiva pantaloni sbottonati fin quasi ai peli pubici, sottolineato dallo slogan "non avrai altro jeans all'infuori di me". Ancor più celebre fu la campagna lanciata poco tempo dopo, che mostrava le provocanti natiche della modella Donna Jordan, solo parzialmente coperte da jean cortissimi e succinti. 
Le polemiche non si contarono, da quelle dell'Osservatore romano" alla critica molto più celebre di Pier Paolo Pasolini, pubblicata sul Corriere della sera col titolo "Il folle slogan dei jeans Jesus". "Non c'è da stupirsi: la Chiesa non può reagire" - afferma Pasolini - perché ha stretto con la borghesia un'alleanza suicida, un patto col diavolo ben peggiore del modus vivendi trovato col Fascismo, regime che non l'aveva neppur scalfita". Lo scrittore continua poi sottolineando il cinismo che macchia per l'ennesima volta la storia della Chiesa, mentre il nuovo spirito della seconda rivoluzione industriale avanza, accompagnato da un'universale mutazione dei valori storici e dall'edonismo proposto come nuova religione.
Come affermò Pasolini, l'industria si era impadronita e aveva commercializzato i nuovi ideali giovanili di libertà ed uguaglianza: un altro lancio pubblicitario, mostrava una camicia in denim con uno spazzolino da denti nel taschino, come a dire "solo questo ti basta per andare dove vuoi"; sempre verso la fine degli anni Settanta inoltre, le rivendicazioni femministe di parità tra i sessi, indussero le imprese a inventare completi jeans unisex, pantaloni, camicia e cappello compresi.
Dagli anni Ottanta, con l'avvento del Made in Italy, il jeans entrò a far parte delle collezioni dei principali stilisti: da Giorgio Armani a Gianni Versace, da Gianfranco Ferrè a Dolce e Gabbana.  I modelli si erano andati moltiplicando: tra i più famosi i jeans a zampa d'elefante che, alla fine degli anni Sessanta, avevano ripreso i vecchi pantaloni marinareschi. Dopo la contestazione i celebri pantaloni, che ormai si compravano anche a poco prezzo nei mercatini,  dovevano essere sdruciti, mentre le ragazze li portavano con applicazioni di fiori e ricami. Nell'epoca della cosiddetta "liberazione sessuale" invece, i maschi si scolorirono appositamente il tessuto all'altezza del pube. Alla fine del secolo scorso andarono di moda jeans talmente lunghi da essere calpestati e sfilacciati dalle scarpe; si continuò poi con modelli a sigaretta e di vari colori, dal bianco, al grigio, al rosso, al rosa. In seguito si spostò il cavallo sopra la vita o all'altezza delle ginocchia, con la cintura talmente bassa da mostrare le mutande o addirittura le natiche. Da qualche anno infine, costosissimi jeans di marca sono realizzati in tessuto "delavé" e tagliuzzati ad arte. Chi non può permetterseli si arrangia con una lametta casalinga. 
Nel novembre 2004, Genova commemorò il suo primato storico su questi pantaloni, esponendo nel porto antico un modello alto 18 metri e confezionato con seicento paia di vecchi jeans.


Link:
http://it.wikipedia.org/wiki/Blue-jeans://
ilsognodiunacosa.wordpress.com/2010/12/19/il-folle-slogan-dei-jeans-jesus-17-maggio-1973/

domenica 26 maggio 2013

I secoli d'oro della parrucca

Anticamente la parrucca non aveva le connotazioni ridicole che molti oggi le attribuiscono, ma era un accessorio indossato fino dall’antico Egitto da uomini e donne, non necessariamente per compensare la perdita dei capelli, ma principalmente come segno di status. In Europa ebbe il suo massimo splendore nei secoli XVII e XVIII, quando trionfarono Barocco e Rococò: due stili fastosi e teatrali, in cui la parrucca – nella sua evidente finzione -  si trovava perfettamente a suo agio tra  stucchi, marmi e decorazioni.
La moda iniziò durante la Guerra dei Trent’anni, durata dal 1618 al 1648, che determinò un netto cambiamento del vestire maschile. A partire dagli anni Trenta del Seicento infatti, tutti gli uomini predilessero abiti in stile militaresco, portando con pose spavalde cinturoni, lunghe spade, pesanti stivali in cuoio. Trionfò la mascolinità bellicosa, e si voleva a tutti i costi esibire un rude aspetto guerresco, oltre che nel vestito anche nell’abbondante peluria, segno evidente di virilità. Parecchi aneddoti raccontano come la parrucca sia entrata nelle case reali e da qui abbracciata da quasi tutta la popolazione che - dati i costi -  se la poteva permettere; le parrucche più care erano infatti fabbricate con capelli veri, solitamente di contadine e meglio se biondi, mentre la gente più modesta doveva accontentarsi di peli di pecora e capra, crine di cavallo o coda di bue. 
Nel Seicento e nel Settecento la Francia era considerata il centro del buon gusto europeo e sembra che sia stato proprio un monarca francese, Luigi XIII, a favorire l'uso delle parrucche per nascondere la precoce calvizie causata da una malattia. Il suo successore Luigi XIV, il Re Sole (1638 – 1715) portò quest’accessorio alla sua apoteosi. Nel 1655 il sovrano concesse la licenza di aprire bottega a 48 fabbricanti parigini di parrucche, che entro qualche anno cambiarono denominazione professionale: da volgari “parruccai”, diventarono eleganti “coiffeur”. Questa categoria fu fra l’altro una delle poche a salvarsi  dal Terrore durante la Rivoluzione francese. Lo Huizinga, nel suo "Homo ludens", definisce giustamente la parrucca come "la cosa più barocca di tutto il barocco".  Da semplice accessorio per coprire la perdita di capelli, essa si trasformò in una monumentale torre di riccioli, con due bande che scendevano sul torace e un’altra dietro la schiena. Il peso eccessivo la rendeva molto scomoda da indossare, per cui la si portava solo a corte, mentre nel privato di preferiva indossare una ben più comoda berretta. La circonferenza della parrucca impediva l’uso del cappello, che si metteva semplicemente sotto braccio; altra bizzarria era la "linda" ossia una frangetta di capelli naturali e di colore diverso, che spuntava sulla fronte. Tuttavia oltre agli svantaggi, essa aveva vantaggi fisici e soprattutto psicologici non trascurabili: indossata sul cranio rasato, favoriva una maggior pulizia in un’epoca in cui pullulavano cimici e pidocchi. Inoltre rialzando la statura, dava alla figura maschile un senso di imponenza regale che aumentava il prestigio dell’individuo. Di colore nero all'inizio, verso la fine del Seicento diventò bianca e fu cosparsa di cipria. 
Al suo apparire in Italia la parrucca sollevò polemiche e discussioni e causò l'intervento della legge: di ritorno da un’ambasceria a Parigi, il veneziano Conte Scipione Vinciguerra di Collalto, la esibì per primo durante una passeggiata sul liston, in piazza San Marco. Ma la rivoluzionaria novità non piacque al Gran consiglio, che nel 1688, si affrettò a proibirne l’uso a tutti i magistrati nel pieno delle loro funzioni pubbliche. Il doge Erizzo invece, giunse al punto di diseredare suo figlio che aveva osato indossarla.
Durante il Settecento fino alla Rivoluzione francese, la moda della parrucca continuò a contagiare gli uomini e successivamente le  donne e i bambini. Chi poteva permettersi il parrucchiere personale era esigentissimo: Vittorio Alfieri racconta di aver lanciato un candeliere contro il domestico che gli aveva inavvertitamente tirato una ciocca di capelli.  Particolarità del periodo fu l’uso pressoché universale di imbiancarla cospargendola di cipria solitamente composta di polvere di riso. Un servitore la soffiava sul paziente in un apposito stanzino polverizzandola con un piccolo mantice, mentre il volto e il corpo erano protetti con un accappatoio e un cono che copriva la faccia. Oltre al riso si usavano l’amido mescolato con polvere profumata, e per quelli che non se lo potevano permettere, calcina, gesso, legno tarlato, osso bruciato, il tutto passato con cura al setaccio. Il principe Francesco I di Modena invece, si faceva spruzzare polvere d’oro in testa.
L'uso della parrucca diventò generale, al punto che non fu più possibile vietarla, mentre a Venezia gli Inquisitori, non potendo proibirla, cominciarono a tassarla.
Più frequente per l’uomo che per la donna, la parrucca serviva a coprire teste pelate vuoi dall'età, vuoi da qualche malattia che causava la caduta dei capelli come il vaiolo, allora piuttosto diffuso. Nel primo ventennio del Settecento si portarono ancora i parrucconi lanciati da Luigi XIV; in seguito la parrucca si ridusse, e fu fondamentale portarla dello stesso colore delle ciglia. Nel 1730 si diffuse la “parrucca a groppi”, che terminava con due nodini di capelli. Tuttavia la tipica parrucca maschile settecentesca, di moda soprattutto verso la metà del secolo aveva un ciuffo alto e arricciato sulla fronte, riccioli sulle orecchie e un codino avvolto in un sacchetto di seta nera. Ma i modelli erano molti di più e furono illustrati nelle enciclopedie per pettinarsi. I capelli erano impomatati, e poi arricciati con una specie di permanente avanti lettera, bolliti e infine cuciti a una reticella e fermati da nastri nascosti. I parrucchieri, che facevano anche i barbieri, avevano botteghe elegantissime piene di specchi e dorature. Andare dal parrucchiere alla moda diventò sinonimo di eleganza: Monsieur Galibert, soprannominato “Il sultano” aveva il negozio in piazza San Marco, con numerosi aiutanti e garzoni, e si faceva pagar salato.
Attorno al 1780 si cambiò modello, introducendo due rigidi boccoli laterali; infine le acconciature si portarono molto gonfie e spolverate con cipria grigia.
Le donne si accostarono a questo accessorio con un certo ritardo. Una sera Leonard, il parrucchiere personale di Maria Antonietta d’Austria, moglie di Luigi XVI di Borbone e re di Francia, acconciò la regina con capelli rialzati artificiosamente più di mezzo metro sul capo, frammischiandoli con sciarpe di velo. Questa acconciatura, detta pouf o tuppè, fu di moda dal 1770 per circa 10 anni. Le donne europee impazzirono per la nuova foggia: Carolina Maria d’Austria, regina di Napoli, chiese ed ottenne che Leonard venisse di persona, nella convinzioni che i parrucchieri della città non possedessero la sua abilità.  Il tuppè era una vera e propria parrucca, fatta solo in parte coi propri capelli;  aveva un’armatura nascosta di filo metallico ed era imbottito da un cuscinetto di crine. Era scomodo e malsano, sia perché portato su capelli non lavati ma tenuti in piega da oli e pomate profumati, sia perché attirava inevitabilmente ogni tipo di parassita. Ma l’aspetto più sconcertante erano le incredibili decorazioni che vi venivano appoggiate sopra. La fantasia non aveva limiti: palme, pappagalli, ghirlande d’amore, scale a chiocciola di pietre preziose, navi con le vele al vento spiegate (à la belle poule). Nomi e nomignoli francesi distinguevano i diversi modelli: à la monte du ciel, di altezza vertiginosa, alla cancelliera, alla flora, piena di fiori, al vezzo di perle (ovviamente circondata da giri di perle) à la Turque, à le Figaro, à piramide. Famosi erano i "pouf au sentiment", letteralmente "sgabello dei sentimenti" in cui la parrucca, considerata come una sorta di altarino, in cui si metteva in mostra ciò che si amava: così chi si sentiva vicino alla natura poneva sulla testa fiori, piante frutta e animaletti imbalsamati, chi pensava alla famiglia sfoggiava i ritratti del marito e dei figli, chi era legato alla patria esponeva orgogliosamente coccarde tricolori. 
L’acconciatura fu studiata per meravigliare gli altri, sfruttando persino la cronaca del giorno e la manifestazione dei propri sentimenti pur di attrarre teatralmente l’attenzione. Per fare un esempio, quando i fratelli Montgolfier nel 1783 alzarono per la prima volta su Parigi il primo pallone aerostatico, la moda inventò la “parrucca alla mongolfiera”. Nel frattempo l’altezza di queste curiose acconciature aumentò sempre di più, fino a raggiungere il metro, al punto che si diceva che una signora alla moda non riuscisse ad entrare in carrozza se non in ginocchio. La satira e le caricature fiorirono e un disegnatore rappresentò una dama con una parrucca talmente alta che era necessario sorreggerla con una sorta di forcone di legno.
I parrucchieri ovviamente beneficiarono della moda del tuppè. Particolarmente apprezzati erano quelli francesi, in Italia chiamati “Monsù”, da “Monsieur”, il fratello del re di Francia. Solitamente uomini, frequentavano anche le abitazioni ed erano ammessi nella stanza più intima della signora, il boudoir. Venivano quindi a conoscenza di tutti i segreti e i pettegolezzi, e non di rado facevano da  tramite a tresche amorose. Oltre ai parrucchieri c’erano anche le pettinatrici, dette a Venezia "conzateste", seppur di minore importanza dei loro colleghi maschi. 
Con la Rivoluzione francese, la parrucca scomparve, almeno in Francia. Era uno dei simboli dell'odiata aristocrazia, e uscire coi capelli incipriati era rischioso, perché si poteva finire sulla ghigliottina. Nel resto d'Europa rimase ancora per poco tempo, per trasferirsi poi sulla testa dei valletti. Solo i reazionari più accaniti continuarono a portarla, guadagnandosi il soprannome di "codino".


Bibliografia:
Rosita Levi Pizetsky: Storia del costume in Italia, Volume IV, Istituto editoriale italiano, Milano, 1967
Massimo e Costanza Baldini: L’arte della coiffure, i parrucchieri, la moda, i pittori, Ed. Armando, Roma 2006

lunedì 20 maggio 2013

La libera moda neoclassica femminile

Durante la rivoluzione francese, e precisamente l'8 Brumaio anno II, corrispondente al 29 ottobre 1793, la Convenzione emise un decreto che recitava così: "Nessuna persona dell'uno o dell'altro sesso, potrà costringere alcun cittadino o cittadina a vestirsi in modo particolare, sotto pena di essere trattata come sospetta, o perseguita come perturbatrice della pubblica quiete; ognuno è libero di portare l'abito o gli accessori che preferisce." L'editto era rivoluzionario, perché si opponeva in modo radicale alle leggi Suntuarie, ossia quel corpo giuridico che limitava o vietava di portare indumenti che non fossero relativi alla propria classe sociale, aumentando l'enorme distanza che separava le classi medie o povere da quelle ricche e privilegiate dell'aristocrazia e del clero.
Fra tutte le ingiustizie questa era particolarmente odiosa, perché rendeva immediatamente riconoscibile chi non apparteneva alla nobiltà. Il 5 maggio 1789, all'apertura degli Stati generali, i borghesi, che appartenevano al terzo stato, si presentarono in abito nero - obbligatorio per la loro classe - e cravatta bianca, a fronte dell'aristocrazia addobbata con estremo sfarzo e colori brillanti. Il drammatico contrasto, invece di creare un clima di umiliazione, provocò l'effetto opposto, e i semplici abiti scuri diventarono simbolo di pulizia morale e di nuovi ideali. L'iniqua proibizione finì per causare, come primo provvedimento, l'abolizione per il solo vestiario di ogni differenza di classe, mentre riguardo a quello femminile si dovette aspettare qualche anno dopo.   
Gli ultimi anni del Settecento avevano in ogni caso visto profondi mutamenti nella moda a causa dell'influenza del costume inglese, e della riscoperta di Pompei ed Ercolano, i cui scavi,  iniziati a partire dal 1748 causarono una vera e propria mania per l'arte greco - romana. Lo stile Neoclassico, con le sue linee semplici e l' uso di colori chiari o addirittura del bianco, soppiantò così il Barocco: le statue drappeggiate con abiti di foggia antica incantarono tutta l'Europa, nella mancanza di consapevolezza che i colori con cui erano state dipinte, si erano completamente dilavati nei secoli.
In Francia, che dai tempi del re Sole era il centro mondiale di ogni tendenza, pioniere del nuovo gusto furono Juliette Recamier e Madame Tallien, tra le maggiori esponenti del jet - set parigino. Come loro, le donne che si vestivano "a l'antique" erano chiamate "Merveilleuse". Gli abiti che indossavano davano l'impressione di una spigliata leggerezza, sia per la semplicità del taglio, sia per la  trasparenza delle stoffe di garza.
La vita fu portata sotto al seno, la scollatura abbassata, le maniche si accorciarono a palloncino mostrando per la prima volta la nudità delle braccia. Molte caricature mostrano le signore accompagnate dai loro corrispettivi maschili detti "Incroyable", che invece avevano colletti che coprivano completamente il mento, vestiti sdruciti e un nodoso bastone da passeggio. I vestiti alla greca chiamati "alla Flora", "alla Diana", all'Onfale", erano talmente sottili che non c'era posto per le tasche e si dovette inventare una borsetta a sacchetto, detta alla latina "reticule".  La grande novità fu la sparizione del busto, che tuttavia venne reintrodotto qualche tempo dopo in forma molto leggera e in modo da spingere il seno in alto. I piedi erano calzati da coturni, le teste acconciate alla greca e fasciate da bende ricamate, e tornarono i gioielli a cammeo. Madame Hamelin spinse all'estremo il suo abbigliamento tanto che, uscita dalla carrozza praticamente svestita, fu costretta a scappare precipitosamente perché fatta oggetto di lanci di sassi. Il corpo così esibito esaltava la giovinezza e la bellezza delle forme, certamente ispirandosi alla statuaria greca del periodo classico.
Era ancora vivissimo il ricordo della Rivoluzione, e a Parigi si organizzarono Balli "a la victime", dove chi partecipava doveva avere avuto almeno un parente ghigliottinato e dove il cattivo gusto imponeva di portare un nastrino rosso al collo che simulava il taglio della testa, e i capelli cortissimi come quelli dei condannati a morte. Il modo di vestire era una conseguenza della ritrovata - se pur per breve tempo - libertà femminile: la donna poteva esprimere le sue opinioni pubblicamente, fare sfoggio della sua cultura, avere un atteggiamento indipendente nei confronti dell'uomo.  
Nel 1799 Napoleone Bonaparte assunse il potere con un colpo di stato. Oltre ad essere un combattente e un
condottiero e ad aver riformato il Codice di leggi civili, capì perfettamente l'importanza della moda per l'economia francese e, pur non essendo personalmente interessato all'eleganza, finanziò il "Journal des Dames et des Modes", un periodico che conteneva numerose tavole illustrate e che contribuì alla diffusione del gusto. Napoleone non scoraggiò mai i capricci della moglie Joséphine de Beauharnais, che spendeva cifre folli per gli indumenti e non ne indossava mai uno due volte di seguito, diventando così un'icona dell'eleganza.
La moda delle vesti trasparenti, detta "del nudo", furoreggiò fino al 1805; ormai si diceva che una signora non era ben vestita ma "ben svestita" e si arrivò a pesare l'abbigliamento, scarpe e gioielli compresi, che non dovevano complessivamente oltrepassare i due etti; sotto all'abito si poteva portare una leggera e aderentissima calzamaglia color carne, mentre il seno era spinto in alto in modo da mostrare parte dei capezzoli. Alcune signore arrivarono invece a bagnarsi o ad ungersi il corpo perché il tessuto aderisse meglio e mostrasse le forme. Unica copertura anche d'inverno, era un morbido scialle di cachemire proveniente dall'India, il cui prezzo era paragonabile a quello di un'odierna automobile, e che diventò oggetto del desiderio al punto che a Madame Hamelin ne fu rubato uno durante un ballo. Abiti e accessori potevano però essere copiati da tutte le signore abbienti, e lo scialle diventò l'unico capo che distingueva le donne di stile; se ne perciò produssero molte imitazioni che tuttavia non riuscirono ad eguagliare la bellezza e la leggerezza degli originali, e fiorì il marcato  dell'usato.
Oltre allo stile greco anche le conquiste napoleoniche influenzarono il gusto. Dalla fine del Settecento era nato in Europa un crescente interesse per l'Oriente e in particolare per l'Impero ottomano; gli aristocratici si fecero ritrarre spesso in costume turco, mentre la moda cercò di imitarne - se pure in modo improbabile - alcuni dettagli, come i bordi di pelliccia in ermellino. La campagna d'Egitto condotta da Napoleone nel 1798, contribuì a rilanciare "le turcherie" attraverso la diffusione di disegni e incisioni: nacquero così abiti "alla mamelucca" o "alla sultana" mentre il turbante entrò a far parte dei copricapi femminili e a volte anche maschili.
La moda del nudo imperversò fino a quando un'epidemia di influenza non decimò la popolazione femminile francese, che fu costretta a tornare ad indumenti più pesanti. All'abbandono dei leggeri tessuti di cotone contribuì anche lo stesso Bonaparte, che vietò di importare questo tessuto per combattere l'Inghilterra anche sul piano commerciale, cercando di implementare, pur senza riuscirvi,  la produzione francese: il Calicò, il Chintz, il Madras, la Mussola, il Nanchino, il Percalle, provenivano infatti dalle colonie inglesi. Dopo l'incoronazione di Napoleone a Imperatore, avvenuta nel 1804, si diffusero tessuti spessi e pesanti in raso lucido o lana a cui furono aggiunte guarnizioni ricamate, passamaneria, frappe, volants, che andavano da metà della veste fino all'orlo. Le scollature furono mitigate o scomparvero addirittura: alle vesti fu abbinata una camicetta trasparente che terminava con un piccolo collo a gorgiera di ispirazione rinascimentale. Resuscitarono redingotes e soprabiti foderati in pelliccia, dal collo alto e dalle maniche lunghe, soprannominati in francese "Douillettes", forse grazie al tepore che sprigionavano. Comparve anche lo Spencer, un grazioso giacchettino che arrivava fino alla vita ed era realizzato in tessuto scuro, solitamente contrastante con quello dell'abito.
Al posto della donna svestita si diffuse l'immagine di quella infagottata, anche perché da tessuti, sciarpe e
cappelli spuntavano solo il viso e le caviglie. L'imperatore volle costituire attorno a sé una corte che ricordasse i fasti di quella di Versailles: introdusse quindi rigide regole d'etichetta, obbligando funzionari e dignitari a indossare uniformi in velluto nei colori blu, azzurro, nero e grigio, con decorazioni in oro, fusciacche e frange. Anche le dame erano tenute a seguire gli ordini di Napoleone, che le obbligava a cambiare abito ogni volta, e le redarguiva severamente in pubblico nel caso non lo avessero fatto; in questo era certamente influenzato da Joséphine, nota per il suo gusto squisito. Fastosi erano gli abiti da cerimonia: per la sua incoronazione Napoleone volle ispirarsi a quella di Carlo Magno e ne realizzò la regia aiutato da molti artisti, tra cui il pittore Isabey, che era incaricato di disegnare i costumi.  Un famoso quadro di David rappresenta la scena: l'imperatore, vestito con una veste bianca e un mantello di velluto rosso eicamato in oro, incorona la moglie. Joséphine porta anch'essa una veste di seta bianca a vita alta, con maniche lunghe fino a metà mano e un sontuoso manto rosso dall'immenso strascico e foderato d'ermellino, retto da uno stuolo di damigelle. Il mantello di corte partiva dalla vita, a cui era agganciato per mezzo di lacci, e diventò l'usuale capo indossato durante le cerimonie. Dalle spalle alla nuca si innalzava un rigido collo in pizzo detto "cherusque". lontano parente dei colletti lanciati da Caterina de' Medici in Francia.
La realizzazione dei costumi era stata affidata al sarto Leroy, che aveva cominciato come coiffeur sotto l'Ancien Règime ed era scampato alla rivoluzione. Leroy era il fornitore di Joséphine e un'abile uomo d'affari noto in tutta Europa; per mantenere sempre l'attenzione sul suo sontuoso atelier modificava il suo stile, facendo sì che i vestiti da lui creati diventassero rapidamente obsoleti. I suoi abiti avevano un ottimo taglio, ed era riconosciuto come un maestro nella creazione dei bustini.  
Il 5 maggio 1821 Napoleone morì a sant'Elena; nel 1810 aveva divorziato dalla moglie per sposare Maria Luigia d'Austria nella speranza di avere un erede. La nuova imperatrice, poco popolare in Francia, non seppe e non volle continuare lo stile di Joséphine; le sconfitte dell'imperatore inoltre, avevano diminuito notevolmente il fasto della corte e ridotto l'attenzione sulla moda. La restaurazione fu un tentativo di riportare in auge gli antichi regimi, mentre il gusto romantico vincente sullo stile neoclassico, condusse a un cambiamento radicale dell'immagine e del costume femminile. La libertà della donna fu inghiottita dalle pastoie impostele dalla società borghese, e il ritorno del busto segnò l'epoca di una nuova sottomissione che durò fino al Novecento, quando il couturier parigino  Paul Poiret ricreò gli abiti a vita alta e senza busto, dimostrando che l'eredità neoclassica non era andata persa.

Bibliografia:
Rosita Levi Pizesky: Storia del costume in Italia, Istituto editoriale italiano, Volume V, Milano
Grazietta Buttazzi, Alessandra Mottola Molfino: Classicismo e libertà, De Agostini, Novara, 1992
Cristina Barreto, Martin Lancaster, Napoleone e l'impero della moda - 1795/1815, Skira, Milano, 2010

Link:
http://omgthatdress.tumblr.com/
http://athousandpix.blogspot.it/2010/11/costume-parisien-napoleon-era-fashion_07.html

giovedì 16 maggio 2013

Paco Rabanne

Negli anni Sessanta, un vasto movimento di studenti e operai in Europa e negli Stati Uniti,  si schierò contro l'ideologia della società dei consumi, e del mondo borghese; in America in particolare quella che fu chiamata "controcultura" si oppose alla guerra del Vietnam legandosi alla battaglia per i diritti civili e all’ostilità verso il Capitale.  Anche la famiglia tradizionale fu scossa dal rifiuto dell'autorità dei genitori e del conformismo dei ruoli, mentre furono messe in discussione le discriminazioni in base al sesso e alla razza. Con la contestazione cominciò a diffondersi l’idea di un vestire più comodo, informale e meno elitario, e quindi contrario ai principi di distinzione, di stile e di lusso che avevano caratterizzato le creazioni dei grandi sarti. La moda  stava diventando un fenomeno di massa che  interessava i mercati internazionali e solo in piccola parte era riservata ad una élite ricca ed esclusiva. Lavorazione a catena, capi di taglio semplice e tessuti sintetici o misti permettevano alle industrie di tenere i prezzi bassi, facendo sgretolare  il primato della haute couture e il mito di Parigi.
Gli anni Sessanta registrarono anche un mutamento dell’ideale estetico femminile e maschile. Non più le donne formose e sofisticate degli anni Cinquanta ma ragazze giovanissime, pallide e molto magre. Su questo nuovo modello si sviluppò lo stile sartoriale ormai dedicato ai giovani, che case di moda e industrie avevano intuito potessero essere una nuova e promettente classe di consumatori. 
In questa nuova atmosfera si inserì il lavoro di Paco Rabanne (San Sebastian, 1934) al secolo Francisco Rabaneda Cuervo: era figlio della direttrice di un laboratorio di Balenciaga, ed entrambi erano scappati dalla Spagna durante la Guerra civile.  A Parigi si laureò in architettura: era affascinato dalla Pop Art, dal Dadaismo e dalle sculture in materiali innovativi come il neon, la plastica, il ferro e iniziò il suo percorso stilistico allontanandosi dalla tradizione, sulla scia di altri creatori di moda anticonformisti come Courrèges, Saint Laurent, Cardin, Ungaro.
Cominciò a inserirsi nel mondo della moda creando accessori per il pellettiere Roger Model, poi il calzaturiere Charles Jourdan e giungendo infine a grande sarto spagnolo Balenciaga. I suoi accessori stravaganti attirarono l' attenzione delle riviste di moda: orecchini oversize e cinture erano realizzati in rhodoïd, un materiale plastico rigido e a basso costo, colorabile e facilmente tagliabile. Mentre le vendite si impennavano e "Le figaro" gridava allo scandalo, Rabanne allargò le sue creazioni al bolero, capo tipicamente spagnolo reinterpretato con elementi sintetici.

Nel 1966 presentò all'Hotel Georges V la sua prima collezione composta da "dodici vestiti importabili in materiali contemporanei" e indossati da modelle scalze. La sfilata fu un fulmine a ciel sereno nel mondo della moda e fu ripresa dalla stampa internazionale, mentre Coco Chane gridava: "Questo non è un sarto, ma un metallurgico!" Nello stesso anno aprì anche il suo piccolo laboratorio a conduzione familiare.

Convinto che la creatività non è seduzione ma choc, nell'inverno 1966/67 fece sfilare le ballerine del Crazy Horse, che sul palcoscenico del locale, eseguirono coi suoi abiti un vero e proprio strip-tease, cui i suoi vestiti ben si  adattavano.  In seguito, anche grazie ai progressi tecnologici, il sarto sbrigliò ancor di più la sua scatenata fantasia: nel 1967 lanciò una linea piena di accostamenti irriverenti: in carta, tessuti assieme a una trama di nylon e legati con bande adesive, in jersey di alluminio, in piume incollate a nastri. Per gli abiti da sera scelse sottilissimi tubi di plastica, mentre immaginò le sue spose vestite in rettangoli di rhodoïd opalescente. I pezzetti erano tenuti assieme da anelli metallici: non più ago e filo dunque, ma strumenti sartoriali quali pinze e ganci. Altro elemento scioccante: le modelle erano di colore,  mai viste prima nell’alta moda.
L’idea alla base della creazioni di Rabanne stava in una precisa volontà di democratizzazione della moda, unita certamente a un forte gusto per la provocazione. I suoi abiti erano adatti a silhouette sottili, a donne coraggiose che non temevano né il caldo, né il freddo, né la scomodità: “i miei modelli sono come delle armi” dichiarò a Marie Claire “Quando sono chiusi si ha come l’impressione di udire il grilletto di un revolver”. Con questo spirito affrontò il campo della pellicceria affiancando pelli pregiate al metallo: partendo da striscioline ottenute da avanzi di pelliccia  e tessuto, cominciò a lavorarli a maglia, ottenendo un "tessuto" caldissimo e molto leggero.
Reinterpretò anche il merletto, traducendolo in plastica e alluminio, e il ricamo, utilizzando piccolissimi chiodi cuciti sul tessuto. Ispirandosi al medioevo lanciò la cotta di maglia al femminile.
Sempre con tecniche artigianali realizzò tra il 1970 e il 1976 abiti in bottoni, vestiti composti di fazzoletti, maniche costruite con calzini, modelli in fasce di caucciù. In quanto agli accessori non erano meno stravaganti dei vestiti: caschetti in metallo, turbanti iridati, antenne e zampilli in plexiglass e alluminio.
Dopo lo sbarco sulla luna si era in pieno boom spaziale e molti couturier si ispirarono, come Rabanne, ad abiti siderali che mandavano bagliori luminescenti. Anche il mondo dello spettacolo richiese le sue creazioni: una delle prime attrici che lo seguì fu Audrey Hepburn nel film “Due per la strada”, nel 1968 fece indossare alla cantante Françoise Hardy un abito in lamine d’oro con incrostazioni di diamanti e infine mise addosso a Jane Fonda, nel film Barbarella, un cortissimo e sensuale abitino in stile medievale fatto in maglia di metallo.
La parabola di Rabanne terminò con l’ipotesi di abiti biodegradabili, in accordo con le nuove idee che predicavano il salvataggio della natura. Chiusa definitivamente la sua maison, si ritirò dalla moda nel 1999.

Bibliografia:
Lydia Kamitsis, Paco Rabanne, ed. Franco Cantini, Firenze, 1998; Guido Vergani, Dizionario della moda, ed. Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2010; Gabriella D’Amato, Moda e design, ed. Bruno Mondadori, Milano, 2007.
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