La Repubblica di Venezia, che si era data una forma definitiva di governo nel XIV secolo, era retta da un patriziato mercantile che ne aveva fatto il principale emporio europeo in tutto il Mediterraneo. Governata solo formalmente dal Doge, ma nella realtà dal Maggior Consiglio, era anche l’unico stato dove il Patriarca (il Vescovo) godeva di una certa indipendenza dalla Chiesa di Roma. I traffici con l’Oriente e la sua libertà, ne fecero il più potente stato italiano del XV secolo, e permisero l’arrivo di oggetti alla moda e di usanze altrove sconosciute. Probabilmente per questo motivo gli uomini e le donne veneziane assunsero presto costumi differenziati in parte dal resto d’Italia, senza soffrire delle limitazioni con cui le leggi sull'abbigliamento vigenti altrove costringevano la popolazione.
Nemmeno la Caduta di Costantinopoli (1453) e la scoperta dell’America (1492) che pur ebbero gravi ripercussioni sui traffici mercantili, riuscirono a piegare la Serenissima, che cominciò a perdere la sua potenza dal XVIII secolo, brillando tuttavia ancora per le eccezionali qualità dei suoi artisti.
Nemmeno la Caduta di Costantinopoli (1453) e la scoperta dell’America (1492) che pur ebbero gravi ripercussioni sui traffici mercantili, riuscirono a piegare la Serenissima, che cominciò a perdere la sua potenza dal XVIII secolo, brillando tuttavia ancora per le eccezionali qualità dei suoi artisti.
A cominciare dal XVI secolo, quando la moda spagnola imperversava in tutta Italia, racchiudendo la figura femminile dentro abiti rigidi e accollatissimi, i ritratti di Tiziano, del Veronese e del Tintoretto mostrano signore in vesti talmente scollate che solo un velo nascondeva i capezzoli. I colli di trine rialzati dietro la testa tramite armature metalliche nascoste, quasi a sottolineare il volto, erano molto diffusi, grazie anche all’abilità delle merlettaie di Burano, i cui segreti erano severamente controllati dalla Serenissima. Vestiti sontuosi erano corredati da vari accessori: i Ventagli, che allora avevano una forma a banderuola e non erano pieghevoli; le scarpe che a Venezia erano chiamate Calcagnini o Ciopine, alte circa 50 centimetri e che obbligavano le signore a camminare appoggiandosi a due cameriere; gli orecchini a pendente, assoluta novità per quel tempo, biasimati perché – come osserva un cronista del tempo – foravano i lobi “a guisa di more”. I “Calzoni a la galeota” erano corte braghe al ginocchio nascoste sotto la gonna, forse introdotte in Italia da Lucrezia Borgia, e particolarmente indossate a Venezia dalle prostitute e dalle cortigiane. Cesare Vecellio, lontano parente di Tiziano e attento osservatore della moda contemporanea, ricorda nella sua famosa opera illustrata “Habiti antichi et moderni di diverse parti del mondo” che le meretrici usavano “braghesse come gl’uomini” ossia un tipo di abbigliamento che per l’epoca era sfacciatamente virile. Una delle glorie di Venezia era infine il colore dei capelli delle donne, una sorta di rosso tiziano, che si otteneva stando sedute per ore su un’altana, con indosso un cappello senza cupola e a tesa larga, detto Solana, spalmandosi le chiome con acque a base di cenere, guscio d’uovo, scorza d’arancio e zolfo. Anche nelle acconciature le veneziane dimostravano la loro originalità: alla fine del ‘500 una pettinatura a forma di corna era la più diffusa in città. Dalla fronte partivano due mezze lune di riccioli che - osserva sempre il Vecellio – sono “tanto alte, che pare cosa troppo sconcia”.
Alcuni testi contemporanei sono riferimenti fondamentali per conoscere la storia della moda veneta. Il libro del Vecellio, pubblicato a Venezia nel 1590, poi ampliato otto anni dopo, comprendeva più di 500 incisioni di abiti maschili e femminili veneziani e di altre città, estendendosi anche al resto d’Europa e all’Africa, all’Oriente, con un’ ulteriore aggiunta nella seconda edizione che includeva anche le vesti del Nuovo Mondo. L’autore cataloga gli abiti con riferimento al rango sociale, all’età allo stato civile, alle stagioni o alle occasioni festive. Abbiamo quindi le “donzelle”, le “spose”, le “donne attempate” le”vedove” le “orfanelle”, il Doge, gli ambasciatori, i cavalieri, i becchini, i galeotti, i contadini.
Nello stesso periodo l’editore-calcografo Pietro Bertelli pubblicava in Padova una raccolta in 3 volumi intitolata “Diversarum nationum habitus” contenente 234 incisioni eseguiti parte da lui, parte da altri illustratori rimasti anonimi. Il veneziano Giacomo Franco invece realizzò tra l’altro un interessantissimo tomo intitolato “Habiti delle Donne Venetiane intagliate in rame nuovamente” con 19 incisioni in rame. L’eccezionalità del volume sta nella riproduzione di costumi indossati durante il carnevale o nelle tante feste che si svolgevano in città come la “Corsa dei tori”, negli abiti di cortigiane, o in quelli di attività sportive come la caccia.
Durante il XVII secolo erano molto diffuse in Europa le feste in maschera, in particolare durante il Carnevale. A Venezia tale usanza era stata permessa fin dalla metà del Duecento, poi limitata, dal momento che si prestava a frodi e abusi; la chiesa inoltre disapprovava la maschera considerandola demoniaca in quanto il Maligno si era travestito da serpente per tentare Eva. Ma dal Seicento il Carnevale entrò sempre più nelle usanze popolari e l’uso di mascherarsi venne esteso a tutti i ceti sociali, con particolari regolamentazioni governative, che lo facevano iniziare il giorno di Santo Stefano e terminare alla Quaresima. Le maschere erano inoltre permesse dal 5 ottobre al 16 dicembre, quando Doge e procuratori venivano eletti, e in altre occasioni che non comportassero cerimonie penitenziali, al punto che si diceva che la città era mascherata per circa metà dell’anno. Il travestimento che nascondeva l’identità della persona, era collegato alla gioia, alla galanteria ma anche al tradimento e alla libertà di uscire dagli schemi quotidiani. Gli artigiani che fabbricavano maschere si chiamavano a Venezia “Mascareri” e si erano riuniti in corporazione già dal XV secolo, suddividendosi i compiti di fabbricare la maschera in carta pesta o in tela cerata (targheri) e di dipingerla (dipintori).
Nel Settecento le maschere veneziane avevano alcune caratteristiche in comune: uomo e donna indossavano abiti normali ricoperti dal Tabarro, un ampio mantello circolare, solitamente bianco, nero o scarlatto. La testa però era nascosta dalla “Bauta”, un mantelletto nero a cappuccio, spesso lavorato in pizzo, che lasciava scoperta solo la faccia. Sul capo era comune usanza appoggiare il Tricorno, il cappello a tre punte tipico del secolo. Sul viso si metteva normalmente la “Larva”, con naso a becco, bianca e spettrale. Il temine è di origine latina e significa “fantasma, spettro, spirito del male”: la sua forma permetteva da una parte di nascondere quasi completamente il volto lasciando però bocca e mento scoperti per mangiare e bere, mentre la voce usciva alterata per la volontà di non farsi scoprire.
Molte donne invece, appoggiavano sul volto la “Moretta”, detta anche “Servetta muta” costituita da una piccola maschera ovale di velluto scuro, indossata con un delicato cappellino e con indumenti e velature raffinate. La Moretta era un travestimento scomodo e muto, poiché doveva reggersi sul volto tenendo in bocca un bottone interno.
Un altro costume tipico del tempo era la "Gnaga" (derivato dal miagolio del gatto) un travestimento da donna indossato dagli uomini facile da realizzare e di uso comune. Gli indumenti femminili erano completati da una maschera con le sembianze di una gatta e da una cesta al braccio che poteva contenere un gattino.Chi indossava la gnaga imitava il modo di fare delle donne ma ne involgariva il linguaggio, utilizzando toni striduli, da cui l'espressione:"ti ga na vose da gnaga". A volte chi si travestiva così simulava di essere una balia, facendosi accompagnare anche da bambini e lamciando lazzi osceni ai passanti. Secondo i documenti del tempo i giovani uomini che indossavano questa maschera praticavano l'omosessualità.
Un altro costume tipico del tempo era la "Gnaga" (derivato dal miagolio del gatto) un travestimento da donna indossato dagli uomini facile da realizzare e di uso comune. Gli indumenti femminili erano completati da una maschera con le sembianze di una gatta e da una cesta al braccio che poteva contenere un gattino.Chi indossava la gnaga imitava il modo di fare delle donne ma ne involgariva il linguaggio, utilizzando toni striduli, da cui l'espressione:"ti ga na vose da gnaga". A volte chi si travestiva così simulava di essere una balia, facendosi accompagnare anche da bambini e lamciando lazzi osceni ai passanti. Secondo i documenti del tempo i giovani uomini che indossavano questa maschera praticavano l'omosessualità.
C’erano inoltre maschere ispirate al circo, come quelle “dell’uomo agile”, solitamente sui trampoli o dotati di curiose calzature a pattino, per poter camminare sulla laguna ghiacciata; il “Mattaccino” un pagliaccio che indossava una veste molto colorata e lanciava uova profumate dai balconi; il Bernardone, che fingeva di essere malato e camminava sorretto da due grucce. Per non dimenticare i personaggi della Commedia dell’arte e in particolare quelle di Carlo Goldoni, che contribuì a renderle famose in tutto il mondo. Molte di queste fogge sono raccolte nel libro di acquerelli di Giovanni Grevembroch, “Gli Abiti de Veneziani di quasi ogni età con Diligenza dipinti e raccolti nel secolo XVIII”. Il Grevembroch, di famiglia originaria dei Paesi Bassi dedicò un ventennio di vita a questa ricca raccolta in 4 volumi, modesta come fattura pittorica, ma fondamentale come documentazione.
http://www.delpiano.com/carnival/html/masks.html
Bibliografia: Rosita Levi Pizetsky, Storia della moda in Italia, Istituto editoriale italiano, vol. IV, Milano - 1969
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