
Negli anni Venti la Francia era il centro mondiale della raffinatezza e dello chic. Nonostante che da noi fiorissero, specie a Torino, importanti sartorie, i giornali di moda guardavano esclusivamente a Parigi dove si riforniva la clientela europea. Contemporaneamente il crollo di Wall Street del ’29 aveva causato un’ondata di crisi che si era abbattuta anche sul vecchio continente, facendo salire la disoccupazione, causando licenziamenti e riduzioni salariali, e mettendo sul lastrico migliaia di famiglie. Nonostante ciò in Italia la classe agiata continuava a vestirsi in modo elegante. I matrimoni principeschi e in particolare quello di Umberto II e Maria Josè del Belgio del 1930, i ricevimenti, le prime teatrali e le usanze del bel mondo, erano sulle prime pagine delle riviste che ignoravano completamente la vita e i problemi del resto della nazione.
Mussolini – probabilmente perché proveniva da una povera famiglia romagnola - non amava le ostentazioni, detestava gli eccessi e aveva ben chiaro il suo ideale femminile: gli piacevano le contadine di stazza robusta e di fianchi prolifici e finché poté cerco di trasformare le ricalcitranti signore italiane in massaie rurali. Attraverso “Il giornale della donna”, “Camerate a noi”, “il popolo d’Italia”, tentò quindi di instillare nelle donne il rifiuto dello stile parigino, la disciplina, l’amore per i prodotti nostrani. Lo sport femminile fu incentivato e si lanciarono le “Olimpiadi della grazia”, che si svolsero a Firenze con la partecipazione di undici nazioni europee.

Negli anni Trenta i couturier parigini avevano lanciato una linea affusolata, estremamente femminile, con la vita segnata, la gonna al polpaccio, il corpo messo in evidenza da sete che catturavano la luce, con ampie scollature sulla schiena. Coco Chanel, Madeleine Vionnet, l’italiana Elsa Schiapparelli , erano al centro dell’attenzione internazionale. Fossero creazioni lineari e comode come quelle di Chanel, o decisamente sfacciate come quelle di Schiapparelli, gli abiti si rivolgevano a una donna moderna ed emancipata, che non disdegnava il lavoro e non aveva paura di esibire la propria sessualità.
Per il mare il corpo era molto scoperto e si cominciavano a indossare senza eccessive timidezze i primi pantaloni, copiando lo stile mascolino di Marlene Dietrich e Greta Garbo.
Per il mare il corpo era molto scoperto e si cominciavano a indossare senza eccessive timidezze i primi pantaloni, copiando lo stile mascolino di Marlene Dietrich e Greta Garbo.
Erano di moda i vestiti stampati a fiori, il plissé, le arricciature, i merletti e i ricami. Le giacche e le mantelline si abbonavano a una gonna fantasia, i bottoni e le fibbie erano in forme curiose come acrobati o cagnetti, in materiale quale il legno, la pelle, l’osso, la madreperla. I guanti erano d’obbligo come i cappellini, e solo le donne del popolo uscivano a testa scoperta.
Il fascismo si occupava invece di demografia ed era convinto che “l’eleganza è nettamente sfavorevole alla fecondità”. Tentando di riportare le donne tra le mura domestiche, cercava di convincerle a ingrassare. Guardava con orrore “le manichine”, ossia le indossatrici magre e feline, detestava i “gagà” e le “gagarine”, ossia le persone alla moda, suggeriva che la modella perfetta doveva essere alta 1,56/1,60, e pesare 55/60 chili. I figurini e le fotografie di moda riproducevano belle ragazze robuste.
Il regime puntava inoltre su abiti che si rifacessero alla nostra tradizione popolare, al Medioevo e al Rinascimento, mentre con la conquista dell’Albania ci si ispirò al suo folklore per costumi colorati e ricamati che furono propagandati per l’occasione da Maria Josè di Savoia. Si inventarono anche pudicissimi modelli di ispirazione religiosa, forse sull’onda della riconciliazione col Vaticano attraverso i Patti Lateranensi. Si lanciarono violente campagne contro i pantaloni, contrari alla decenza e – chissà perché – alla maternità, e contro il trucco che – impiastricciando il volto - imitava sfacciatamente le dive di Hollywood, con le labbra arcuate e le sopracciglia rasate. Le signore continuarono comunque a inseguire la dieta, a copiare più o meno apertamente i modelli francesi, ad ossigenarsi, a guardare con estremo interesse le dive dei “Telefoni bianchi” che naturalmente si rifiutavano di uniformarsi al modello voluto dal regime.


Erano scarpe colorate, fantasiose, a volte visionarie, sempre divertenti, e piacquero molto. Ferragamo si era affermato ad Hollywood diventando “il calzolaio delle stelle” e calzando attori famosi come John Barrymore, Rodolfo Valentino, Lillian Gish o Mary Pickford. Insoddisfatto della manodopera americana, fece ritorno a Firenze dove esisteva da secoli un’importante tradizione manifatturiera del pellame, conoscendo tuttavia il successo mondiale solo alla fine degli anni ‘40.

Bibliografia:
Natalia Aspesi, Il lusso e l'autarchia, Rizzoli, Milano, 1962
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