venerdì 12 maggio 2017

Quando la nuda pelle non basta:il corpo e il tatuaggio

Winston Churchill aveva addosso un'ancora, Theodore e Franklin Delano Roosevelt - rispettivamente ventiseiesimo e trentaduesimo presidente degli Stati Uniti d'America - lo stemma di famiglia, mentre l'ultimo zar di tutte le Russie Nicola II, affascinato dalla cultura orientale, preferì un drago ed Elena di Savoia, moglie di Vittorio Emanuele III, una vezzosa farfalletta. Sto parlando di tatuaggi, oggi di gran moda, ma che un tempo in Europa solo pochi coraggiosi come i personaggi citati si facevano incidere chi sulle braccia o sul torace, chi sulle mani o sulla gamba. L'abitudine di decorare il corpo con incisioni e cicatrici di ogni genere risale alla preistoria: il più antico individuo tatuato di nostra conoscenza è Otzi, un uomo di mezza età ritrovato nel 1991 sulle Alpi Venoste, ai piedi del ghiacciaio del Similaun, che ha 61 tra punti, linee crocette tatuati in corrispondenza di infiammazioni artritiche. Molto più recente è la mummia di Amunet, sacerdotessa della dea Hathor che ha una serie di puntini incisi sul basso ventre, che secondo alcuni studiosi sarebbero collegati alla fertilità o alla sessualità.

In un divertente libro del 1975: “Il corpo incompiuto. Psicopatologia dell'abbigliamento”, l'architetto, storico e scrittore austriaco Bernard Rudofsky, si chiede cosa può spingere l'essere umano a non accontentarsi della sua nudità (anche quando il clima lo permetterebbe) ma a dipingersi, incidersi, deformare il corpo con busti, tacchi alti, crinoline, acconciature e molte altre stravaganti sovrapposizioni. Forse ci mancano i piumaggi colorati degli uccelli o le belle pellicce maculate e striate dei mammiferi? La sociologia e psicologia odierne forniscono varie risposte. Qui mi occuperò solo del campo relativo al tatuaggio, un sistema a volte molto doloroso per decorarsi e al tempo stesso comunicare i propri desideri e propositi, le idee, le paure, l'appartenenza culturale o lo stato sociale. I segni sul corpo infatti sono un messaggio che diamo al gruppo che ci circonda, e avevano un particolare significato per quelle che ci ostiniamo a chiamare “popolazioni primitive”.
Gli antropologi distinguono tra tatuaggi estetici, solitamente per nascondere rughe o difetti della pelle; tatuaggi portafortuna o superstiziosi, per difendersi dal malocchio o tener lontani gli spiriti maligni; d'onore, come lo sfoggiare il numero dei nemici vinti in battaglia; di possesso, eseguiti non solo sugli schiavi e il bestiame ma anche sulle mogli; religiosi come quelli dei cristiani copti che si marchiano tuttora una croce sulla fronte; di ricordo, in memoria di un caro estinto. Molto spesso le fasi importanti della vita di un individuo erano accompagnate da una cerimonia religiosa, in cui veniva sottoposto alla dolorosa iniziazione del tatuaggio per accedere a una nuova fase della vita sociale o sessuale. Sì, perché, prima dell'invenzione del benemerito ago elettrico farsi incidere la pelle non era uno scherzo: si utilizzavano – ovviamente senza anestesia - stampi, aghi, ossa o conchiglie appuntite e martelletti per far penetrare il colore sotto pelle. Presso le isole Samoa la cerimonia del tatuaggio maschile era una prova di coraggio per entrare nell'età adulta senza la quale un giovane non poteva sposarsi né tanto meno rivolgersi agli anziani, ma era considerato un paria a cui affidare solo compiti degradanti. L'operazione durava cinque giorni: la parte tatuata andava dal giro vita alle ginocchia, genitali compresi, e a volte qualcuno poteva anche lasciarci le penne.

In Europa il tatuaggio fu sempre guardato con molta diffidenza, a cominciare dagli antichi romani che – credendo nella purezza del corpo – lo consideravano una pratica buona solo per le popolazioni barbariche, e al limite lo usavano per marchiare criminali o schiavi ribelli. Il contatto tra latini e popoli nordici causò nel tempo inevitabili fenomeni di imitazione e finì per contagiare i legionari che – come Massimo Decimo Meridio nel film “Il gladiatore” - portavano incisa sull'omero la sigla SPQR, oppure la legione di appartenenza o il nome del loro imperatore. Nella Bibbia il Levitico ordina: “ Non vi farete incisioni nella carne per un defunto, né vi farete dei tatuaggi addosso”, ma il motivo principale per cui questi segni distintivi sparirono dalla pelle con l'avvento del cristianesimo fu soprattutto un decreto di papa Adriano I, che nel 787 li proibì tassativamente perché puzzavano lontano un miglio di paganesimo. Sembra però che alla chetichella l'usanza continuasse anche nel medioevo, se è vero che molti combattenti in Terra Santa si fecero incidere addosso la croce, e non solo per fede, ma anche come portafortuna contro le scimitarre dei saraceni. Da noi rimase comunque l'idea che il tatuaggio stravolgesse il corpo naturale creato da Dio, e quando i colonizzatori e soprattutto i missionari al seguito cercarono di portare i “selvaggi” sulla retta via, una delle cose che si affrettarono a combattere fu proprio l'usanza di tatuarsi.

Nonostante le autorità ostili i contrassegni corporei rimasero presenti nella cultura europea se pur con alti e bassi. Non solo i pellegrini si tatuavano, ma ci sono testimonianze che dal XVI secolo gli artigiani europei si imprimevano i simboli del loro mestiere - il cosiddetto “Marchio di Caino” - perché si credeva che il figlio fratricida di Adamo avesse intrapreso una professione manuale. Né sparirono i tatuaggi religiosi: in Italia in particolare chi si recava in pellegrinaggio a Loreto si faceva incidere in blu dai cosiddetti “Frati marcatori” simboli come il pesce, la croce, la Madonna o la Santa Casa. Ma accanto a questi segni positivi c'erano anche i marchi d'infamia: chi ha letto “I tre moschettieri” di Alexandre Dumas ricorderà che la perfida Milady aveva tatuato a fuoco sulle belle spalle il giglio di Francia (fleur de lys); sempre in Francia fu elaborato un sistema di marchiatura per i ladri (V, voleur), i mendicanti e i galeotti (rispettivamente M e Gal). Anche in Russia prima della rivoluzione d'ottobre i criminali avevano tatuata sulla fronte o sulle guance l'iniziale del loro misfatto, e la stessa sorte era riservata ai disertori in Inghilterra.

Nel XVIII secolo il capitano James Cook, che a bordo della nave HMS Endeavour esplorò per conto di Sua Maestà Britannica l'oceano Pacifico, trascrisse per la prima volta nei suoi diari di bordo la parola “Tattow” derivata dall'onomatopeico “tau-tau” che ricordava il rumore del martelletto che picchiava sulla punta che serviva a bucare la pelle. Non contento Cook si portò dalle isole Marchesi un capotribù completamente tatuato, cui seguirono altri polinesiani esposti nei circhi alla stregua della donna cannone, introducendo una nuova moda che fece impazzire dapprima l'aristocrazia europea, per poi soggiogare i viaggiatori e in particolare i marinai che consideravano quei disegni simbolici un portafortuna contro ogni pericolo. Tra la fine del Diciannovesimo e l'inizio del Ventesimo secolo ci poteva guadagnare da vivere grazie alla propria pelle presentandosi al pubblico pagante con un nome esotico (Dyta Salomé, Creola, Don Manuelo, La bella Irène, ecc.) e il corpo interamente inciso e colorato.
La pratica si diffuse ancor di più tra i criminali, in particolare dopo l'Unità d'Italia, quando molti di loro furono esiliati in Nord Africa dove appresero decorazioni che adattarono alla loro condizione di fuorilegge: tatuaggi segreti, situati in parti del corpo non visibili e che indicavano la loro affiliazione a qualche gruppo malavitoso o tatuaggi pubblici, destinati a ricordare la mamma o la donna amata, a rivendicare il loro valore, a insultare le autorità e promettere vendetta esibendo pugnali, pistole o rasoi. Questi disegni erano accompagnati da scritte che sottolineavano e ostentavano forza e disprezzo per le regole sociali: “morte agli sbirri”, “né Dio né padrone”, il francese “merde” sul lato esterno della mano e ben visibile al momento del saluto militare. 

Nell'Ottocento il criminologo Cesare Lombroso si diede allo studio della personalità malavitosa partendo dal presupposto - completamente superato - che “criminali si nasce” a causa di certe anomalie fisiche congenite che determinavano il comportamento deviante. Le sue ricerche, raccolte nella sua opera principale “L'uomo delinquente”, presero anche in considerazione più di 10.000 malviventi tatuati (donne comprese), arrivando alla conclusione che – ripescando usanze tipiche dei popoli primitivi – costoro non facevano altro che esprimere il loro legame arcaico con cavernicoli e palafitticoli. Solo tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento il tatuaggio si allargò alle culture giovanili degli hippy e delle bande di motociclisti, conquistando in seguito ogni strato sociale e fascia di età.
Al giorno d'oggi i tatuaggi criminali più famosi del mondo sono quelli a cui si sottopongono gli affiliati alla Yakuza, la famosa e potentissima mafia giapponese popolata quasi esclusivamente da uomini che hanno il corpo quasi interamente coperto da disegni molto colorati e molto dolorosi da eseguire, dal momento che non vengono usati strumenti elettrici ma una serie di aghi e bacchette che permettono di ottenere le belle e caratteristiche sfumature. I motivi degli “irezumi” – così si chiamano – sono in parte quelli delle antiche stampe Ukiyo-e fiorite nel paese tra il Diciassettesimo e Ventesimo secolo, aggiustati con elementi sanguinari: dai dragoni simbolo di longevità, alle colorate carpe che tuttora ornano i locali laghetti, collegate alla virilità, alle teste mozzate che dichiarano di accettare la morte con onore, ai demoni cornuti, e naturalmente ad animali feroci come tigri e leoni. Proprio perché caratteristici della mafia, nel Giappone moderno i tatuaggi sono guardati con sospetto e in taluni luoghi - come bagni termali, piscine e palestre – decisamente vietati. In quanto agli uomini della Yakuza evitano con cura di tatuarsi collo, braccia e gambe in modo da poter esibire le proprie decorazioni solo nelle riunioni del clan.

Fonti:
Paolo Rovesti, Alla ricerca della cosmesi dei primitivi, Blow up

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