L’indipendenza
di Venezia e i suoi traffici mercantili
con l’Oriente avevano permesso da molto tempo l’arrivo in città di merci o usanze
sconosciute altrove, come quella di forarsi le orecchie per inserire orecchini
a pendente, assoluta novità per quel tempo, e biasimati perché – osserva un
cronista – bucavano i lobi “a guisa di more”. La Repubblica esprimeva inoltre
una sua propria identità in fatto di moda femminile resistendo al contagio,
proveniente dai territori confinanti dominati dalla Spagna, degli abiti
irrigiditi e tesi sulla sottogonna a cerchi – la faldiglia - chiusi alla gola dal collo a lattughe o
gorgiera: i ritratti di Tiziano, del Veronese e del Tintoretto mostrano infatti
signore in vesti talmente scollate che solo un velo o una reticella sembrano
nascondere il seno. E’ questo il caso di Giustiniana Giustinian rappresentata
dal Veronese con una veste azzurra dalla vita a punta, col busto aperto su un
vasto décolleté e con la pancia leggermente sporgente secondo la moda del
“panceron” o “falso ventre”proveniente dalla Francia.
Il
tenore di vita dei veneziani del periodo era probabilmente il più elevato di
tutta l’Europa, come si può notare dalle leggi Suntuarie emesse dal Senato che,
con provvedimenti estremamente minuziosi, tentavano di limitare il lusso
eccezion fatta per il Doge e la sua famiglia: vietati i drappi in oro e
argento, i guanti ricamati in oro, limitate le pellicce di pregio e i gioielli.
Concessi invece i tessuti in seta, purché in tinta unita. Il controllo era effettuato da “Uffiziali”
incaricati alla bisogna che ispezionavano le case e persino le camere delle
partorienti, accoglievano e incoraggiavano
le denunce della servitù promettendo loro in cambio di incassare metà della
multa. I divieti potevano essere infranti solo in occasioni particolari come la
visita di sovrani stranieri: quando Enrico III di Valois visitò Venezia nel
1574, la Serenissima deliberò appunto la sospensione delle regole vestimentarie
e il re fu accolto, con sua piacevole sorpresa, da duecento gentildonne in
abito bianco ricoperte di gioielli.
Importantissimi per la documentazione relativa al costume veneto del tardo Rinascimento sono le incisioni e le stampe contemporanee, spesso corredate dal testo.
Tra queste
opere la più ricca e completa è certamente costituita dal volume di Cesare
Vecellio, pittore e cugino di Tiziano, edito nel 1590 col titolo “De gli habiti
antichi et moderni di diverse parti del mondo”, una sorta di storia del costume
completa di circa 400 incisioni xilografiche di abiti europei, africani e
asiatici, con la descrizione e l’evoluzione nel tempo di ogni vestito senza
escludere categorie, età e classi sociali. Riguardo gli abiti delle donne del
popolo la loro forma era spesso dovuta sia all’intervento della legge sia alla
pratica del lavoro: così sappiamo che in alcune città italiane si tentava di
obbligarle all’uso di tessuti scuri che non raccolgono sporco. Non si deve
dimenticare inoltre che i colori delle vesti antiche erano naturali e che il
loro costo variava a seconda della rarità della materia prima e della
simbologia che implicava: per fare un esempio non sarebbe stato possibile vedere
addosso a una popolana lo scarlatto, tinta preziosa e adatta ai panni dei
potenti.
Nelle
incisioni del Vecellio le contadine portano comode gonne che mostrano la
caviglia laddove le signore hanno lo strascico, la cui lunghezza poteva variare
a seconda delle disponibilità di spesa: il Vecellio riserva quello corto e meno costoso alle signore
attempate e a quelle che lui chiama “dismesse”, ossia le patrizie decadute.
L’artista non manca di documentare popolane coi cappelli di paglia a larghe
tese, indispensabili per tutti coloro che stavano parecchio all’aperto; altro
segno di divario sociale tra umili e
benestanti era costituito dalle scarpe prive di tacco, fossero pianelle,
zoccoli o completamente chiuse.
Sembra infatti che Venezia sia stata la città
di nascita della pericolosa moda femminile dei “calcagnini”, detti in Francia
“chopines”, un paio di calzature munite di suola altissima – fino a un braccio
– che costringevano le signore rette su quei trampoli ad appoggiarsi a un paio
di inservienti per non cadere. Non è chiara l’origine di queste curiose scarpe:
secondo alcuni la strana foggia serviva per attraversare le calli e i campielli
invasi dall’acqua alta, mentre per altri
erano state introdotte dai mariti gelosi per
costringere le mogli fedifraghe a stare in casa. Certo è che i
calcagnini furono adottati con entusiasmo dalle meretrici, come testimoniano
un’incisione de gli “Habiti” e una eseguita da Pietro Bertelli, autore di un
altro testo sui costumi delle varie nazioni; curiosamente quest’ultimo ha nascosto
la parte sottostante della figura di prostituta
sotto a un foglietto applicato sulla veste che alzandosi, mostra sia i
calcagnini sia un paio di braghesse – o calzoni alla galeota – un indumento
mascolino di moda a quell’epoca tra le signore italiane e ancor di più tra le
cortigiane che li ritenevano uno strumento di seduzione.Non sappiamo se Giustinana Giustinian indossasse il calcagnini, anche se non si può escludere che fosse calzata con un paio di pianelle con le zeppe, ma tornando all’affresco del Veronese ed esaminando gli abiti delle due donne, si può sottolineare il contrasto tra la veste di seta azzurra con lumeggiature in oro della patrizia e quella di lana scura della nutrice, la cui scollatura è coperta da un fazzoletto – detto a Venezia “fazuolo” – uno degli accessori caratteristici del vestire popolare femminile, che non poteva certo essere arricchito coi sontuosi colli di merletto di Burano, altra importante specialità lagunare.
Ma
oltre la ricchezza dell’abito, l’elemento che contrassegna maggiormente la
differenza sociale dei personaggi è il colore della pelle e dei capelli: fin
dall’epoca degli antichi egizi infatti le donne benestanti e non obbligate al
lavoro all’aria aperta vennero rappresentate con pelle bianchissima, labbra
rosse e guance rosate ad indicare lo stato privilegiato delle dame facoltose
rispetto alle donne scure e abbronzate delle classi povere. La pelle candida
spesso non era un dono di natura ma un artificio ottenuto coi cosmetici: in
particolare ci si spalmava viso e scollatura con la biacca, un prodotto
venefico composto di carbonato basico di piombo, utilizzato come fondo tinta fino
alle soglie del XX secolo senza conoscerne bene gli effetti tossici. Celebri
prototipi di bellezza femminile, le veneziane erano famose anche per i loro
capelli biondo-rossi, che ottenevano esponendoli al sole per ore e bagnandoli con la cosiddetta “bionda”, un
preparato a base di acqua e cenere (la stessa liscivia con cui si lavavano i
panni) guscio d’uovo, scorza d’arancio e zolfo, minerale che causava l’ondulazione permanente dei capelli.
Tuttavia la cosmesi antica non era solo tossica, ma ricorreva anche a
rudimentali preparati a base di prodotti naturali: Giustiniana probabilmente
dormiva come le sue concittadine applicandosi sul viso fettine crude di carne
di vitella bagnate nel latte. Una maschera nutriente che certamente la grinzosa
nutrice non usava.
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