"Il presepe napoletano è il Vangelo tradotto in
dialetto partenopeo”affermava Michele Cuciniello che
donò al Museo di San Martino di Napoli la sua meravigliosa collezione, inaugurata felicemente nel 1879. Nel XVIII secolo, grazie all’impulso dato da Carlo III di Borbone, il presepe era diventato in città una vera e propria forma d’arte. Il principe era consigliato dal suo confessore padre Rocco che vi vedeva uno strumento di propaganda; all’approssimarsi del Natale il religioso infatti esortava il popolo a costruire all’interno delle case una rappresentazione della Natività, promettendo i castighi dell’inferno a chi non avesse eseguito i suoi suggerimenti. Carlo III contribuì a dare l’esempio e coinvolse nella creazione del presepe tutta la sua corte, dando luogo a vere e proprie competizioni tra la nobiltà locale.
I migliori artisti della Napoli settecentesca come gli scultori
Giuseppe Sammartino, Matteo e Felice Bottiglieri, Nicola Somma, Lorenzo
Vaccaro, assieme a scenografi, e artigiani di ogni tipo, orafi, liutai, ceramisti, erano chiamati a
realizzare le statue - che avevano viso e mani in terracotta, occhi in vetro, anima in stoppa e fil di ferro e abiti cuciti a mano - e gli accessori Per la realizzazione
del presepe si ricorreva ai prodotti delle Reali fabbriche borboniche (arazzi,
porcellane, pietre dure, argenti, sete) che permettevano di costruire le statuette
e i loro corredi i quali costavano vere e proprie fortune al punto che non di
rado la corsa al presepe più bello portò all’indebitamento delle famiglie
aristocratiche; nei registri giudiziari alla voce "debiti" figuravano per
l’appunto queste messinscene sacre e costosissime. Infine, ogni anno si
apportavano al presepe variazioni nelle pose e nella scenografia in modo da
assicurare scene sempre diverse.
donò al Museo di San Martino di Napoli la sua meravigliosa collezione, inaugurata felicemente nel 1879. Nel XVIII secolo, grazie all’impulso dato da Carlo III di Borbone, il presepe era diventato in città una vera e propria forma d’arte. Il principe era consigliato dal suo confessore padre Rocco che vi vedeva uno strumento di propaganda; all’approssimarsi del Natale il religioso infatti esortava il popolo a costruire all’interno delle case una rappresentazione della Natività, promettendo i castighi dell’inferno a chi non avesse eseguito i suoi suggerimenti. Carlo III contribuì a dare l’esempio e coinvolse nella creazione del presepe tutta la sua corte, dando luogo a vere e proprie competizioni tra la nobiltà locale.
Lo scarno tema della narrazione evangelica di Matteo e Luca è stato immaginato dalla sbrigliata fantasia napoletana mettendo al centro la Natività, attorno a cui si stringono i pastori adoranti e i re Magi col loro ricchissimo corteo, per poi allargarsi all'infinito nelle figure di contorno che si ispirano alla vita popolare dei mercati e delle piazze, con miriadi di personaggi che esprimono lo spirito festoso del popolo partenopeo. Né manca la taverna in cui Maria e Giuseppe non avevano trovato alloggio, popolata di bevitori, giocatori, allegre brigate. Il mercato poi si snocciola nelle sue attività mensili riprese dalle medievali raffigurazioni dei periodi dell’anno: gennaio e febbraio con il macellaio e il salumiere, marzo col ricottaro, il pollivendolo ad aprile, il venditore di uova a maggio, le donne coi canestri di ciliegie a giugno, il panettiere a luglio, i pomodori ad agosto, il banchetto dei cocomeri a settembre, il contadino o il seminatore ad ottobre, il vinaio o “Cicci Bacco” a novembre e il caldarrostaio e il pescivendolo a dicembre. Altre figure caratteristiche sono “Benino”, l’uomo che dorme, i Compari Zi’ Vincenzo e Zì Pasquale che vendono i numeri del lotto, il Monaco, la Zingara, la Meretrice.
I personaggi del presepe sono abbigliati in modo molto
accurato con abiti spesso cuciti dalle stesse dame di corte. Non si trattava
però di costumi quotidiani, ma delle vesti tradizionali indossate dal popolo
per le feste, mentre tutti i giorni della settimana la gente si metteva panni
semplici da lavoro. Le figure rappresentano un’umanità semplice,
felice e giocosa che poteva essere ammirata nelle processioni e nelle sagre,
nei matrimoni e nei riti.
Proprio in quel periodo, elementi di ordine economico come il progresso dell’industria e delle comunicazioni avevano dato impulso al miglioramento del tenore di
vita dei ceti bassi, che
finirono per essere alla base di nuove mode popolari. Un ulteriore incentivo all'arte presepiale fu anche
l’amore per l’eleganza di Carlo III che in ogni occasione incitava – forse per dimostrare la bontà del suo regno – alla galanteria e al
gusto del vestire. I canoni del costume festivo erano rigorosamente rispettati
in una ricostruzione che brillava di colori, di finiture dorate, di bottoni e
perfino di gioielli. E non solo la Campania ma anche il Regno delle due Sicilie
era raffigurato in tutta la sua varietà di varietà. I tessuti erano realizzati
nella real Colonia di San Leucio, la manifattura voluta da Carlo III per
realizzare pregiate e richiestissime stoffe in seta: in particolare la
cosiddetta misura “terzina” consistente in decorazioni a piccoli fiori e forme
geometriche.
Nella cavalcata dei Magi si scatena il gusto del fantastico: i costumi orientali dei re e del loro seguito si ispiravano a quelli degli uomini al seguito degli inviati del Sultano e del re di Tripoli, o a quelli degli ambasciatori della Porta Ottomana in visita a Napoli, che nel 1778 sfilarono in pompa magna per via Toledo. Nel presepe oltre ai re spiccano le figure dei Giannizzeri, la fanteria che formava la guardia personale del Sultano, e dei “Georgiani” provenienti dalle regioni meridionali del Caucaso, ossia dignitari di razza bianca vestiti alla turca con ampi e sbuffanti pantaloni, con una lunga palandrana piena di alamari, ricami e galloni.
L’odalisca dalla bellezza procace invece è un personaggio di fantasia che non poteva essere stata vista dal
popolo. Algerini, mongoli, turchi,
georgiani, samaritane, sono ricoperti di tessuti ed accessori preziosi rigorosamente
ridotti in scala. Anche i servitori dei Magi, i nani e i portantini furono fedelmente ricostruiti assieme agli animali - cani, cavalli, scimmie e cammelli - con le loro bardature. Lo scopo finale di queste messinscene era
naturalmente di suscitare meraviglia nello spettatore e ostentare la ricchezza
del proprietario.
Una delle caratteristiche del vestiario festivo popolare era la portabilità necessaria per le esigenze lavorative: grembiuli, braghe larghe non fermate sotto il
ginocchio ma lasciate libere di ricadere all’altezza del polpaccio, pratiche
giacche corte. Mentre le vesti dell’aristocrazia erano rigide e complicate dimostrando
che questo ceto non praticava lavori manuali, quelle della povera gente lasciavano
libertà di movimento costituendo in tal modo un segno distintivo di classe.
Il corredo
femminile era riconducibile a pochi tipi base, rielaborati e
caratterizzati per ogni paese, città, rione e persino gruppo familiare: caratteristiche
sono la linea del bustino aderente ma non strozzato in vita e la gonna corta e
arricciata ma non esageratamente allargata dalle impalcature interne portate dalle aristocratiche che impedivano loro perfino di sedersi. Fondamentale elemento di
riconoscimento è poi il pezzo di stoffa destinato a coprire il capo, a volte il
grembiule stesso ripiegato sulla testa, a volte il fazzoletto o il velo.
Nel
presepe particolarmente pittoresche sono le fogge delle donne delle isole di
Ischia e Procida: zimarra in seta chiusa da bottoni d’oro, corpetto allacciato
davanti, grembiule e fazzoletto arrotolato sul capo. Le donne d’Ischia invece
indossano abiti riccamente ornati, camicia con maniche ampie, zoccoli e
soprattutto un grande fazzoletto ripiegato sul capo – detto tovaglia -
che distingueva l’identità locale e che era portato anche in altre località del
centro Italia.
Il costume dei pastori abruzzesi è invece caratterizzato dal
panciotto in pelle di pecora e da fasce o panni arrotolati attorno alle gambe e
ciocie ai piedi. Questa tipica calzatura, ancora portata nel
secolo scorso, è costituita da una suola di cuoio flessibile
assicurata al piede da corregge intrecciate. Il suonatore di violino, un po’
più in alto nella scala sociale, ha invece un abito in seta lucida
quadrettata o a fiori e completato da eleganti calze aderenti.
Il costume borghese – in ritardo sulle novità della moda di
corte che copiava le fogge di Francia – comprendeva per gli uomini una giacca
lunga con maniche a larghi risvolti, e per le donne una gonna arricciata e un
corpetto aderente. Più semplice del vestito aristocratico, l’abito
di questa classe non denotava tanto una limitata disponibilità di mezzi
economici, quanto un gusto per la vita sobria, dedicata al lavoro e alla
costruzione di un solido patrimonio finanziario in confronto con l’aristocrazia
sprecona.
Fonti:
Il folklore – volume XI della serie Conosci l’Italia,
Touring club italiano, Milano, 1967
Il presepe napoletano – volume 47 della serie “Forma e
colore”, Sadea/Sansoni editori
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