venerdì 17 febbraio 2012

ll busto

L’uso di stringersi il busto per reggere  i seni e avere vita sottile risale, per quanto ne sappiamo, al periodo cretese, come dimostrano statuine di dee conservate al museo di Hiraklion. Nella Grecia antica, si usava invece una fascia riccamente colorata detta Tainìa, Stethòdesmos, Stròphion, che serviva a reggere, accentuare o comprimere il seno. Nemmeno le romane sfuggirono a questa intrigante moda che nella lingua latina era detta Strophium.  Marziale lo definiva:”Trappola a cui nessun uomo può sfuggire, esca che riaccende di continuo l’amorosa fiamma”.  
I primi busti fecero capolino nel ’500, probabilmente influenzati dai rigidi costumi spagnoli che si estesero in Italia ed in Inghilterra, anche se  alcune fonti ne  attribuiscono l'introduzione  a Caterina de Medici, moglie di Enrico II di Francia. Erano gabbie di ferro sagomate e a volte finemente lavorate che terminavano con una lunga punta sul davanti che rendeva anche il semplice sedersi su una sedia un supplizio. Per fortuna la lunga stecca interna non era fissa e poteva essere estratta. Un tipico esempio è in mostra al museo di Cluny, a Parigi. Pesanti e scomodi, questi corsetti furono rivestiti di tessuti preziosi per non causare piaghe.
Una volta inaugurato, il busto rimase un indumento fondamentale per le signore che desideravano la vita sottile, pur perfezionandosi nella linea e diventando più leggero di quello cinquecentesco. Accanto alle “ossa” in ferro (così venivano chiamate le strutture nascoste nel tessuto) si usavano stecche di balena più flessibili. Durante il XVIII secolo, in cui vennero di moda scollature abissali, questo indumento poteva essere messo in vista sul davanti, a volte allacciato con stringhe. Un altro modo di portarlo era nasconderlo sotto l’abito. In entrambi i casi era una vera e propria tortura perché la donna non poteva piegarsi. A partire dal 1770 a dettare moda fu l’Inghilterra, attraversata dal fermento della rivoluzione industriale, che impose abiti femminili più pratici e con  minime costrizioni. La prima a indossare bustini più leggeri fu la stessa regina di Francia Maria Antonietta, il cui gusto dettava lo stile dell’abbigliamento a tutta Europa. Al culmine della rivoluzione francese, poi, i primi decreti del nuovo direttorio annullarono ogni legge circa  l’abbigliamento: da allora in avanti ognuno poteva vestirsi come voleva e alle donne era consentito liberarsi dell’impaccio del corsetto.
L’improvvisa libertà durò circa un trentennio. La reintroduzione del busto,vero e proprio tiranno della moda femminile ottocentesca, avvenne in modo strisciante, alimentata dai giornali di moda che ne esaltavano l’eleganza, la flessibilità, la leggerezza; un figurino del “Corriere delle dame” ne mostra un esempio: stringhe sulla parte posteriore e fibbia per chiudere la vita. Nel 1835 il ritorno del corsetto era ormai un fatto compiuto: si era affascinati dal corpo a clessidra, della vita minuscola, della gonna enorme e ovoidale sostenuta dalla “Crinolina”. Il busto si armonizzava col candore e la forma della biancheria femminile che mai come nell’Ottocento fu ricca  e variata.  Uno dei problemi del corsetto era che necessitava di una seconda persona per allacciarlo o slacciarlo: nel 1840 fu  messo a punto il busto “à la parseuse”, ossia “alla pigra” che permetteva, con un sistema di lacci elastici, di indossarlo da sole.
La contraddizione stava nel fatto che, mentre l’ideale estetico era quello della donna in carne,  la vita si assottigliò a metà del secolo a una circonferenza ideale di 40 centimetri, ossia quella  che poteva possedere solo una creatura anoressica. Nel 1859 un giornale parigino riportò la tragedia di una giovane donna, ammirata per la vita sottile, che morì due giorni dopo un ballo perché il busto le aveva stretto le costole al punto che le avevano perforato il fegato.  E i medici? Si dividevano tra due fazioni, influenzate anche da pregiudizi correnti: c’era chi riteneva il busto indispensabile per reggere la figura femminile”naturalmente fragile”, pensando che la colona vertebrale andasse opportunamente sostenuta, e chi lo criticava aspramente perché comprimeva tutti gli organi interni e provocava svenimenti ed evidenti malformazioni fisiche. “Nel 1887 il dottor Robert L. Dickinson pubblicò un articolo sul New York medical journal che denunciava le sofferenze e le malformazione che i corsetti infliggevano alle donne, dalla pressione causata dai corsetti risultano profonde escoriazioni, e a volte sopraggiunge la morte.
Alla voce dei medici si univa anche quella delle prime femministe. L’attivista americana Elizabeth Stuart Phelps, nel 1874 (un secolo prima dei reggiseno bruciati sulla pubblica piazza negli Anni ’70), esortava le donne a dare fuoco ai loro corsetti: "Fate un falò delle crudeli stecche d’acciaio che per così tanti anni hanno tiranneggiato sul vostro torace e addome. E tirate un sospiro di sollievo per la vostra emancipazione che, ve lo posso assicurare, inizia da questo momento" (da Focus storia, giugno 2010).
Tuttavia la condizione menomante del busto fu ignorata fino alla fine del secolo: ad esempio nel 1880 un certo dott. Scott ne lanciò uno elettrico, assicurando che avrebbe curato  “paralisi, reumatismi, disturbi della colonna vertebrale, dispepsia, stitichezza, guai della circolazione, debolezza nervosa, torpore e così via” (Bernard Rudofsky, Il corpo incompiuto).
La tortura cominciava fin da bambine e continuava stringendo gradatamente la fragile gabbia toracica. Alla fine del secolo nel periodo Liberty, venne introdotto un nuovo tipo di corsetto che partiva da sotto i fianchi, li inarcava indietro e spingeva il seno molto in alto, stretto in una forma che sembrava ignorare che la donna possiede due mammelle e che Rudofsky definisce “monopetto sbalzato”. Per le donne magre il soccorso poteva arrivare da seni finti e natiche posticce. Era la linea ad Esse, detta anche “schiaccia ventre”che fu di moda fino al 1910 circa. Non solo, così come l’Ottocento  aveva inventato un abito per ogni occasione (il viaggio, il ballo, lo sport, il giardinaggio, la visita, la gita in carrozza ecc.) anche il busto si differenziò nei tessuti e nei modelli a seconda delle circostanze della giornata e delle stagioni. Perfino lo sport, che stava diventando di moda, pretendeva l’uso del corsetto sia per le bagnanti (la ditta Weber ne aveva inventato uno antiruggine) sia per tutte quelle che cominciavano a praticare attività all’aperto come le tenniste, le alpiniste, le cicliste,allora dette “velocipediste”.
Il corsetto, giunto ormai all’apice ma sempre più considerato un doloroso impaccio,  tramontò nel 1910 quanto il sarto parigino Paul Poiret cambiò radicalmente la silhouette delle donne rilanciando il cosiddetto "stile impero" che comportava vita alta e corpo libero. D’altro canto la vita moderna e soprattutto l’immissione delle donne nel mondo del lavoro durante le due guerre, rendeva il busto del tutto anacronistico. Solo nel 1946 lo stilista Christian Dior lanciando il suo celebre  "new look" cercò di reintrodurre la  "vita da vespa" detta guêpière.

Bibliografia:

Rosita Levi Pisetzhy, La storia del costume in Italia, Ed. Istituto editoriale Italiano, Milano 1969 Bernard Rudofsky, Il corpo incompiuto. Ed. Arnoldo Mondadori, Milano, 1971
Béatrice Fontanel, Busti e reggiseni, Ed. Idea Libri, Rimini, 1997
Anita Rubini, Bianca Maria Rizzoli, “Vite da vespa” Focus storia, Ed. Gruner+Jahr/Mondadori, giugno 2010.

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