Correva
l'anno 1989 quando uscì in Italia il libro di una scrittrice
debuttante, Lara Cardella, che nel giro di poco tempo diventò un
best-seller internazionale: “Volevo i pantaloni” narra la
tormentata adolescenza di una giovane siciliana che cerca di
emanciparsi da un ambiente chiuso e oppressivo in cui le donne -
completamente succubi del marito e dei parenti maschi – erano
bollate come prostitute quando indossavano i pantaloni. Prima di
allora nel 1961 il cardinale Siri, arcivescovo di Genova, si era
scagliato contro l'uso femminile “del vestito degli uomini”, che
secondo sua Eminenza: “cambiava la psicologia”, affondando verso
il basso (ossia verso la lussuria) i rapporti tra uomo e donna. Fino
agli anni Settanta la riprovazione verso le ragazze che portavano il
capo peccaminoso era diffusa in quasi tutto il territorio italiano,
non così nei paesi di lingua anglosassone, molto più disinvolti in
fatto di abbigliamento.
I
pantaloni sono nati più di duemila anni fa grazie ai nomadi delle
steppe euroasiatiche che - vivendo gran parte della loro vita a
cavallo - necessitavano di robusti gambali, a quanto pare indossati
sia da uomini che da donne. Da queste popolazioni barbare nacque
probabilmente il mito delle leggendarie Amazzoni, rappresentate nella
ceramica ellenica con una sorta di tuta aderente che copriva gambe e
braccia, moda che nella realtà non fu mai imitata dai greci, che
preferivano di gran lunga la sottana per ambo i sessi. Bisogna
arrivare ai romani perché i calzoni entrassero nel guardaroba
maschile nostrano: quando infatti varcarono le Alpi, i fieri
conquistatori del mondo rimasero talmente sbalorditi dal primo
impatto con i guerrieri del nord vestiti con strani tubi che
coprivano le gambe, che li chiamarono “Galli bracati”, e – se
pur con molta diffidenza – finirono per adottare il nuovo indumento
proibendolo però a fanciulle e matrone.Non
è chiaro per quale motivo le antiche società occidentali – al
contrario di quelle orientali – vedessero nell'uso dei pantaloni da
parte della donna un intollerabile tentativo di appropriarsi non solo
di un modo di vestire, ma anche di prerogative e privilegi
squisitamente maschili: forse i nostri antenati – in memoria delle
Amazzoni – temevano cosa gli sarebbe successo se l'altra metà del
cielo avesse potuto mettere le mani su armi e calzoni. A sancire il
divieto fu anche un versetto del Deuteronomio, il quinto libro della
Torah ebraica e della Bibbia cristiana che al capitolo 22 recita: “La
donna non porti indosso abito d'uomo (…) perciocché chiunque fa
tali cose è in abominio al Signore Iddio tuo”. Durante il
Medioevo, mentre l'abito maschile si accorciò fino a mostrare cosce
e perfino glutei, quello femminile rimase giocoforza ancorato alla
tradizione del lungo. Uno dei motivi che portarono Giovanna d'Arco al
martirio fu che anche in carcere la cocciuta pulzella continuò a
vestirsi da uomo con i capelli tagliati all'altezza delle orecchie; i
giudici scandalizzati la spedirono al rogo, nonostante che lei
proclamasse che quel tipo di abbigliamento le era stato imposto dalle
“voci”.
Nei
secoli successivi la situazione rimase sostanzialmente invariata, a
parte la comparsa, al tempo molto criticata, di pantaloncini corti in
tessuto prezioso nascosti sotto le gonne, le cosiddette “braghesse”.
Adottate per la prima volta in Francia da Caterina de Medici che le
usava per montare a cavallo, sembra eccitassero le fantasie maschili,
e fecero ben presto parte dell'arsenale seduttivo delle cortigiane
come primo esempio di biancheria sexy della storia. Sia nel
Cinquecento che nel Seicento le disposizioni suntuarie vietano a
queste “femmine scapestrate” di portare indumenti dell'altro
sesso, ma nel frattempo la moda aveva lanciato un'ulteriore novità: attorno agli anni Trenta del XVIII secolo, una compagnia di attori italiani della Commedia dell'arte si esibì alla corte di Francia; tra loro Pantalone dei Bisognosi indossava una casacca e un paio di braghe prive di legatura sotto il ginocchio e lunghe fino al polpaccio. Era un capo di origine popolare, ma l'annoiata aristocrazia se ne innamorò e se ne fece fare una versione nobilitata da una cascata di nastri che ebbe enorme successo, e fu ribattezzata Pantalone in onore della maschera in questione. La rivoluzione francese, che aveva imposto i sacrosanti principi di "Liberté, Egalité, Fraternité, si guardò bene di applicarli alle donne: una legge del 17 novembre 1800, o meglio del 16 brumaio dell'anno IX, vietava tassativamente i calzoni femminili. La cosa curiosa è che in Francia tale divieto è rimasto in uso - nonostante la sua manifesta assurdità - fino al 2013, al punto che negli anni Settanta una deputata arrivò a minacciare i commessi di entrare in parlamento in mutande, dal momento che non poteva farlo in pantaloni.
Durante
il 1800 parecchie donne coraggiose tentarono l'avventura di
travestirsi da uomo. Le più famose e spregiudicate furono artiste
come la pittrice Rose Bonheur e la scrittrice George Sand, che
volevano in tal modo manifestare la propria indipendenza beneficiando
anche di una certa benevolenza delle autorità. Oltre a queste
intellettuali ci furono molte ragazze anonime che – non godendo di
protezione maschile e per scampare alla fame e alla prostituzione–
si tagliarono i capelli imbarcandosi come marinai o servendo
nell'esercito. E' storicamente accertato che alcune centinaia di
donne combatterono durante la Guerra civile americana, a volte
prendendo segretamente il posto dei loro mariti e fratelli di cui
indossavano anche gli abiti. Nel mondo occidentale deroghe alle leggi
si potevano ottenere solo per motivi di lavoro, perché polvere e
sporcizia non erano certo adatte alle gonne lunghe: dal momento che
all'epoca le attività di estrazione erano abbondanti e ben pagate,
donne forti e intelligenti non esitarono a scandalizzare il
perbenismo vittoriano vestendosi da uomo e affrontando mansioni dure
ma redditizie. Così in Inghilterra le ragazze che scavavano in
miniera mettevano i pantaloni, affiancate in America dalle cercatrici
d'oro e dalle mandriane dei ranch. A cavallo tra Ottocento e
Novecento e grazie al successo di massa dello sport e delle attività
fisiche, le norme proibizioniste furono ulteriormente addolcite col
permesso di usare abiti maschili se si andava a cavallo, si faceva
alpinismo o si pedalava sul velocipede (come si chiamava allora la
bicicletta).
I
primi movimenti per l'emancipazione femminile si manifestarono in
America nel primo ventennio dell'Ottocento: l'incontro di alcune
scrittrici e attiviste per i diritti delle donne tra cui Amalia
Bloomer, sollevò il problema della scomodità degli abiti
tradizionali delle signore. Amalia aveva fondato “The Lily”, una
rivista in cui tra l'altro sosteneva che corsetto, sottogonne
inamidate, gonne lunghe fino ai piedi, costituivano una
mortificazione e un impedimento alla libertà di svolgere qualsiasi
tipo di attività. Gli indumenti proposti in sostituzione erano tutto
sommato pudici: una tunica al ginocchio sotto cui spuntavano ampi
pantaloni allacciati alle caviglie, mutuati dal costume delle donne
turche. Esportati in Europa, i Bloomer, come vennero chiamati i
calzoni, faticarono ad affermarsi perché per strada le coraggiose
che osavano metterli erano bersaglio di insulti pesanti, e – a
seconda della stagione - di palle di neve o frutta marcia. Scacciate
anche dalle chiese e dalle sale per conferenze, le sostenitrici
dell'abito riformato dovettero aspettare due generazioni e molti
incidenti mortali causati dalle ampie e ingestibili crinoline - come
restare impigliate nelle ruote dei carri o rovesciare candele e
morire carbonizzate – per riuscire a far sentire la loro voce.
Ci
vollero i due terribili conflitti del Novecento perché la gente
cominciasse ad abituarsi al nuovo indumento, quando - mentre gli
uomini erano al fronte - la popolazione femminile fu chiamata a
sostituirli al lavoro, nelle fabbriche, nei campi, negli uffici e
negli ospedali. Poter uscire di casa, avere la possibilità di
lavorare e manovrare denaro, fu una conquista che influenzò
profondamente la mentalità femminile, tant'è che negli Venti
spopolò il tipo della “garçonne”, detta in Italia “maschietta”,
una ragazza magra e piatta che – se non aveva i pantaloni - si
tagliava i capelli corti, fumava, si truccava. Un ulteriore
contributo fu dato dal cinema americano con l'invenzione dello “Star
System”, che promuoveva e valorizzava attori che sarebbero
diventati famosi in tutto il mondo. Tra le dive Marlene Dietrich,
fotografata per la prima volta durante un viaggio transoceanico in
tenuta da yachtman (giacca maschile e calzoni), impose la sua
immagine di donna androgina, sensuale e sfacciata che avrebbe
continuato a coltivare e a diffondere. Anche Katharine Hepburn,
ironica, sportiva ed educata in una famiglia aperta e moderna, non
disdegnava i pantaloni. Sulla loro scia le ragazze d'oltre oceano
iniziarono a portarli con più disinvoltura soprattutto nel tempo
libero, mentre nello stesso periodo in Italia il fascismo si
scagliava contro questo indumento che negava i tradizionali ruoli
femminili e avviava alla “decadenza della razza”.
Durante la
Seconda Guerra Mondiale donne pilota statunitensi e inglesi furono
impiegate – pur non combattendo - per sostituire i colleghi maschi
in azioni di supporto militare,
al contrario delle aviatrici russe che parteciparono attivamente ai
bombardamenti. Nessuna di queste femmine coraggiose aveva la sottana. E
dopo? Dagli anni Sessanta in poi grazie all'enorme successo dei jeans
– l'uniforme del movimento hippy – e a sarti d'avanguardia come
André Courrèges che li introdusse nelle sue collezioni, l'uso dei
pantaloni da donna cominciò lentamente ad essere considerato normale
anche in Europa e soprattutto in Italia. Alla fine del Novecento le
vendite globali dei calzoni aumentarono del 167 per cento, segno che
l'emancipazione femminile vestiaria (almeno quella) aveva vinto una
millenaria battaglia.
Fonti:
http://the-toast.net/2014/08/07/wearing-pants-brief-history/http://fashion
Fonti:
http://the-toast.net/2014/08/07/wearing-pants-brief-history/http://fashion
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