mercoledì 12 settembre 2012

Mussolini, il fascismo e la moda

Con la presa del potere da parte di Benito Mussolini, nel 1922, si inaugura un nuovo periodo per la moda italiana: per tutto il ventennio di dittatura il Duce condizionerà il vestiario delle donne imprimendo una particolare impronta fascista e cercando, molto spesso invano, di determinarne le scelte.
Negli anni Venti la Francia era il centro mondiale della raffinatezza e dello chic. Nonostante che da noi fiorissero, specie a Torino, importanti sartorie, i giornali di moda guardavano esclusivamente a Parigi dove si riforniva la clientela europea. Contemporaneamente il crollo di Wall Street del ’29 aveva causato un’ondata di crisi che si era abbattuta anche sul vecchio continente, facendo salire la disoccupazione, causando licenziamenti e riduzioni salariali, e mettendo sul lastrico migliaia di famiglie. Nonostante ciò in Italia la classe agiata continuava a vestirsi in modo elegante. I matrimoni principeschi e in particolare quello di Umberto II e Maria Josè del Belgio del 1930, i ricevimenti, le prime teatrali e le usanze del bel mondo, erano sulle prime pagine delle riviste che ignoravano completamente la vita e i problemi del resto della nazione.
Mussolini – probabilmente perché proveniva da una povera famiglia romagnola - non amava le ostentazioni, detestava gli eccessi e aveva ben chiaro il suo ideale femminile:  gli piacevano le contadine di stazza robusta e di fianchi prolifici e finché poté cerco di trasformare le ricalcitranti signore italiane in massaie rurali.  Attraverso “Il giornale della donna”, “Camerate a noi”, “il popolo d’Italia”, tentò quindi di instillare nelle donne il rifiuto dello stile parigino,  la disciplina, l’amore per i prodotti nostrani. Lo sport femminile fu incentivato e si lanciarono le “Olimpiadi della grazia”, che si svolsero a Firenze con la partecipazione di undici nazioni europee.
Nel 1935 fu fondato l’Ente Nazionale della Moda, con sede a Torino, che sostituiva quello precedente, sempre voluto dal fascismo, e che aveva come scopo la diffusione di una nuova moda nazionalista: il clima teso delle relazioni internazionali stava portando infatti verso una forma di autosufficienza economica che finì per coinvolgere tutti gli aspetti della vita nazionale e che fu chiamato “Autarchia”.  La causa principale dell’autarchia furono le sanzioni economiche imposte all’Italia dalla Società delle Nazioni per l’invasione dell’Etiopia. Vennero quindi a mancare rifornimenti e materie prime, e la conseguenza fu il lancio di un’accesissima campagna che invitava il popolo a rifiutare in blocco tutto quello che proveniva dall’estero, a meno che non si trattasse di prodotti delle nostre colonie. Si arrivò perfino a modificare la lingua escludendo qualsiasi parola straniera e invitando a parlare latino invece che inglese e francese.  La moda in particolare era sollecitata a inventare creazioni esclusivamente “italianissime”. Il primo articolo costitutivo dell’Ente obbligava a certificare la garanzia italiana di ogni creazione.
Negli anni Trenta i couturier parigini avevano lanciato una linea affusolata, estremamente femminile, con la vita segnata, la gonna al polpaccio, il corpo messo in evidenza da sete che catturavano la luce, con ampie scollature sulla schiena. Coco Chanel, Madeleine Vionnet, l’italiana Elsa Schiapparelli , erano al centro dell’attenzione internazionale. Fossero creazioni lineari e comode come quelle di Chanel, o decisamente sfacciate  come quelle di Schiapparelli, gli abiti si rivolgevano a una donna moderna ed emancipata, che non disdegnava il lavoro e non aveva paura di esibire la propria sessualità. 
Per il mare il corpo era molto scoperto e si cominciavano a indossare senza eccessive timidezze i primi pantaloni, copiando lo stile mascolino di Marlene Dietrich e Greta Garbo.
Erano di moda i vestiti stampati a fiori, il plissé, le arricciature, i merletti e i ricami. Le giacche e le mantelline si abbonavano a una gonna fantasia, i bottoni e le fibbie erano in forme curiose come acrobati o cagnetti, in materiale quale il legno, la pelle, l’osso, la madreperla. I guanti erano d’obbligo come i cappellini, e solo le donne del popolo uscivano a testa scoperta.   
Il fascismo si occupava invece di demografia ed era convinto che “l’eleganza è nettamente sfavorevole alla fecondità”. Tentando di riportare le donne tra le mura domestiche, cercava di convincerle a ingrassare. Guardava con orrore “le manichine”, ossia le indossatrici magre e feline, detestava i “gagà” e le “gagarine”, ossia le persone alla moda, suggeriva che la modella perfetta doveva essere alta 1,56/1,60, e pesare 55/60 chili.  I figurini e le fotografie di moda riproducevano belle ragazze robuste.
Il regime puntava inoltre su abiti che si rifacessero alla nostra tradizione popolare, al Medioevo e al Rinascimento, mentre con la conquista dell’Albania  ci si ispirò al suo folklore per costumi colorati e ricamati che furono propagandati per l’occasione da Maria Josè di Savoia. Si inventarono anche pudicissimi modelli di ispirazione religiosa, forse sull’onda della riconciliazione col Vaticano attraverso i Patti Lateranensi. Si lanciarono  violente campagne contro i pantaloni, contrari alla decenza e – chissà perché – alla maternità, e contro il trucco che – impiastricciando il volto - imitava sfacciatamente le dive di Hollywood, con le labbra arcuate e le sopracciglia rasate. Le signore continuarono comunque a inseguire la dieta, a copiare più o meno apertamente i modelli francesi, ad ossigenarsi, a guardare con estremo interesse le dive dei “Telefoni bianchi” che naturalmente si rifiutavano di uniformarsi al modello voluto dal regime.
L’autarchia stava creando notevoli problemi: alcune materia prime non potevano essere prodotte in Italia. Seta e lino si coltivavano facilmente nella penisola, mentre per il cotone – che sarebbe dovuto provenire dall’Etiopia – gli industriali italiani non erano stati capaci di ottenere quantità soddisfacenti; la lana delle pecore abruzzesi non poteva certo competere per qualità e abbondanza con quella inglese. Nelle more di queste difficoltà, il Duce affermò perentoriamente che bisognava sostituire le fibre mancanti con altre naturali e artificiali: la canapa, il fiocco di ginestra, l’ortica, il raion. La lana fu invece sostituita dal “Lanital”, una fibra derivata dalla caseina contenuta nei residui di latte di capra, con cui si ottenevano maglie che cedevano e che si ingrossavano se inumidite. Per le pellicce di volpi argentate, di astrakan, di ermellino, i cincillà, i visoni, le stole, le giacche, si dovette ricorrere ai nostrani conigli, magari ritinti.
La Seconda guerra mondiale  peggiorò la situazione in modo drammatico: dal 1941 entrarono in vigore le tessere per l’abbigliamento, mentre si dovette ricorrere sempre di più a materiali poveri. Fu obbligatorio risparmiare sui tessuti e sul cuoio, che servivano per le uniformi dei nostri soldati; gli abiti si accorciarono addirittura sopra al al ginocchio, scomparvero le calze e la riga fu dipinta su polpaccio; gli strascichi degli abiti e da sposa da sera furono aboliti, mentre i giornali sembravano ignorare il problema. Le riviste femminili propagandarono le direttive del regime: ci si scagliò contro la moda della vita di vespa, considerata antigienica, ci si oppose alle retine in stile romantico che raccoglievano i capelli lunghi, si suggerì di evitare il turbante, accusato di essere troppo orientale, si insistette sulla donna severa e littoria.
L’economia di guerra lanciò tuttavia alcune mode: tra queste i cappellini con la veletta e soprattutto le scarpe con le zeppe. La veletta, che dava al viso un’aria misteriosa, maliziosa e romantica, si era diffusa a partire dall’ottocento; dal momento che non era soggetta al tesseramento, durante l’autarchia fu utilizzata in pianta stabile per i piccoli copricapi femminili in materiale povero come la rafia e la paglia, appoggiati a coprire la fronte e svelare la nuca. La crisi e il divieto dell’uso del cuoio e dell’acciaio spinsero un calzolaio italiano, Salvatore Ferragamo, ad abolire il tacco e ad inventare la zeppa in sughero sardo, mentre rafia, cellophane, tela, fili metallici, legno e resine sintetiche, servirono per fabbricare la tomaia, caratterizzando la maggior parte delle scarpe degli anni Quaranta. La zeppa poteva avere anche tacco rientrante, ribattezzato ad “Effe” che fu brevettato.
Erano scarpe colorate, fantasiose, a volte visionarie, sempre divertenti, e piacquero molto. Ferragamo si era affermato ad Hollywood diventando “il calzolaio delle stelle” e calzando attori famosi come John Barrymore, Rodolfo Valentino, Lillian Gish o Mary Pickford. Insoddisfatto della manodopera americana, fece ritorno a Firenze dove esisteva da secoli un’importante tradizione manifatturiera del pellame, conoscendo tuttavia il successo mondiale solo alla fine degli anni ‘40.
Negli anni quaranta, incalzate dai bombardamenti, sfollate in campagna, le donne impararono a fabbricarsi un vestito nuovo e bicolore con due vecchi, a rivoltare il paletò del marito,  a farsi le mutande con le camicie vecchie. Ma nonostante la fantasia, l’arte di arrangiarsi, le tessere, i bombardamenti, la povertà, la difficoltà dei rifornimenti finirono per condurre quelle della classe medio/bassa al crollo e all’indifferenza totale verso qualsiasi tipo di moda: denutrite, senza pane, zucchero, uova o carne, a volte vestite di cenci, o perfino prive di calzature, con scarpe di carta, o coi soli calzini, le italiane si consegnarono in questo modo al dopoguerra.

Bibliografia:
Natalia Aspesi, Il lusso e l'autarchia, Rizzoli, Milano, 1962

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