Nell'estate
del 1824 la vedova di Carlo X di Borbone,
la principessa Maria Carolina Ferdinanda Luisa di Berry, decise di
prendere un bagno nelle non calde acque di Dieppe, nell'alta
Normandia. Si tuffò in mare completamente vestita con un abito in
panno, scarpette di vernice, cappello e guanti, inaugurando con
sprezzo del pericolo la moda dei bagni di mare e facendo
scandalizzare le corti di mezza Europa. Questa donna spregiudicata e
moderna in realtà aveva copiato l'idea dall'Inghilterra, dove questa
pratica era in uso dal XVIII secolo, prima del quale quella vastità
acquea senza fine era vista come qualcosa di misterioso e pericoloso,
un elemento popolato da terribili mostri marini, che costringeva la
gente – aristocrazia compresa – a tuffarsi nelle onde più
rassicuranti dei fiumi. Si indossavano per la bisogna camicioni di
tela robusta e cappelli, dal momento che l'imperativo della moda
imponeva alle signore una pelle lattea, sicuro stigma di nobiltà
rispetto all'abbronzatura rozza delle contadine. Questi sacchi
informi coprivano il corpo anche per motivi di pudore, gli stessi per
cui uomini e donne si immergevano in spazi separati, scendendo in
acqua direttamente da carretti di legno chiusi detti “macchine da
bagno” che
permettevano di effettuare il cambio degli abiti senza essere visti.
Tutto questo armeggiare ci dice come a quell'epoca la visione – non
solo del corpo intero, ma anche di parti come le caviglie – fosse
considerata altamente sconveniente; non a caso un confidente della
Serenissima Repubblica di Venezia nel 1762 segnala come meretrici le
signore che si azzardavano a fare il bagno al Lido. Il graduale
scoprirsi di ulteriori porzioni e l'intervento della censura fanno
parte della storia del costume da bagno e della lotta per
l'emancipazione verso la quasi nudità.
La
prima rappresentazione di un due pezzi femminile risale all'epoca
romana: un ambiente di servizio della grande Villa del Casale di
Piazza Armerina in Sicilia, è pavimentato con un famoso mosaico che
mostra dieci fanciulle in slip e reggiseno mentre compiono degli
esercizi ginnici, eseguiti – non sappiamo se in palestra o per
allietare dei commensali – ma comunque all'asciutto. La rigida
morale cristiana mise una pietra tombale sull'esibizione del corpo in
pubblico e sarebbe stata la diffusione delle vacanze al mare a
partire dall'Ottocento che avrebbe riaperto il problema di come
tuffarsi in acqua senza essere trascinati in fondo dal peso del
tessuto inzuppato. Nel frattempo (grazie a Lavoisier) la chimica
aveva scoperto l'esistenza dell'ossigeno, mentre i medici avevano
cominciato a prescrivere l'aria pura e l'acqua di mare per la cura di
parecchie malattie. Con la passione per la talassoterapia nacquero i
primi stabilimenti balneari in cui le signore si recarono
completamente vestite almeno fino al 1860, quando i giornali di moda
iniziarono a pubblicare le prime e pudicissime illustrazioni di
costumi da bagno: pantaloni larghi e lunghi fino ai garretti, una
giacchina con maniche che copriva i fianchi (entrambi rigorosamente
neri), una cuffia munita di visiera parasole, senza dimenticare le
scarpe e naturalmente il busto, con cui entravano in acqua le
sciagurate che volevano esibire a tutti i costi la vita di vespa
A
scuotere quella castigata processione balneare pensò la nuotatrice e
attrice australiana Annette Kellermann che in una calda domenica
d'estate del 1908 si presentò in una spiaggia vicino a Boston con un
costume nero di lana che le lasciava scoperte braccia e gambe, una
provocazione inaudita che le costò l'arresto. In seguito, per niente
intimidita, lanciò una sua linea di costumi che ebbe un notevole
successo. Era l'inizio di una battaglia che le ragazze avrebbero
combattuto contro la censura per una sessantina d'anni. Armati di
metro regolamentare poliziotti e guardiani del buon costume
cominciarono a percorrere in lungo e in largo le coste per
controllare lunghezze, misurare scollature, multare o perfino mettere
in galera le spudorate, ma era una lotta perduta in partenza:
all'inizio degli anni Ruggenti con una maggiore coscienza
dell'importanza della salute personale e dell'esercizio fisico
tramite il nuoto, i costumi da bagno si accorciarono ulteriormente.
Il business della moda aveva fatto il resto, introducendo modelli
sbarazzini a colori vivaci. Le nuove linee furono anche influenzate
dalla diffusione dell'abbronzatura, non si sa se lanciata dalla
cantante Marthe Davelli o da Coco Chanel al ritorno da una vacanza a
Biarritz. Negli anni Trenta cadde un'ulteriore frontiera del pudore:
la stilista italiana Elsa Schiaparelli ridisegnò il tradizionale
costume denudando la schiena e permettendo l'esposizione al sole di
una pelle sana e colorata, ultima frontiera del glamour; intanto il
classico binomio tunichetta-calzoncini cedeva il posto al costume
intero.
Nell'Italia
del Ventennio l'abbigliamento era controllato dal fascismo attraverso
l'Ente nazionale della moda, fondato nel 1935 e voluto fortemente dal
Duce che voleva costringere le donne ad abbandonare lo stile francese
– allora copiato in tutto il mondo - in favore di un riconoscibile
modo di vestire italiano e patriottico. Mussolini amava le donne
robuste e credeva fermamente che la funzione femminile principale
fosse quella della maternità. Convinto che “l'eleganza è
nettamente sfavorevole alla fecondità”, il regime dettava le
direttive attraverso le riviste di moda, suggerendo perfino che la
modella perfetta doveva essere alta meno di un metro e sessanta e
pesare 55/60 chili. Sui giornali di moda e sui manifesti turistici
che pubblicizzavano le vacanze in riviera comparvero illustrazioni di
ragazze in costume dai seni e dai fianchi generosi e dalla vita
larga, futura promessa di prole abbondante; intanto il MinCulPop,
Ministero della Cultura Popolare, aveva emanato una disposizione che
vietava ai giornali la pubblicazione di fotografie di donne nude o in
abiti molto succinti che secondo Galeazzo Ciano erano
antidemografiche.
Negli
Stati Uniti si usavano già con disinvoltura costumi da bagno che
sarebbero arrivati in Europa solo dopo la guerra: lucidi e colorati,
a un solo pezzo che arrivava non oltre le natiche, o due pezzi
(reggiseno e mutandina) che audacemente lasciava libero lo stomaco.
La novità erano le fibre elastiche fascianti che venivano a
sostituire la lana che si appesantiva durante il bagno e a volte
mostrava imbarazzanti nudità.
Nel 1946, un anno dopo la fine del
conflitto, lo stilista francese Louis Réard presentò – basandosi
su un modello più castigato del suo collega Jacques Heim – un
costume talmente ridotto da esibire anche l'ombelico e l'inguine, e
che fu presentato al pubblico addosso a una spogliarellista perché
non si trovarono indossatrici tanto disinibite da portarlo con
disinvoltura. L'impatto fu così forte che il microscopico indumento
fu ribattezzato Bikini, dal nome di un atollo delle isole Marshall
dove l'America eseguiva esperimenti nucleari che tra l'altro ebbero
tragiche conseguenze su una parte abitanti. Il sonno della ragione
genera mostri: l'abbinamento fra il sex appeal femminile e il
terribile ordigno sarebbe stato vincente anche negli anni Cinquanta
quando sempre in America una bella ragazza bionda, Lee Merlin, fu
eletta Miss Atomic bomb indossando appunto un costume da bagno a
forma di fungo.
All'estero il nuovo indumento fu immediatamente accolto con favore da dive e donne famose come la principessa Margaret, sorella della regina d'Inghilterra e soprattutto da Brigitte Bardot, che nel 1953 visitò la portaerei americana Enterprise vestita con un bikini che sembrava un'ombra (con sommo gaudio dei 2000 marines), mentre da noi incorse nei rigori della censura democristiana alleata a quella ecclesiastica. Nel 1957 il manifesto del film di Dino Risi, “Poveri ma belli” che mostrava una Marisa Allasio ammiccante in due pezzi, scandalizzò Pio XII al punto da causarne il sequestro il giorno dopo l'uscita; ancor più Illuminanti in proposito furono le circolari che il ministro dell'interno Mario Scelba trasmise ai questori e al Comando Generale dell'arma dei Carabinieri in cui vengono indicate perfino le misure per i costumi da bagno di ambo i sessi “onde evitare un abbigliamento eccessivamente succinto quindi lesivo delle regole del pudore e della decenza” (6 agosto 1963). Il documento fu accolto tra lo sghignazzo generale, anche perché conteneva in allegato un grazioso modellino in scala 1/5 di un paio di slip maschili regolamentari; nelle spiagge più spudorate della penisola, Rimini e Viareggio, ancora una volta i carabinieri dovettero constatare le infrazioni multando o allontanando i trasgressori. Più forte della censura fu comunque l'ostinazione dei bagnanti e, se pur
con una certa difficoltà, il bikini finì per affermarsi e per
diventare sempre più ridotto.
Nel
1964 lo stilista austriaco Rudi Gernreich lanciò il monokini, un
topless in maglia che si concludeva a metà del busto ed era
sostenuto da due bretelle incrociate, e che dichiarava le idee
libertarie del sarto circa l'esibizione del corpo umano che lui non
considerava vergognosa. Si era in piena “rivoluzione sessuale”,
ma il modello non riuscì ad avere successo commerciale, pur aprendo
la strada all'esposizione del nudo: all'inizio degli anni Settanta
una modella brasiliana, Rose de Primo, si fece notare sulla spiaggia
di Ipanema indossando un Tanga, il famoso triangolino di stoffa che
copre solamente il pube lasciando liberi i glutei. Non era una novità
assoluta perché che il copri-sesso era un indumento di origine
tribale diffuso in Amazzonia, ma su un lido connotato dalla cultura
occidentale scatenò un parapiglia. L'esibizione pressoché totale
del corpo ha portato inevitabilmente al culto dell'apparenza:
obbligatorio avere un look perfetto e costruito attraverso diete,
sport, ginnastica, jogging, danza, body building, dove i nemici da
combattere sono pancia e cellulite, problemi che colpiscono (e
avviliscono) la maggior parte delle donne adulte. Oggi si va in
spiaggia con qualsiasi cosa. Sembra che le ultime novità della moda
siano il “nipple bikini” che ha il reggiseno color rosa carne con
i capezzoli stampati sopra, e il “naked bikini” che si scioglie
completamente una volta a bagno nell'acqua, anche se a questo punto
sorge una domanda: non sarebbe meglio frequentare una spiaggia per
nudisti?
Fonti:
Doretta
Davanzo Poli, Costumi da bagno, Zanfi editori
Natalia
Aspesi, Il lusso e l'autarchia, Rizzoli