Linea e stile ma anche portabilità e praticità: così
Coco Chanel intendeva la sua moda, indirizzata in particolare alle donne che
lavoravano fuori casa, fenomeno che si stava diffondendo proprio negli anni
Venti del secolo scorso. Sorretta da
questa filosofia, nel 1926 lanciò un rivoluzionario abito nero stretto e corto,
il Tubino o - alla francese - “Petite robe noire”, ispirandosi ai grembiali
delle istitutrici dell’orfanotrofio in cui aveva trascorso la sua infanzia. Un
abito comodo, che slanciava e poteva essere indossato da tutte, ma che suscitò
scandalo perché dall’epoca della regina Vittoria non si riteneva opportuno
indossare quel colore funereo al di fuori delle occasioni di lutto. Rompendo
con la tradizione Chanel riportò in auge un colore (o come alcuni pensano, un
non-colore) che aveva conosciuto in passato tempi di gloria senza essere
necessariamente associato alla perdita di una persona cara. Il capo, nella sua
versione da sera, diventerà poi popolarissimo negli anni Sessanta quando fu
indossato con disinvoltura da Audrey Hepburn nel film "Colazione da Tiffany" mentre mangiava
un croissant di fronte alla vetrina della celebre gioielleria.
Nell’antichità i colori degli abiti avevano un impatto
simbolico molto più incisivo che in epoca moderna, ma potevano anche suggerire
– come del resto oggi - significati ambivalenti che dipendevano dai contesti
culturali e dalle variabili storiche, senza escludere aspetti di
interpretazione personale. Così, per fermarsi solo alla triade bianco, rosso e
nero, il primo era simbolo di purezza e
onestà, ma poteva anche segnalare la lugubre presenza del defunto (i sudari dei
cadaveri e i mantelli dei fantasmi), il secondo era associato alla vitalità e
all’esercizio del potere oltre che alle tentazioni della carne (tra i vizi
capitali orgoglio e lussuria si tingevano di rosso), mentre l’ultimo era
stigmatizzato come colore della morte e del diavolo, ma anche della dignità e
della serietà. Un esempio dell’ambiguità del nero nel Medioevo fu la diatriba
che oppose San Bernardo di Chiaravalle e
i suoi monaci cistercensi dalla tonaca bianca, a quelli dell’abbazia di Cluny,
che indossavano il saio nero dei benedettini: il Santo scrisse all’abate
cluniacense rimproverandolo di imporre ai suoi la tinta del demonio, e siccome
all’epoca queste cose erano prese terribilmente sul serio, ne nacque un litigio
che durò una ventina d’anni.
Come indicazione funebre il nero ha, nell’abbigliamento
europeo, una storia abbastanza recente: i primi a portare un abito scuro in
segno di lutto furono i romani, che si mettevano per l’occasione la “toga pulla”,
un mantello di colore grigio o marrone. Nel Medioevo l’usanza fu dimenticata anche per motivi
tecnici ed economici: ricavare questo tipo di tintura per colorare i drappi era
tutt’altro che facile in epoca preindustriale. Tutti i coloranti erano infatti
ottenuti dalla manipolazione di vegetali, alghe, licheni, molluschi e insetti
dai quali si ricavava un liquido in cui venivano immersi i tessuti e il cui
costo variava a seconda della rarità e disponibilità della materia prima.
Tra
le tinte più difficili c’era il nero, che poteva essere ottenuto dalla limatura
di ferro, ma che sbiadiva facilmente degenerando in scialbe tonalità grigie e
marroni. Molto più stabile e pregiata era la galla, un’escrescenza che si forma
su alcune piante in seguito all’attacco di parassiti; l’alto prezzo del
prodotto derivava dall’enorme numero di galle che serviva per colorare una
pezza intera e dal fatto che le migliori venivano importate dall’Oriente o dall’Africa.
La moda del medioevo e di parte del rinascimento fu
illuminata da una festa vivacissima di colori che non si interruppe nemmeno
durante la Grande Peste che colpì l’Europa tra il 1346 e il 1350: a quei tempi
il lutto era infatti caratterizzato da tinte scure tendenti al grigio, al verde
o all’azzurro cupi. Per le cariche
civiche come magistrati e giureconsulti il nero simboleggiava autorità morale e
probità: a Venezia ad esempio era imposto per legge ai medici, mentre a Bologna
era il colore degli scolari dello Studio.
Al contrario in alcune città era proibito alle persone di dubbia
reputazione, come indica uno Statuto di Modena che lo vieta espressamente alle
meretrici, obbligate a indossare tinte sgargianti per distinguerle dalle “donne
oneste”. L’eleganza composta e austera del costoso nero di galla affascinò
anche il patriziato urbano e le corti signorili, dal momento che monarchi come il duca di Borgogna Filippo il
Buono - e dopo di lui del figlio Carlo il Temerario - non mancarono di
inserirlo nei loro guardaroba. Bisogna tuttavia aspettare il XVI secolo perché
tutto l’abbigliamento maschile europeo si tinga d’inchiostro.
E’ un dato
assodato nella storia della moda che chi vince le guerre e arriva al potere
detta il proprio stile agli sconfitti: così quando Carlo V d’Asburgo si trovò a
dominare addirittura tre continenti, la sua corte impose i propri codici d’abbigliamento
di cui faceva parte anche il nero assoluto, considerato dall’imperatore un
colore degno del suo rango e altresì simbolo della virtù della Temperanza, di
cui nei suoi comportamenti si faceva interprete. Dalla corte di Spagna il nero
valicò le Alpi e si estese anche all’Italia, dove Baldassarre Castiglione, nel suo “Libro
del Cortegiano” lo consiglia agli uomini del bel mondo per esprimere gravità e
sussiego. L’avanzamento delle tecniche tintorie, della sartoria e della
tessitura, permetteva ormai di differenziare vari tipi di nero in un gioco
raffinatissimo di opacità e lucentezze, e moltissimi artisti cinquecenteschi,
da Tiziano a Giovan Battista Moroni, da Lorenzo Lotto al Parmigianino
rappresentarono i loro committenti in nero totale, interrotto solo dal
biancheggiare dei colletti e dallo sfavillio delle catene d’oro.
Nella
seconda metà dello stesso secolo il Concilio di Trento dette avvio alla
Controriforma che volle dare una potente stretta all’opposizione di luterani e
calvinisti al papato di Roma. Entrambi gli schieramenti abbracciarono una
religiosità severa e rigorosa che respingeva con fermezza ogni frivola e
peccaminosa pratica mondana: nei paesi
dove aveva vinto la Riforma protestante, come l’Olanda, la Scandinavia e parte della
Germania, si predicò la mortificazione del corpo e l’uso di vesti tenebrose, mentre
nelle zone rimaste cattoliche dell’Europa un buon cristiano doveva rinunciare
alla sua vanità evitando i colori vivaci e vestendosi di scuro o addirittura di
nero. Ritornarono in auge anche le medievali credenze sul Diavolo, che ormai si
sospettava essere dappertutto: dal 1550 e per lungo tempo quest’idea incrementò
il fenomeno della caccia alle streghe. Le descrizioni delle povere donne che,
sotto tortura, ammettevano di aver partecipato a un sabba, riferiscono che in
queste cerimonie notturne il corpo doveva essere tinto di fuliggine mentre gli
abiti erano neri come il Demonio che interveniva in forma di caprone.
Ancora
tinte fosche nel Seicento, secolo di guerre, conflitti religiosi, epidemie e
pestilenze e – come se non bastasse – oppresso
da un brusco abbassamento della temperatura media che
causò una pesante carestia; la grave
crisi sociale stimolò la riflessione sulla caducità della vita e la miseria
fisica e morale dell’uomo. La morte era onnipresente e
con essa cominciarono a codificarsi le pratiche del lutto nelle forme
vestiarie, nell’arredamento e addirittura nei gioielli, tra tutti il “Memento
mori”, un ciondolo prezioso a forma di bara con un piccolo cadavere incapsulato.
E’ in questo periodo che Charles de
Lorme, medico di Luigi XIII di Francia, ideò per coloro che curavano gli
appestati una veste idrorepellente in tela cerata nera lunga
fino ai piedi, comprensiva di guanti, scarpe e cappello a tesa larga. Il
lugubre abito era completato da una maschera a becco d’uccello dentro la quale
erano inserite sostanze aromatiche e una spugna imbevuta d’aceto che si credeva
proteggessero dal morbo. La maschera del medico della peste è poi passata ai
costumi carnevaleschi di Venezia.
Nel XVII secolo Isaac Newton dimostrò che la luce
bianca del sole era composta da uno spettro di sette colori: la scoperta estromise
in qualche modo il bianco - e soprattutto il nero - dal sistema cromatico e
assegnò a quest’ultimo il ruolo di non-colore, questione in parte aperta anche
al giorno d’oggi.
Col secolo dei Lumi, anche grazie all’influenza degli scritti di Rousseau e
degli enciclopedisti, si ritornò alla natura e
gli abiti si accesero di note primaverili, azzurri, verdi, blu, bianco e rosa,
con le uniche eccezioni della Spagna e dell’Italia dove persino a Venezia,
durante il lunghissimo periodo di carnevale, ci si copriva il capo con un
cappuccio di pizzo nero, la Bautta, che accoppiata a una maschera bianca detta
Larva restituiva un’idea d’inquietante mistero. All’Illuminismo
si contrappose ben presto il Romanticismo, coi suoi eroi angosciati, malaticci
e malinconici. Al volgere dell’Ottocento i romanzi gotici proclamarono il trionfo
della morte e della notte, loro compagna, assieme all’inevitabile colore nero
che dominerà tutto il secolo in particolare nella moda maschile. La tendenza –
che sarebbe durata fino agli anni venti del Novecento - era sostenuta anche dall’ascesa della
borghesia dopo la Rivoluzione francese: la nuova classe dominante rispolverò la simbologia medievale di questo colore cercando di dimostrare con frac, redingotes, cappotti monocolore e senza fronzoli, l'onestà del buon cittadino teso al lavoro, al guadagno, alla compattezza
del nucleo famigliare.
Da questo momento in poi in Occidente si richiese a dirigenti, banchieri e uomini politici e di legge di indossare abiti scuri per attestare al mondo la proprie – vere o presunte - sobrietà e professionalità; tuttora la frase “è gradito l’abito scuro” corrisponde all’invito a preferire un abbigliamento serio e formale. Nel XIX secolo anche i ceti popolari furono contagiati dal fenomeno del nero, pur con motivi per del tutto diversi: si sperava infatti che questa tetra tonalità nascondesse la povertà delle stoffe logore, e desse una parvenza di dignità a chi era in fondo alla scala sociale; quest’usanza era talmente diffusa che dal 1857 una ditta inglese cominciò a produrre un corredo interamente nero adatto agli emigranti. Alle signore invece i colori erano permessi eccezion fatta per la morte di un famigliare o del coniuge, occasione in cui i codici vestiari variavano a seconda del grado di parentela con la persona scomparsa e del tempo trascorso dalla morte: lutto stretto nei primi mesi, poi mezzo lutto e fine del lutto, periodi in cui ci si riappropriava gradualmente di tinte più vivaci e di gioielli via via più importanti. Lo sviluppo tecnologico e la nascita dei coloranti artificiali permettevano ormai di ottenere infinite nuance, e forse anche per questo dalla seconda metà del secolo si attivò la produzione specializzata di interi guardaroba adatti alle occasioni del cordoglio che comprendevano non solo vestiti ma anche borse, scarpe e cappelli e persino la biancheria, calze comprese.
Da questo momento in poi in Occidente si richiese a dirigenti, banchieri e uomini politici e di legge di indossare abiti scuri per attestare al mondo la proprie – vere o presunte - sobrietà e professionalità; tuttora la frase “è gradito l’abito scuro” corrisponde all’invito a preferire un abbigliamento serio e formale. Nel XIX secolo anche i ceti popolari furono contagiati dal fenomeno del nero, pur con motivi per del tutto diversi: si sperava infatti che questa tetra tonalità nascondesse la povertà delle stoffe logore, e desse una parvenza di dignità a chi era in fondo alla scala sociale; quest’usanza era talmente diffusa che dal 1857 una ditta inglese cominciò a produrre un corredo interamente nero adatto agli emigranti. Alle signore invece i colori erano permessi eccezion fatta per la morte di un famigliare o del coniuge, occasione in cui i codici vestiari variavano a seconda del grado di parentela con la persona scomparsa e del tempo trascorso dalla morte: lutto stretto nei primi mesi, poi mezzo lutto e fine del lutto, periodi in cui ci si riappropriava gradualmente di tinte più vivaci e di gioielli via via più importanti. Lo sviluppo tecnologico e la nascita dei coloranti artificiali permettevano ormai di ottenere infinite nuance, e forse anche per questo dalla seconda metà del secolo si attivò la produzione specializzata di interi guardaroba adatti alle occasioni del cordoglio che comprendevano non solo vestiti ma anche borse, scarpe e cappelli e persino la biancheria, calze comprese.
A cavallo tra Ottocento e Novecento il tema della
“Femme fatale”, la maliarda divoratrice di uomini e patrimoni ispirato dal
Decadentismo, introdusse un nuovo utilizzo del nero in funzione erotica che non
contagiò solo le ballerine di Can Can e le donne di facili costumi che -
seducenti e ammiccanti – mostravano le gambe inguainate in sensualissime calze
nere, ma anche le signore della borghesia bene, strette nell’abito da ballo
color notte, che metteva in evidenza per contrasto l’avorio delle spalle, del
seno e delle braccia. Il cinema appena nato diventò un vero e proprio veicolo
di diffusione delle mode e lanciò a varie riprese attrici che impersonavano
l’archetipo della seduttrice: dall’americana Theda Bara (anagramma dall’inglese
arab death, ossia morte araba), la prima vamp dello schermo, a Rita Hayworth, che nel film “Gilda” del 1946 esercitava
il suo magnetico sex appeal completamente inguainata
di nero. Durante gli anni Venti e Trenta il romanzo hard-boiled americano – che
doveva il suo successo a scrittori come Dashiell Hammet e Raymond Chandler lanciò la figura della
Dark lady gelida e ingannatrice, di
fronte alla cui oscura malvagità la vamp sembrava un giglio di campo; nello stesso periodo questa visione pessimista
e maschilista della femminilità fu ironicamente presa in giro sul quotidiano
statunitense New Yorker dalle vignette
di Charles Addams, che prestò il suo cognome alle vicende della celeberrima
famiglia, la quale assurse però a fama mondiale solo negli anni ’60, quando fu
trasferita dalla carta al mezzo televisivo in una serie che sbeffeggiava
comportamenti e fobie della borghesia americana di quei tempi. Tra tutti il
personaggio di Morticia, altera, bizzarra ed elegante, anticipava di vent’anni
la moda gotica vestendosi completamente di nero.
Nel
dopoguerra irruppe sulla scena internazionale la protesta giovanile: nelle
periferie, i ragazzi cominciarono ad aggregarsi in gruppi che cercavano la loro
identità e autonomia rispetto al mondo degli adulti. I segni di riconoscimento di queste band erano
la passione per il rock’n’ roll, le moto
potenti e l’abbigliamento non convenzionale: fu ancora una volta il
cinema ad appropriarsi del fenomeno e proporre – pur tra pesanti polemiche - la
figura del ribelle Johnny “il selvaggio”, un Marlon Brando a cavallo di una Triumph Thunderbird 6T, in jeans e giubbotto di pelle nera, mitico capo
mutuato dalla divisa degli aviatori americani. Da allora in poi il colore nero
- contrassegno di un’estetica nichilista - fu adottato come manifestazione di
opposizione alla società e rottura dalla tradizione: dagli Esistenzialisti, ai
Punk degli anni Settanta col loro motto “no future”, ai Goth inglesi degli
Ottanta – conosciuti in Italia come Dark - che introdussero la moda gotica ed
erano portatori di uno stile assai più radicale che escluse qualsiasi tipo di
colore, mentre il nero debordava dall’abito fino ai capelli, agli accessori,
allo smalto per le unghie.
La ribellione è nera anche nel colore della
pelle: nel 1968 durante i giochi olimpici di Città del Messico, due velocisti
afroamericani - Tommie Smith e John Carlos – salirono sul podio per ritirare l'oro e il bronzo dei 200 metri, alzando il pugno calzato da un guanto nero, gesto che voleva portare all'attenzione del pubblico mondiale, il movimento statunitense delle Pantere nere, che lottava per i diritti dei loro connazionali emarginati.
Dal secolo scorso al giorno d’oggi il nero ha mantenuto
l’ambivalenza che lo ha caratterizzato in passato: simbolo di mistero, malinconia,
rifiuto e depressione, viene considerato demoniaco e mortifero se associato al
conte Dracula, alle camicie nere dei fascisti, alle divise dei nazisti,
all’attuale bandiera dello Stato islamico, ma diventa emblema di giustizia nel
costume degli eroi della letteratura, del cinema e del fumetto come Zorro,
Batman e Diabolik. Tinta positiva della decisione – si dice infatti “mettere
nero su bianco” – attualmente ha perso
completamente la connotazione legata al lusso, pur se rimane indice di sobrietà, contegno e raffinatezza e per questo è a volte riproposto dagli stilisti: memorabile le collezioni di Dolce & Gabbana - che alla fine degli anni Ottanta imposero il look della donna siciliana tradizionale e nerovestita ispirandosi a Monica Vitti ne:”La ragazza con la pistola” o del giapponese Yohji Yamamoto la cui scelta del nero è motivata dalla ricerca dell’essenza dell’abito.
completamente la connotazione legata al lusso, pur se rimane indice di sobrietà, contegno e raffinatezza e per questo è a volte riproposto dagli stilisti: memorabile le collezioni di Dolce & Gabbana - che alla fine degli anni Ottanta imposero il look della donna siciliana tradizionale e nerovestita ispirandosi a Monica Vitti ne:”La ragazza con la pistola” o del giapponese Yohji Yamamoto la cui scelta del nero è motivata dalla ricerca dell’essenza dell’abito.
Fonti:
Michel Pastoureau, Nero. Storia di un colore, Ponte
alle grazie
Bianco e
nero, a cura di Grazietta Buttazzi e Alessandra Mottola Molfino, Ed. De Agostini
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