
Nell’antichità i colori degli abiti avevano un impatto
simbolico molto più incisivo che in epoca moderna, ma potevano anche suggerire
– come del resto oggi - significati ambivalenti che dipendevano dai contesti
culturali e dalle variabili storiche, senza escludere aspetti di
interpretazione personale. Così, per fermarsi solo alla triade bianco, rosso e
nero, il primo era simbolo di purezza e
onestà, ma poteva anche segnalare la lugubre presenza del defunto (i sudari dei
cadaveri e i mantelli dei fantasmi), il secondo era associato alla vitalità e
all’esercizio del potere oltre che alle tentazioni della carne (tra i vizi
capitali orgoglio e lussuria si tingevano di rosso), mentre l’ultimo era
stigmatizzato come colore della morte e del diavolo, ma anche della dignità e
della serietà. Un esempio dell’ambiguità del nero nel Medioevo fu la diatriba
che oppose San Bernardo di Chiaravalle e
i suoi monaci cistercensi dalla tonaca bianca, a quelli dell’abbazia di Cluny,
che indossavano il saio nero dei benedettini: il Santo scrisse all’abate
cluniacense rimproverandolo di imporre ai suoi la tinta del demonio, e siccome
all’epoca queste cose erano prese terribilmente sul serio, ne nacque un litigio
che durò una ventina d’anni.

Tra
le tinte più difficili c’era il nero, che poteva essere ottenuto dalla limatura
di ferro, ma che sbiadiva facilmente degenerando in scialbe tonalità grigie e
marroni. Molto più stabile e pregiata era la galla, un’escrescenza che si forma
su alcune piante in seguito all’attacco di parassiti; l’alto prezzo del
prodotto derivava dall’enorme numero di galle che serviva per colorare una
pezza intera e dal fatto che le migliori venivano importate dall’Oriente o dall’Africa.
La moda del medioevo e di parte del rinascimento fu
illuminata da una festa vivacissima di colori che non si interruppe nemmeno
durante la Grande Peste che colpì l’Europa tra il 1346 e il 1350: a quei tempi
il lutto era infatti caratterizzato da tinte scure tendenti al grigio, al verde
o all’azzurro cupi. Per le cariche
civiche come magistrati e giureconsulti il nero simboleggiava autorità morale e
probità: a Venezia ad esempio era imposto per legge ai medici, mentre a Bologna
era il colore degli scolari dello Studio.
Al contrario in alcune città era proibito alle persone di dubbia
reputazione, come indica uno Statuto di Modena che lo vieta espressamente alle
meretrici, obbligate a indossare tinte sgargianti per distinguerle dalle “donne
oneste”. L’eleganza composta e austera del costoso nero di galla affascinò
anche il patriziato urbano e le corti signorili, dal momento che monarchi come il duca di Borgogna Filippo il
Buono - e dopo di lui del figlio Carlo il Temerario - non mancarono di
inserirlo nei loro guardaroba. Bisogna tuttavia aspettare il XVI secolo perché
tutto l’abbigliamento maschile europeo si tinga d’inchiostro.

Nella
seconda metà dello stesso secolo il Concilio di Trento dette avvio alla
Controriforma che volle dare una potente stretta all’opposizione di luterani e
calvinisti al papato di Roma. Entrambi gli schieramenti abbracciarono una
religiosità severa e rigorosa che respingeva con fermezza ogni frivola e
peccaminosa pratica mondana: nei paesi
dove aveva vinto la Riforma protestante, come l’Olanda, la Scandinavia e parte della
Germania, si predicò la mortificazione del corpo e l’uso di vesti tenebrose, mentre
nelle zone rimaste cattoliche dell’Europa un buon cristiano doveva rinunciare
alla sua vanità evitando i colori vivaci e vestendosi di scuro o addirittura di
nero. Ritornarono in auge anche le medievali credenze sul Diavolo, che ormai si
sospettava essere dappertutto: dal 1550 e per lungo tempo quest’idea incrementò
il fenomeno della caccia alle streghe. Le descrizioni delle povere donne che,
sotto tortura, ammettevano di aver partecipato a un sabba, riferiscono che in
queste cerimonie notturne il corpo doveva essere tinto di fuliggine mentre gli
abiti erano neri come il Demonio che interveniva in forma di caprone.
Ancora
tinte fosche nel Seicento, secolo di guerre, conflitti religiosi, epidemie e
pestilenze e – come se non bastasse – oppresso
da un brusco abbassamento della temperatura media che
causò una pesante carestia; la grave
crisi sociale stimolò la riflessione sulla caducità della vita e la miseria
fisica e morale dell’uomo. La morte era onnipresente e
con essa cominciarono a codificarsi le pratiche del lutto nelle forme
vestiarie, nell’arredamento e addirittura nei gioielli, tra tutti il “Memento
mori”, un ciondolo prezioso a forma di bara con un piccolo cadavere incapsulato.
E’ in questo periodo che Charles de
Lorme, medico di Luigi XIII di Francia, ideò per coloro che curavano gli
appestati una veste idrorepellente in tela cerata nera lunga
fino ai piedi, comprensiva di guanti, scarpe e cappello a tesa larga. Il
lugubre abito era completato da una maschera a becco d’uccello dentro la quale
erano inserite sostanze aromatiche e una spugna imbevuta d’aceto che si credeva
proteggessero dal morbo. La maschera del medico della peste è poi passata ai
costumi carnevaleschi di Venezia.

Col secolo dei Lumi, anche grazie all’influenza degli scritti di Rousseau e
degli enciclopedisti, si ritornò alla natura e
gli abiti si accesero di note primaverili, azzurri, verdi, blu, bianco e rosa,
con le uniche eccezioni della Spagna e dell’Italia dove persino a Venezia,
durante il lunghissimo periodo di carnevale, ci si copriva il capo con un
cappuccio di pizzo nero, la Bautta, che accoppiata a una maschera bianca detta
Larva restituiva un’idea d’inquietante mistero. All’Illuminismo
si contrappose ben presto il Romanticismo, coi suoi eroi angosciati, malaticci
e malinconici. Al volgere dell’Ottocento i romanzi gotici proclamarono il trionfo
della morte e della notte, loro compagna, assieme all’inevitabile colore nero
che dominerà tutto il secolo in particolare nella moda maschile. La tendenza –
che sarebbe durata fino agli anni venti del Novecento - era sostenuta anche dall’ascesa della
borghesia dopo la Rivoluzione francese: la nuova classe dominante rispolverò la simbologia medievale di questo colore cercando di dimostrare con frac, redingotes, cappotti monocolore e senza fronzoli, l'onestà del buon cittadino teso al lavoro, al guadagno, alla compattezza
del nucleo famigliare.
Da questo momento in poi in Occidente si richiese a dirigenti, banchieri e uomini politici e di legge di indossare abiti scuri per attestare al mondo la proprie – vere o presunte - sobrietà e professionalità; tuttora la frase “è gradito l’abito scuro” corrisponde all’invito a preferire un abbigliamento serio e formale. Nel XIX secolo anche i ceti popolari furono contagiati dal fenomeno del nero, pur con motivi per del tutto diversi: si sperava infatti che questa tetra tonalità nascondesse la povertà delle stoffe logore, e desse una parvenza di dignità a chi era in fondo alla scala sociale; quest’usanza era talmente diffusa che dal 1857 una ditta inglese cominciò a produrre un corredo interamente nero adatto agli emigranti. Alle signore invece i colori erano permessi eccezion fatta per la morte di un famigliare o del coniuge, occasione in cui i codici vestiari variavano a seconda del grado di parentela con la persona scomparsa e del tempo trascorso dalla morte: lutto stretto nei primi mesi, poi mezzo lutto e fine del lutto, periodi in cui ci si riappropriava gradualmente di tinte più vivaci e di gioielli via via più importanti. Lo sviluppo tecnologico e la nascita dei coloranti artificiali permettevano ormai di ottenere infinite nuance, e forse anche per questo dalla seconda metà del secolo si attivò la produzione specializzata di interi guardaroba adatti alle occasioni del cordoglio che comprendevano non solo vestiti ma anche borse, scarpe e cappelli e persino la biancheria, calze comprese.
Da questo momento in poi in Occidente si richiese a dirigenti, banchieri e uomini politici e di legge di indossare abiti scuri per attestare al mondo la proprie – vere o presunte - sobrietà e professionalità; tuttora la frase “è gradito l’abito scuro” corrisponde all’invito a preferire un abbigliamento serio e formale. Nel XIX secolo anche i ceti popolari furono contagiati dal fenomeno del nero, pur con motivi per del tutto diversi: si sperava infatti che questa tetra tonalità nascondesse la povertà delle stoffe logore, e desse una parvenza di dignità a chi era in fondo alla scala sociale; quest’usanza era talmente diffusa che dal 1857 una ditta inglese cominciò a produrre un corredo interamente nero adatto agli emigranti. Alle signore invece i colori erano permessi eccezion fatta per la morte di un famigliare o del coniuge, occasione in cui i codici vestiari variavano a seconda del grado di parentela con la persona scomparsa e del tempo trascorso dalla morte: lutto stretto nei primi mesi, poi mezzo lutto e fine del lutto, periodi in cui ci si riappropriava gradualmente di tinte più vivaci e di gioielli via via più importanti. Lo sviluppo tecnologico e la nascita dei coloranti artificiali permettevano ormai di ottenere infinite nuance, e forse anche per questo dalla seconda metà del secolo si attivò la produzione specializzata di interi guardaroba adatti alle occasioni del cordoglio che comprendevano non solo vestiti ma anche borse, scarpe e cappelli e persino la biancheria, calze comprese.

Nel
dopoguerra irruppe sulla scena internazionale la protesta giovanile: nelle
periferie, i ragazzi cominciarono ad aggregarsi in gruppi che cercavano la loro
identità e autonomia rispetto al mondo degli adulti. I segni di riconoscimento di queste band erano
la passione per il rock’n’ roll, le moto
potenti e l’abbigliamento non convenzionale: fu ancora una volta il
cinema ad appropriarsi del fenomeno e proporre – pur tra pesanti polemiche - la
figura del ribelle Johnny “il selvaggio”, un Marlon Brando a cavallo di una Triumph Thunderbird 6T, in jeans e giubbotto di pelle nera, mitico capo
mutuato dalla divisa degli aviatori americani. Da allora in poi il colore nero
- contrassegno di un’estetica nichilista - fu adottato come manifestazione di
opposizione alla società e rottura dalla tradizione: dagli Esistenzialisti, ai
Punk degli anni Settanta col loro motto “no future”, ai Goth inglesi degli
Ottanta – conosciuti in Italia come Dark - che introdussero la moda gotica ed
erano portatori di uno stile assai più radicale che escluse qualsiasi tipo di
colore, mentre il nero debordava dall’abito fino ai capelli, agli accessori,
allo smalto per le unghie.

Dal secolo scorso al giorno d’oggi il nero ha mantenuto
l’ambivalenza che lo ha caratterizzato in passato: simbolo di mistero, malinconia,
rifiuto e depressione, viene considerato demoniaco e mortifero se associato al
conte Dracula, alle camicie nere dei fascisti, alle divise dei nazisti,
all’attuale bandiera dello Stato islamico, ma diventa emblema di giustizia nel
costume degli eroi della letteratura, del cinema e del fumetto come Zorro,
Batman e Diabolik. Tinta positiva della decisione – si dice infatti “mettere
nero su bianco” – attualmente ha perso
completamente la connotazione legata al lusso, pur se rimane indice di sobrietà, contegno e raffinatezza e per questo è a volte riproposto dagli stilisti: memorabile le collezioni di Dolce & Gabbana - che alla fine degli anni Ottanta imposero il look della donna siciliana tradizionale e nerovestita ispirandosi a Monica Vitti ne:”La ragazza con la pistola” o del giapponese Yohji Yamamoto la cui scelta del nero è motivata dalla ricerca dell’essenza dell’abito.
completamente la connotazione legata al lusso, pur se rimane indice di sobrietà, contegno e raffinatezza e per questo è a volte riproposto dagli stilisti: memorabile le collezioni di Dolce & Gabbana - che alla fine degli anni Ottanta imposero il look della donna siciliana tradizionale e nerovestita ispirandosi a Monica Vitti ne:”La ragazza con la pistola” o del giapponese Yohji Yamamoto la cui scelta del nero è motivata dalla ricerca dell’essenza dell’abito.
Fonti:
Michel Pastoureau, Nero. Storia di un colore, Ponte
alle grazie
Bianco e
nero, a cura di Grazietta Buttazzi e Alessandra Mottola Molfino, Ed. De Agostini