domenica 2 marzo 2014

Le ricette di Caterina Sforza tra cosmesi e superstizione

Prima della nascita delle moderne industrie cosmetiche dell’Ottocento e dell’apertura di negozi e grandi magazzini,  i prodotti di bellezza femminili erano pazientemente preparati in casa. Se durante il Medioevo le officine dei monasteri erano le depositarie di tradizioni  ereditate sia dal passato, sia dalla cultura araba, nel Rinascimento ogni famiglia abbiente conservava presso di sé libretti di “Secreti”, detti anche “Tesori” o “Tesoretti”,  in cui venivano trascritte non solo ricette per fare cosmetici tramandate di madre in figlia, ma anche per preparare medicine o prodotti per uso domestico come ravvivanti di colore dei tessuti, candele, antiparassitari e così via.  
Ne è un esempio il ricettario di Caterina Sforza (1463-1509) intitolato "Gli experimenti della excellentissima signora Caterina da Forlì". Questa donna straordinaria fu a lungo contessa di Imola e Forlì, che governò con pugno definito "virile" dai suoi contemporanei. La cura del governo nell'Italia turbolenta del Rinascimento, non le impedì di occuparsi della sua bellezza, di pratiche erboristiche, farmaceutiche e alchemiche, che appuntò in un manoscritto stilato parte in latino parte in volgare, scomparso alla sua morte, e poi ritrovato, ricopiato e dato alle stampe solo nel XIX secolo. 
Composto da 454 ricette sperimentate dalla contessa in laboratorio, molte con la dicitura "è provato", il documento è uno specchio dello stato delle conoscenze scientifiche alla fine del XV secolo: certamente pieno di retaggi di superstizioni medievali, presenta tuttavia intuizioni e rimedi che costituiscono il fondamento della moderna omeopatia, sulla base della formula "similia similibu curantur", il simile cura il simile.
La raccolta comprende varie categorie di preparati: una parte, quella che riguarda i veleni e gli inchiostri simpatici, rispecchia lo spirito rinascimentale di sospettosa rivalità fra i principi italiani e le loro crudeli lotte per il potere; ci sono poi gli studi alchemici sulla trasformazione dei metalli per il raggiungimento della pietra filosofale. Il gruppo più cospicuo è composto da ricette di medicina con le rispettive e lunghissime metodologie di preparazione, non solo per curare le malattie, ma anche per favorire la gravidanza e procurare l'aborto, aiutare il sonno, guarire dalla "melanconia", curare l'impotenza maschile, "far devenire strettissima la natura", aumentare il piacere sessuale. 
Tra i precetti spicca un anestetico, ricetta notevole se si pensa che all'epoca si operava senza tanti riguardi per il dolore del paziente, ma non nuova nella medicina europea, che utilizzava già prima del Mille "spugne soporifere" da far annusare all'ammalato prima dell'intervento. La composizione che Caterina riporta contine ingredienti antalgici - peraltro molto pericolosi - già dettati dalla famosa Scuola Medica Salernitana: oppio, succo di more acerbe, di foglie di mandragola, di edera, di cicuta, e altre piante.
Seguono poi 66 ricette per esaltare e preservare la bellezza del viso e del corpo divise in cosmetici, lozioni, creme, belletti, lisci, elisir e pomate; quest'ultimo gruppo doveva stare molto a cuore alla contessa, di cui non abbiamo un ritratto certo, ma che era descritta dai contemporanei come donna bellissima e che considerava il culto della propria estetica come un ideale di vita per cui valeva la pena spendere tempo e denaro. Caterina Sforza si dedicò ai suoi "experimenti" con costanza tutta la vita, intrattenendo una fitta corrispondenza con medici, speziali, studiosi, nobildonne e fattucchiere, ossia coloro che in epoca pre-scientifica erano preposti alla preparazione dei rimedi curativi.
Molti preparati servivano per "fare la faccia bianchissima et bella et colorita", per "far crescere li capelli", per "far venire li capelli rizzi", per "far li capelli biondi de colore de oro, per "far le mani bianche et belle tanto che pareranno de avorio"; il motivo dell’attenzione verso la pelle chiara e splendente che si ritrova in tutte le ricette cosmetiche antiche, è dovuto al desiderio di aderire a una schematizzazione estetica per cui una donna per essere bella doveva avere carnagione bianchissima,  labbra e guance rosse e figura dalle linee arrotondate, caratteristiche che, in una società fortemente classista, diversificavano le donne facoltose da quelle scure e magre delle classi povere.
Parecchie formulazioni sono legate per analogia cromatica: così il bianco ha il potere di schiarire la pelle grazie al bulbo del giglio, guscio d'uovo, piccione bianco distillato, raschiatura d'avorio. Altre giocano sull'etimologia: così la radice di celidonia, il cui nome deriva dalla parola greca "chelidon", che indica anche la rondine, produce un latte caustico che fa cadere i capelli, mentre per raggiungere lo stesso scopo Caterina propone una ricetta a base di rondini distillate. Del medesimo genere etimologico è l'uso del finocchio che rende acuta la vista (occhio fino). Per fare ricrescere le chiome la contessa suggerisce polvere di rane, lucertole e api essiccate al forno o, per una depilazione duratura della parte anteriore del cranio, come voleva la moda dell'epoca, l'applicazione sulla fronte di mastici vegetali, una lastra di piombo e pezze bagnate nel sangue di pistrello.
Più ragionevoli i prodotti per nutrire la pelle, che presentano un vero e proprio campionario di proteine: albume, olio, sego di agnello, di vitello e di maiale, olio di mandorle, farine vegetali. La signora di Forlì conosceva anche i segreti per fare pezzette "de Levante" con le quali le donne si arrossavano le guance. La tintura era costituita da allume di rocca, calce viva e brasile, ossia il legno di "Caesalpinia echinata", detto anche Pernambuco, che si usava anche per tingere i tessuti; nel testo si raccomanda di togliere la calce quando la pelle comincia ad arrossarsi senza rendersi conto che il fenomeno costituisce l'inizio di una pericolosa infiammazione. Non c'è da meravigliarsi, stante le conoscenze scientifiche dell'epoca, dell'uso cosmetico di altri prodotti come la cerussa e il litargirio, chiamato da Dioscoride Pedanio (medico e farmacista greco, 40-90 d.C.) "spuma d'argento", derivati dal piombo ed usati fin dall'antichità per schiarire la carnagione. Che fossero pericolosi lo si sapeva, ma solo se ingeriti; non ci si rendeva conto delle problematiche tossiche relative all'assorbimento attraverso gli strati cutanei.
La più famosa tra le ricette di Caterina è l'Acqua celeste che, come dice l'autrice,"è de tanta virtù che li vecchi fa devenir giovani et se fosse in età di 85 anni lo farà devenir de aparentia de anni 35, fa de morto vivo cioè se al infermo morente metti in bocca un gozzo de dicta aqua, pur che inghiottisce, in spazio di 3 pater noster, ripiglierà fortezza et con l'aiuto de Dio guarirà." L'acqua celeste era una sorta di tonico che conteneva decine di ingredienti che venivano distillati e lavorati: ne facevano parte anche salvia, basilico, rosmarino, garofano, menta, noce moscata, sambuco, rose bianche e rosse, incenso, anice. Essa non è il primo caso di "acqua miracolosa": già alla fine del XIV secolo era stata distillata quella di Elisabetta Regina di Ungheria che, secondo quanto testimonia lei stessa, la fece guarir dalla gotta e le procurò alla veneranda età di 72 anni, una richiesta di matrimonio da parte del venticinquenne re di Polonia. Questi rimedi rispecchiano la ricerca plurisecolare dell'elisir di lunga vita, una leggendaria pozione capace di dare immortalità su cui vertevano gli studi degli alchimisti medievali, e che si riflette anche nell'uso da parte di Caterina della Teriaca, un farmaco a base di carne di vipera già noto nell'antica Grecia, contenente oltre a ciò decine di ingredienti, e che si pensava dotato di virtù magiche e capace di debellare qualsiasi malanno.
Si danno di seguito tre ricette di bellezza:
A far la facia alle donne bellissima et chiara
Piglia radice de yreos et radice de cucumeri asinini(1) lupini, circer biancho, fava, orzo, seme de melone, ancora polverizza sottilmente e impasta con aqua de melone, o vero aqua de orzo ben cotta et impastala in piccola forma et ponilo a seccare a lo aere, o vero al vento et come è secca polveriza de novo et piglia de quella polvere et con albume de ovo fa un linimento sopra la faccia et lassa star per un hora et poi lavala con semola et aqua tepida, che è mirabilissima.”
A fare li denti bianchissimi netti et belli et consolidar gengive perfettamente
Piglia osso de seppia, marmo bianco, passato de ciascuno da essi con una polvere de coralli once 3. Allume de rocco(2) brusato, mastice e canella once 1, e fa de queste cose sottilmente piste polvere poi componi con mele rosato quanto a te p’are bastante, che sia a modo de ontione, et con questo fregati benissimo li denti che veneranno bellissimi et eccelenti, et se incarnano et se conserva le gengive optimamente.(3) 
A fare le mammelle piccole et dure alle donne
piglia zusverde tanta quantità che faccia una scodella de succo, et aceto bianco più forte tu puoi et componi lo succo con aceto, poi bagna ditte pezze di canovaccio in ditta aqua et siano beni bagnati et poni sopra el petto et abbi doi tazzette di vetrio sopra le pezze che vadano sopra alle tecte, et muta spesso poi lega con una fascia longa, più stretto che poi sofferire, et cusì farai piccole dure et el petto bello, mentre tu fai questo la domina sia casta.
1 - "Ecballium elaterium", cucurbitacea endemica nel bacino del Mediterraneo
2 - Allume di rocca, solfato doppio di alluminio e potassi, anticamente usato per fissare la tintura dei colori per tessuti e per fabbricare cosmetici.
3 - La ricetta farebbe inorridire qualsiasi dentista del giorno d'oggi, perchè a base di polveri abrasive dannosissime per lo smalto, anticamente utilizzate per rendere candidi i denti.

Bibliografia:
Elio Caruso, Ricette d'amore e di bellezza di Caterina Sforza. Signora di Forlì e di Imola, Società editrice il Ponte Vecchio, Cesena, 2009
Paolo Rovesti, Alla ricerca dei cosmetici perduti, Marsilio editore, Venezia, 1975
Roberto Salvadori, Il dolore, cenni storici, Hyroniche edizioni telematiche